I dati che dimostrano come la guerra alle tasse in Italia sia davvero iniqua
L’Agenzia delle entrate vanta crediti non riscossi per oltre 1.100 miliardi di euro ma quelli realmente esigibili, per via dei condoni, non superano la sessantina. Il 70% dell’evasione riguarda l’1,3% dei contribuenti più ricchi ma c’è chi invoca la “pace”. Che invece è già “perpetua” e danneggia la collettività. L’analisi di Alessandro Volpi. Su altreconomia.it
La “guerra alle tasse” del Governo Meloni-Salvini sembra non tener conto di alcuni dati oggettivi. Vediamo qualche numero in merito. Il “magazzino” dell’Agenzia delle entrate vanta crediti non riscossi per oltre 1.100 miliardi di euro. In sostanza, imposte, tasse e sanzioni non pagate per mille miliardi di euro. Di questi, la stessa Agenzia stima che solo 110 miliardi circa siano realmente esigibili e le ultime rottamazioni ne hanno già cancellati oltre 40. In pratica di 1.000 miliardi di euro da riscuotere ne restano una sessantina. Non mi sembra perciò che nel nostro Paese ci sia stata mai una “guerra” contro chi non paga, anzi direi che esiste da tempo una pace perpetua.
Occorre aggiungere un’altra considerazione: oltre il 70% della ricordata evasione per circa 800 miliardi riguarda l’1,3% dei contribuenti più ricchi, quelli che hanno debiti fiscali per oltre 500 milioni di euro. Sempre in merito ai numeri si dimentica che i condoni non partoriscono quasi nulla in termini di gettito e, anzi, incentivano ulteriore evasione.
Si è chiusa di recente l’ennesima rottamazione delle cartelle fiscali, in sostanza una vera sanatoria. Alla scadenza, fissata il 30 giugno, sono state presentate oltre tre milioni di domande, ben oltre le aspettative. Il totale che avrebbe dovuto essere pagato arrivava a 60 miliardi di euro ma con la rottamazione il gettito si ridurrà a 40. Questo dato pone però due criticità forti.
La prima è costituita dal fatto che i circa 20 miliardi “cancellati” rappresentano un “buco” nei bilanci pubblici, che quindi dovranno essere coperti e pagati dai contribuenti “fedeli”. Cancellare miliardi di euro di crediti dal bilancio dello Stato necessita di una copertura che finisce in capo ai contribuenti onesti. In questo senso serve chiarezza: le sanatorie dovrebbero recuperare risorse non pagate che in realtà sono sempre una parte limitata del credito per il quale, nel momento in cui lo si dichiara estinto, servono, appunto, risorse certamente non pagate dagli evasori e nemmeno da chi aderisce al condono.
La seconda criticità si lega al fatto che alla presentazione delle domande non corrisponde mai il versamento reale. Dalle ultime rottamazioni dovevano arrivare nelle casse dello Stato quasi 45 miliardi di euro e ne sono entrati appena 17. Quindi si è determinato un doppio “buco” per i conti pubblici: dalla riduzione del credito e dal mancato versamento atteso.
In questo senso la sanatoria fiscale è una grande operazione di propaganda e di consenso verso chi non ha pagato, che genera problemi contabili pesanti, pagati dagli altri contribuenti, e che permette a chi non ha pagato di continuare a non pagare, con minori entrate pluri-miliardarie per le casse pubbliche. È noto, infatti, che in moltissimi casi la richiesta di “partecipare” alla sanatoria fiscale serve soltanto a prender tempo rispetto a ulteriori procedure coattive.
I fautori delle grandi pacificazioni fiscali dimenticano poi che esistono milioni di contribuenti a cui il prelievo avviene alla fonte e quindi per loro l’imposizione è obbligatoria; il taglio del cuneo fiscale è, in tal senso, del tutto insufficiente a restituire progressività a un sistema fiscale ormai vistosamente dominato dalle “tasse piatte”.
Forse si dimentica anche che la stragrande maggioranza del gettito proviene ormai da quell’imposizione obbligatoria e che il gettito fiscale, intorno ai 500 miliardi di euro annui, si sta riducendo con conseguenze devastanti sulla tenuta della sanità e dell’istruzione pubblica. Nel frattempo, la delega fiscale concepisce un fisco su misura per i soggetti finanziari.
Un esempio evidente proviene dal sistema bancario, che ha realizzato utili miliardari dopo il rialzo dei tassi di interesse della Banca centrale europea ma continua a godere di una normativa di grande favore. Molte società che si occupano di risparmio gestito sono infatti riconducibili alle banche, in Italia, in particolare, circa il 90% è legato agli istituti di credito. Spesso tali società acquistano fondi di diritto estero, prodotti cioè da società che sono domiciliate in “paradisi fiscali”, a cominciare da Irlanda e Lussemburgo, dove il regime fiscale è persino più favorevole di quello italiano, costruito su un’aliquota del 26% e sulle plusvalenze, e dove, di fatto, non esiste regime di vigilanza.
In questo senso gli istituti bancari italiani traggono indubbi benefici dalla finanziarizzazione e dal ricordato spostamento dei servizi dal settore pubblico a quello privato perché è con tale spostamento che vedono alimentata la quantità di risparmio gestito nelle loro mani: in Italia nel 2022 si tratta di oltre 200 miliardi di euro su cui, per effetto dei meccanismi sopra ricordati, pagano pochissimo. Godono poi di privilegi ancora più incomprensibili. Solo per fare un esempio si può citare il fatto che per la normativa italiana gli Etf, i prodotti finanziari che replicano indici o il prezzo di beni che non possiedono, pagano il 26% sulle plusvalenze, ma se si tratta di Etf che “replicano” l’indice dei titoli del debito pubblico italiano pagano solo il 12,5%, come se il titolo lo avessero comprato. La guerra alle tasse è davvero iniqua.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
18/7/2023 https://altreconomia.it/
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