I “crimini dell’economia”. Una lettura criminogena del capitalismo
Intervista a Vincenzo Ruggiero. Docente da molti anni alla Middlesex University di Londra, Vincenzo Ruggiero è autore di numerosi libri sui risvolti sociali dei fenomeni criminali. Il suo recente libro su “I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico” offre una chiave di lettura di straordinario interesse.
Professor Ruggiero, Lei è autore del libro I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico pubblicato per i tipi di Feltrinelli: in che modo la prospettiva criminologica può esser utile nell’analisi del pensiero economico?
L’idea di scrivere ‘I crimini dell’economia’ mi è venuta dopo aver letto molte analisi economiche della criminalità. Gli economisti, infatti, hanno visitato spesso il terreno della criminologia, esaminando la logica razionale dei reati. In difesa del suo lavoro sul crimine come scelta, il Premio Nobel per l’economia Gary Becker ha fatto notare che anche chi commette reati può essere trattato da homo oeconomicus, e ha ricordato ai lettori che due grandi fondatori della disciplina criminologica, Beccaria e Bentham, applicavano esplicitamente un approccio economico nella loro analisi dei delitti e delle pene. Il mio libro intende restituire la visita, proponendo una lettura criminologica del pensiero economico. Del resto, il sapere economico si occupa di creazione e acquisizione di ricchezza, di mercati, di legittimità e devianza dalle regole che guidano l’arricchimento. È questo un campo che appartiene anche all’indagine criminologica.
L’iniziativa economica è intrinsecamente dannosa?
L’iniziativa economica in sé può essere benefica come dannosa. Benefica quando risolve almeno parzialmente i problemi relativi all’ineguaglianza e all’ingiustizia sociale, dannosa quando li esaspera. Idealmente, l’iniziativa economica dovrebbe produrre ricchezza ai fini di soddisfare in bisogni umani. Nella formulazione di Adam Smith, dovrebbe garantire il benessere collettivo e, simultaneamente, fornire le risorse necessarie all’allestimento dei servizi pubblici: in breve, arricchire ‘sia il popolo che il sovrano’. In realtà, molte iniziative economiche creano ricchezza per alcuni e scarsità per altri. Quanto ai ‘bisogni’, questi non sempre vengono ‘soddisfatti’ ma piuttosto generati in virtù della logica comunemente condivisa dello sviluppo. Quello che va sottolineato, comunque, è che la storia dell’economia è anche la storia dei suoi tentativi di risultare accettabile alla sensibilità di tutti, inclusi coloro che traggono scarsi benefici dalle sue avventurose attività. Ecco perché parlo di vittime dell’economia, vale a dire coloro ai quali viene detto che la loro povertà è transitoria e che non esistono altre modalità per sollevarli dalla loro condizione. Il pensiero economico, insomma, offre spesso delle giustificazioni per comportamenti che, in altri contesti, verrebbero ritenuti poco ortodossi, dannosi o criminali; offre razionalizzazioni per le calamità che produce.
Nel Suo testo, Lei analizza il pensiero di John Locke e la sua nozione di proprietà privata: di quali ‘crimini’ lo accusa?
A John Locke imputo un ruolo di avanguardia nel descrivere le popolazioni da colonizzare come subumane o barbare e, quindi, da soggiogare o distruggere. Il pensiero occidentale, che pure ne è stato e ne è ancora influenzato, ha tuttavia espresso anche altro al proposito. Voltaire addebita le responsabilità per guerre e invasioni a quei ‘barbari sedentari’ che, nascosti nella loro prosperità, ordinano il massacro di milioni di persone mentre digeriscono un buon pasto. Montaigne avverte che, prima di giudicare i popoli lontani, faremmo bene a renderci conto della nostra stessa barbarie. Se alcune tribù ‘arrostiscono’ i nemici, noi torturiamo i corpi vivi e arrostiamo lentamente i vicini e connazionali. Ebbene, Locke è estraneo a questo tipo di pensiero umanista che avrebbe potuto impedire l’intero progetto di colonizzazione. Stabilito che la proprietà privata è un dono divino, e constatato che i popoli lontani non apprezzano la natura divina di un simile dono, non rimane altro che trattare questi popoli alla stregua di selvaggina. Solo un nuovo campo del sapere poteva stabilire una distanza tra moralità universale e condotta privata, una nuova disciplina chiusa nel suo stesso pensiero, autoreferenziale, lontana da ansie divine o etiche. Gli abitanti dei ‘nuovi’ territori dovevano essere trasformati in criminali o nemici in una guerra che non avevano mai dichiarato. La ‘scienza’ economica non aveva ancora preso forma, ma il concetto chiave di proprietà era già stato formulato, con John Locke nel ruolo di precursore nell’assimilare le regole del comportamento economico alle leggi naturali e divine.
Di quali danni è responsabile il mercantilismo?
