I comunisti israeliani contro l’ondata bellicista
L’attacco portato da Hamas al sud di Israele, nel quale oltre a 300 militari sono stati uccisi centinaia di civili, ha aperto una nuova fase del conflitto israelo-palestinese dalle conseguenze imprevedibili. Esercito e servizi segreti dello stato ebraico sono stati presi alla sprovvista e il bilancio in termini di vittime è stato il più alto subito da Israele al di fuori delle diverse guerre tra Stati che lo hanno visto protagonista dal 1948 ad oggi.
All’interno del paese la reazione è stata da un lato di estesa critica al governo di Netanyahu, che unisce destra ed estrema destra suprematista, accusato di avere sguarnito la difesa al confine con Gaza per rafforzare il sostegno militare ai coloni che occupano illegalmente i territori palestinesi in Cisgiordania. A Netanyahu personalmente viene anche imputato di avere diviso in due campi frontalmente contrapposti la società israeliana per imporre una riduzione dei poteri della Corte Suprema sostanzialmente finalizzata a garantire la propria impunità dalle accuse di corruzione ma anche a piegare alla propria visione autoritaria il sistema politico israeliano.
L’attacco di Hamas ha pericolosamente scatenato un’ondata bellicista che in larga misura sostiene l’idea dell’azione militare a Gaza, anche se questo comporta di colpire indiscriminatamente la popolazione civile come sta avvenendo in questi giorni e continuerà ancora per non si sa quanto tempo.
L’esercito ha già predisposto una “grande armata” di 300.000 uomini (e donne) al confine con la striscia di Gaza, pronta ad invadere quel disgraziato territorio. Nel frattempo ha avviato una vasta campagna di bombardamenti, ha intimato a un milione di abitanti di spostarsi nella parte sud del territorio (che per altro ha continuato ad essere colpito dall’aviazione israeliana), e ha bloccato tutti i rifornimenti vitali per la popolazione. Solo una piccola quota di aiuti ha potuto attraversare, dopo lunghe e laboriose trattative, il valico di Rafah, unico passaggio di collegamento con l’Egitto.
L’esercito ha dichiarato di essere pronto per avviare un’operazione militare che prevede l’attacco da terra, dal mare e dall’aria, ma attende il via libera del governo. Netanyahu sembra ancora incerto sul da farsi. I settori più oltranzisti del governo pensano che questa sia l’occasione per avviare una grande operazione di pulizia etnica che possa liberarsi definitivamente dell’ingombro palestinese, costringendo alla fuga gli abitanti di Gaza e forse anche quelli della Cisgiordania. Operazione alla quale si oppongono evidentemente sia l’Egitto che la Giordania.
Per ora il governo e l’esercito hanno dichiarato un obbiettivo più limitato ma certamente ambizioso. Rimuovere completamente la presenza di Hamas da Gaza. Questo può implicare un conflitto che, come ha dichiarato un portavoce militare al quotidiano israeliano Haaretz, potrebbe durare quasi certamente mesi e forse anni. Questa è la preoccupazione degli Stati Uniti che, come sempre, si sono schierati a sostegno di Israele, mettendo in campo forze militari dirette, armi e sostegno politico nelle sedi internazionali, ma temono le ricadute politiche nelle loro relazioni globali da un’azione militare prolungata nel tempo e con un bilancio sempre più pesante di vittime civili. Certamente la decisione di Israele di prendere di mira l’Onu a seguito delle dichiarazioni di Guterres sulle cause di fondo del conflitto israelo-palestinese non favoriranno l’allineamento di molti Stati e delle loro opinioni pubbliche dietro la guida degli Stati Uniti, sia nella guerra contro Gaza sia in quella che prosegue in Ucraina.
Il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che gli Usa respingono le richieste di cessate il fuoco e ha anche affermato che le vittime civili sono “quasi inevitabili”. Un discorso che per gran parte del mondo evidenzia la doppia morale occidentale nel valutare i “propri morti” e quelli “altrui”, come ha sottolineato con forza un personaggio normalmente moderato e filo-occidentale come il re di Giordania.
Per ora le voci critiche all’interno di Israele sono poche e abbastanza isolate. Un sondaggio di cui riferisce il Jerusalem Post rivela che certamente la fiducia nel governo è la più bassa da vent’anni a questa parte e dubbi si sono accesi anche sull’affidabilità dei vertici militari ma, in ogni caso, quasi la metà degli intervistati il (47,5%) ritiene che non si debba avere nessuna preoccupazione per i civili di Gaza. Un’altra parte consistente ritiene che questa remora debba essere solo minimale. Solo nella minoranza arabo-palestinese, l’83% degli intervistati ritiene che anche le condizioni di vita della popolazione di Gaza debbano essere tenute in conto da Israele.
Il maggior elemento di difficoltà per il governo si trova sulla questione dei circa 200 ostaggi presi da Hamas in territorio israeliano e portati a Gaza. Solo 4 finora sono stati liberati, altri forse sono morti sotto i bombardamenti. I famigliari protestano regolarmente sotto le sedi governativi chiedendo un impegno del governo per la loro liberazione. Una possibilità che l’inizio dell’invasione di Gaza renderebbe molto difficile se non impossibile.
In questo contesto l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.
Le condizioni nelle quali i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le posizioni politiche del movimento.
Il Partito Comunista Israeliano ha una lunga e complessa storia che risale al 1919 quando sorse la prima organizzazione ispirata alle idee della rivoluzione d’Ottobre. Da questa nacque il Partito Comunista Palestinese, inizialmente composto quasi esclusivamente da ebrei originari della Russia e dell’est Europa e poi a metà degli anni ’30 capace di arruolare nelle proprie file militanti arabi.
Nel 1948, i comunisti che operavano nel territorio del neonato stato di Israele, sia ebrei che arabi, diedero vita al Partito Comunista Israeliano, il cui leader Meir Vilner fu tra i firmatari della dichiarazione di indipendenza. I comunisti sono sempre stati l’unica forza a rifiutare la contrapposizione etnica in nome di una visione universalista e classista della società. Per questo sono sempre stati fermamente critici del sionismo come ideologia, ma nello stesso tempo difendono l’esistenza di Israele come stato a maggioranza ebraica. Difendono l’idea della convivenza dello stato israeliano a fianco di uno stato palestinese installato nei confini della linea verde del 1948 e quindi con il ritiro di Israele da tutti i territori occupati e lo smantellamento delle colonie insediate in quei territori.
All’interno di Israele contestano la definizione di “stato ebraico”, in nome di una visione laica e pluralista, anche se ovviamente resterà una maggioranza ebraica, e chiedono il riconoscimento della presenza degli arabo-palestinesi come minoranza nazionale dotata di propri diritti. Da tempo denunciano una deriva “fascista” in atto in Israele con la crescita delle tendenze razziste, suprematiste e del fondamentalismo religioso che con Netanyahu hanno avuto sempre più peso nel governo.
Sulle ultime vicende hanno condannato in modo “inequivoco” ogni attacco a civili innocenti. Ayman Odeh, leader di Hadash, ha dichiarato che gli attacchi ai civili devono essere “assolutamente proibiti” e ha condannato gli appelli di Hamas ai cittadini della minoranza arabo-palestinese ad unirsi alla lotta contro Israele.
Sia il Partito che il Fronte hanno denunciato le responsabilità del governo Netanyahu nella escalation dello scontro militare tra Hamas e Israele. “I crimini del governo fascista di destra nel perpetuare l’occupazione – scrivono in un loro comunicato – stanno conducendo ad una guerra regionale che deve essere fermata.”