Le vittime, in questo caso, erano tutte quelle popolazioni che vivevano di piccolo commercio, schiacciate dal monopolio di compagnie che trasformavano la libertà di scambio (o meglio la loro libertà) nella schiavitù degli altri. Va notato che, nel reclamare il diritto inalienabile al commercio, le grandi compagnie mercantiliste domandavano contemporaneamente agli stati di non interferire con politiche regolative o restrittive. In realtà, la loro era una semplice domanda di esercitare quel potere politico che non intendevano lasciare tra le prerogative dell’autorità. Le compagnie, infatti, disponevano di eserciti e rappresentanti politici che governavano con le leggi e la violenza necessari allo svolgimento regolare dei commerci e delle rapine. I mercantilisti, insomma, non volevano uno stato che promuovesse il laissez-faire, ma solo un’autorità che garantisse la loro libertà, il loro laissez-faire. La principale vittima del mercantilismo è l’assetto sociale tradizionale che viene dissolto grazie alla forza militare e all’iniziativa commerciale. Marx descrive questo assetto come costituito dagli elementi principali che governano un’economia di sussistenza, grazie alla quale le piccole comunità ‘semibarbare e semicivili’ hanno sopravvissuto per secoli, concludendo che l’invasione inglese causa la più gigantesca, e sicuramente, la sola rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto. Ci viene ricordato che il tipo tradizionale di vita, privo di dignità, stagnante e vegetativo, e la maniera passiva di esistere, erano mescolati con la forza cieca che faceva dell’omicidio un rito religioso. E’ vero, Marx continua, che nel promuovere la rivoluzione sociale in India gli inglesi seguono i propri interessi più angusti, e la maniera nella quale li perseguono non potrebbe essere più stolta. Ma questo non è il punto. Il punto è: può l’umanità realizzare il proprio destino senza un profondo mutamento delle relazioni sociali in Asia? ‘Se la risposta è no, allora di qualsiasi natura siano i crimini commessi dagli inglesi, quei crimini, provocando una simile rivoluzione, sono uno strumento inconscio della storia’. Secondo Marx, insomma, lo sviluppo fornirà la base per l’evoluzione successiva, segnatamente la sconfitta delle classi dominanti inglesi da parte del loro proletariato e quella del dominio coloniale da parte del proletariato indiano. L’industria e il commercio, conclude Marx, hanno creato le condizioni materiali per la nascita di un nuovo mondo, così come le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. In conclusione, le vittime dell’economia mercantilista sono i martiri inconsapevoli della futura rivoluzione sociale, il prezzo umano da pagare affinché il progresso ci consegni un mondo nuovo.
La mano invisibile è macchiata di sangue?
Adam Smith e la sua mano invisibile sono responsabili di una gamma molto ampia di reati dei colletti bianchi. Se è vero che l’interesse individuale produce bene pubblico, vale a dire che i vizi privati si trasformano in virtù collettive, è anche vero che persino l’arricchimento illegittimo può promuovere la circolazione di benessere, incoraggiare lo sviluppo e creare posti di lavoro. Adam Smith si è occupato in maniera diretta di trasgressione, devianza, criminalità convenzionale e illegalità delle élite. E non è facile, a mio avviso, tracciare un confine tra le pratiche economiche da lui designate come ortodosse da quelle da lui ritenute disfunzionali o illecite. Il suo lavoro teorico è focalizzato sulla libertà di commercio, i diritti perfetti e imperfetti, l’impresa e l’intervento statale. Tra i diritti imperfetti vi sono quelli garantiscono sopravvivenza e dignità, di cui non siamo titolari, ma che solo le forze dell’iniziativa economica possono riconoscere. Nemico della libera impresa, l’intervento statale è tuttavia necessario per le industrie nascenti, che vanno sostenute. In questa maniera Smith contraddice se stesso, in quanto simultaneamente predica la filosofia della libertà di impresa, una filosofia simile a una fede che molto spesso viene tradita persino, o forse soprattutto, da chi ufficialmente la professa. La ‘libertà d’impresa’, in breve, diventa libertà di usare lo stato e le sue risorse a proprio vantaggio. Infine, la sua argomentazione secondo cui i disoccupati prodotti dallo stesso sviluppo economico verranno in seguito assorbiti in settori produttivi in ascesa tralascia il malessere e le ferite personali e sociali generate dall’inattività. Smith argomenta che i disoccupati, nel lungo periodo, verranno in qualche maniera rioccupati. Keynes, un paio di secoli dopo, gli risponderà che nel lungo periodo saremo tutti morti.
In che modo la teoria dell’utilità marginale genera sfruttamento?