Il partito collega l’escalation del conflitto alle azioni dei coloni nei territori occupati che nelle ultime settimane, col sostegno del governo, hanno attaccato la moschea di Al Aqsa e condotto l’ennesimo pogrom anti-arabo a Huwara. I comunisti chiedono alla comunità internazionale e ai paesi della regione di intervenire immediatamente per mettere a tacere i tamburi di guerra e promuovere una soluzione politica. Non ci può essere una soluzione militare al conflitto perché questa può realizzarsi solo mettendo fine all’occupazione e riconoscendo i diritti legittimi del popolo palestinese. La fine dell’occupazione e l’instaurazione di una pace giusta sono nel comune interesse dei due popoli.
Come hanno affermato in un loro documento congressuale per risolvere il conflitto israelo-palestinese, il PCI si batte su due fronti. Da un lato ci sono l’Amministrazione americana e i governi israeliani (dovremmo aggiungere l’Unione Europea) che si sono dichiarati per la soluzione dei due stati, ma in realtà questa affermazione è avanzata non per implementarla quanto per oscurare il processo reale dell’occupazione e della colonizzazione dei territori occupati.
Il “secondo fronte” è quello che in “vari circoli” propone il ritiro dell’obbiettivo dei due stati e di accontentarsi della “opzione teorica dell’unico stato binazionale”. La posizione del PCI è che questa opzione è inaccettabile, non funzionale e non costituisce una vera alternativa alla soluzione dei due stati.
I comunisti, seguendo la strategia che hanno sempre richiamato nei loro documenti della “politica di massa”, pur contrastando il sionismo e l’identificazione tra sionismo e stato israeliano, sono sempre disposti a lavorare con settori sionisti di sinistra e pacifisti. Queste correnti, che in certi momenti hanno animato il “campo della pace”, sono da tempo in crisi profonda e incapaci di riformulare una prospettiva coerente che tenga insieme una proposta di soluzione del conflitto con la loro ideologia di riferimento.
Nel frattempo all’interno del campo sionista si sono sempre più rafforzate le componenti caratterizzate da oltranzismo, suprematismo e fondamentalismo religioso. Questa egemonia, se da un lato ha favorito lo spostamento a destra di importanti settori delle comunità ebraiche in Occidente, ha anche fatto emergere, soprattutto negli Stati Uniti, una forte presenza di ebrei che rifiutano l’accettazione incondizionata ed acritica delle politiche militariste prevalenti nella politica israeliana.
In questa fase difficile, i comunisti israeliani cercano di tenere aperto uno spazio all’interno del loro Paese per una prospettiva politica ragionevole e giusta, contro la logica della vendetta e della criminalizzazione indiscriminata dell’intero popolo palestinese.
Nei giorni scorsi l’organizzazione giovanile comunista ha diffuso un documento comune con il Mesarvot Network, che sostiene l’obiezione di coscienza all’occupazione militare e i “Giovani contro la dittatura” che si oppongono alle politiche di Natanyahu sia all’interno di Israele che nei territori.
“Noi, giovani attivisti dell’anti-apartheid, siamo fermamente contrari all’uccisione indiscriminata di civili e contro i crimini di guerra perpetrati da Hamas e dall’esercito israeliano”, scrivono nel loro documento.
Le proposte politiche che vengono avanzate sono: il cessate il fuoco immediato; il rilascio di tutti gli ostaggi e i prigionieri politici; l’arrivo rapido degli aiuti umanitari a Gaza; la richiesta a Israele di restituire le forniture di acqua, cibo ed elettricità a Gaza; la condanna di ogni trasferimento forzato come quello imposto ad un milione di residenti di Gaza; l’embargo delle armi a tutte le parti combattenti; la richiesta al governo israeliano di mettere fine all’illegale e mortale assedio di Gaza e all’occupazione della Cisgiordania; la fine della manovre israeliane per dividere i palestinesi; l’incoraggiamento a tutte le parti coinvolte per avviare negoziati che giungano ad una pace duratura attraverso la soluzione dei due stati e il diritto al ritorno.
Voci ancora flebili ma il cui rafforzamento è indispensabile se si vuole uscire dalla logica di guerra e aprire la strada alla soluzione politica del conflitto.
Franco Ferrari
25/10/2023 https://transform-italia.it/
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