La teoria dell’utilità ‘marginale’ in Marshall si presta a interessanti interpretazioni per via del tipo di illegalità che promuove o razionalizza. L’idea di rareté, a questo proposito, è cruciale. Un bene, ci viene detto, deve essere non solo utile, ma anche poco reperibile. E’ questa, secondo Marshall, la nozione di utilità marginale, non generale. Non è la soddisfazione totale che scaturisce dal possesso di un bene a conferire valore a quest’ultimo; il valore deriva dalla soddisfazione prodotta dall’ultimo e meno desiderato oggetto di consumo. L’ultima riserva alimentare disponibile in una situazione di carestia possiede un valore immenso e merita un prezzo adeguato alla sua scarsità. Analogamente, l’utilità di un bene o di un servizio diminuisce, se tutte le altre variabili rimangono costanti, con la sua crescente reperibilità. Applicando questo principio ai salari, Marshall suggerisce che il loro livello corrisponde alla ricompensa monetaria che accetterebbe l’ultimo lavoratore marginale disposto a occuparsi. Marshall, in poche parole, conferisce dignità alle economie sommerse, a quelle enclave di lavoro dove molti sono disposti a occuparsi per disperazione. Seguendo la sua logica, la massima efficienza del lavoro si riscontra nei settori nascosti dell’economia, dove le retribuzioni, le condizioni e la sicurezza sono nettamente al di sotto degli standard stabiliti per legge. La massima ‘impiegabilità’, in termini di contributo offerto alla produzione e ai profitti, è allora quella che caratterizza gli immigrati irregolari, quelli ‘trasferiti’ illegalmente e quelli ‘trafficati’, in quanto le loro aspettative influenzano il livello dei salari ritenuto appropriato. I trafficanti di esseri umani sono avvertiti: in termini economici, hanno un ruolo importante da ricoprire.
Sempre nel Suo testo, anche la teoria keynesiana viene fatta oggetto di una critica molto netta
Il Keynes che meglio conosciamo è quello che propugna uno spostamento relativo di ricchezza a favore di lavori pubblici che creano occupazione e, perciò, salari, domanda di beni e servizi. Molti governi implorano i cittadini ad uscire, fare compere, consumare, in maniera da incoraggiare l’economia, anche se l’implorazione non può avere successo quando non viene accompagnata da un’offerta di salari adeguati. Il Keynes meno noto è quello che considera i cittadini meno abituati a consumare, in quanto dotati di scarse risorse, poco adatti a spendere quello che viene loro improvvisamente concesso in termini di aumento salariale. In altre parole, chi è disabituato all’aumento del proprio reddito è un consumatore inaffidabile, in quanto la maggiore disponibilità di danaro non si traduce automaticamente in maggiore propensione a spendere, ma in disponibilità a risparmiare. Le classi benestanti, al contrario, sono consumatori ideali. Consegnare danaro pubblico a queste classi, secondo un modello di socialismo per i ricchi, trova giustificazione in un supplemento di analisi offerto da Keynes. A volte, suggerisce, un declino del tasso di occupazione può persino incoraggiare il consumo, in quanto alcuni individui possono decidere di spendere i risparmi messi da parte in tempi migliori. ‘Perciò, quando l’occupazione scende a bassi livelli, il consumo aggregato scende in misura minore rispetto all’abbassamento del reddito reale’. A questo punto, è legittimo chiedersi perché mai si dovrebbe puntare all’incremento dell’occupazione e dei salari, e se la strada più rapida che conduce alla ripresa non sia quella di finanziare gli operatori chiave dell’economia, lasciando poi, appunto, ‘le cose al governo della natura’. Insomma, socialismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri.
Quale economista è, a Suo avviso, maggiormente responsabile di crimini in economia?
Quasi tutti.
L’economia può dirsi scienza?
Non conosco nessun altra scienza che è insensibile ai danni che provoca. Del resto, parliamo di una scienza che glorifica l’ineguaglianza, e sono proprio la sua spiegazione e razionalizzazione che hanno mobilitato i più grandi talenti nella sfera del pensiero economico. Come ha dichiarato Galbraith,
‘Nella quasi totalità della storia economica, la maggioranza delle persone sono state povere e una piccola minoranza ricche. Di conseguenza, si è sempre avvertito il bisogno urgente di spiegare come mai – e, ahimè, di frequente, di spiegare anche perché così deve essere’
La povertà come risultato del disappunto divino viene tradotta dagli economisti in ineguaglianza che determina sviluppo e felicità: ai poveri non resta che imitare i ricchi e contribuire così allo sviluppo economico. In verità, nel seguire l’esempio dei privilegiati, si genera soltanto acquiescenza per un sistema che permette ai privilegi apertamente in mostra di rimanere accessibili a pochi. Se lasciati fare, i mercati producono, così ci viene detto, i risultati più efficienti ed equi. Questa nozione che serve solo gli interessi di chi la formula, in realtà, giustifica la ridistribuzione di reddito verso l’alto, limitando anziché ampliare l’area della ricchezza. Ma quest’ultima non dovrà prima o poi ‘sgocciolare’ verso il basso? Beh, la metafora dello ‘sgocciolamento’ non sembra alludere a un getto né a una cascata poderosa, ma a un banale rubinetto che perde.
10/5/2017 da letture.org
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