I forzati dell’epidemia
L’attività agricola è essenziale, non solo in tempi di epidemia. Eppure l’attenzione per chi lavora nei campi, normalmente, non è al centro del dibattito pubblico. Ora sì. Come mai? Nei campi manca la manodopera e bisogna correre ai ripari. La situazione attuale esula dal consueto: se è vero che «un ciclo riempiamo gli arsenali, un ciclo i granai», oggi quello che si richiede è di riempire i granai come lo si farebbe con gli arsenali: in fila, compatti, obbedienti e disciplinati. Ma per chi lavora nei campi la extra-ordinarietà della situazione non può significare la negazione dei più elementari diritti. E dietro alle proposte avanzate sono già chiari pericolosi meccanismi in opera e conseguenze inumane.
I dati, di fatto
In Italia i lavoratori stranieri rappresentano circa un quarto del totale della manodopera in agricoltura. Ogni anno 370 mila lavoratori regolari arrivano dall’estero per lavorare nei campi italiani. Con l’emergenza Coronavirus e la chiusura delle frontiere, questi non potranno raggiungere l’Italia. Le prime difficoltà nel settore per la mancanza di persone da impiegare nella raccolta sono già state segnalate.
Come prima misura, su pressione di Confagricoltura e Coldiretti, il ministero dell’Interno ha prorogato fino al 15 giugno tutti i permessi di soggiorno, compresi quelli per lavoro stagionale, che erano in scadenza il 15 aprile. L’obiettivo: evitare agli stranieri di dover rientrare nel proprio Paese con l’impossibilità di fare ritorno una volta iniziata la stagione di raccolta nelle campagne. Molti, però, vista l’emergenza erano già rientrati nei loro Paesi. Per questo, Confagricoltura ha chiesto all’Unione europea di creare dei «corridoi» per permettere la mobilità all’interno dell’Ue dei lavoratori del settore agricolo. Ma non si è limitata a questo. L’associazione ha anche chiesto al governo di allargare e rendere più flessibili tutti gli strumenti per reclutare nuova manodopera, come i voucher, e avviare in tempi rapidi l’iter per la definizione di un nuovo decreto flussi che consenta al settore agricolo di impiegare lavoratori non comunitari.
Una finestra interessante sull’ipocrisia delle politiche di chiusura delle frontiere perseguite da anni in Italia e in Europa. Di fronte al rischio di mancanza di manodopera, infatti, i permessi di soggiorno si rinnovano automaticamente (senza le innumerevoli difficoltà in cui ci si imbatte normalmente), si invoca un maxi decreto flussi (che anche in una situazione ordinaria avrebbe potuto aiutare le migliaia di lavoratori stranieri ora vittime di sfruttamento nei campi) e addirittura si propongono «corridoi» (non umanitari come da anni si chiede per chi fugge da guerra, fame e miseria).
Ma non solo. Coldiretti ha proposto di utilizzare, «semplificando» le regole, i voucher agricoli (semplificazione che va sempre di pari passo con minori tutele per i lavoratori e maggiore abuso per il datore di lavoro) per far lavorare nei campi «studenti e pensionati». Alleanza cooperative agroalimentari, invece, ha chiesto di far ricorso a chi percepisce il reddito di cittadinanza aggiungendo lo stipendio del lavoro nei campi a quello del sussidio statale. Proposta rilanciata in un’intervista a Repubblica anche dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova in questa forma: «Chiederei a chi prende il reddito di cittadinanza di fare qualche ora di servizio civile, ad esempio nella filiera della distribuzione».
Carne da campi
L’attuale situazione di emergenza fa riemergere la grande assente delle narrazioni più diffuse del nostro tempo: la questione di classe. Al di fuori della quale le denunce delle dinamiche razziste o delle discriminazioni di genere risultano solo parzialmente esaustive.
Sono i lavoratori e le lavoratrici, al di là della loro provenienza, coloro che vengono ritenuti sacrificabili: in una analisi costi-benefici, i profitti della produzione vengono ritenuti più importanti del rischio che costoro contraggano o diffondano il virus. Non è un caso che, per sostituire i lavoratori stranieri che non potranno rientrare in Italia a causa del Covid-19, Coldiretti e Alleanza cooperative agroalimentari abbiano pensato a pensionati, studenti e disoccupati.
«Pensionati» e «studenti» non vanno presi come termini che indicano i criteri di reclutamento (ovvero «in quanto pensionati o studenti») ma quali campi entro cui operare la ricerca della forza lavoro (tra i pensionati e tra gli studenti): a essere disposti a mettere a rischio la propria salute, per operare in condizioni di lavoro non ancora chiare, saranno necessariamente i più indigenti tra loro.
Per la terza categoria, invece si tratta di una proposta che fa rabbrividire, visto che viene presentata «come un’occasione per arrotondare e fare formazione». Quale momento migliore per formarsi che durante una pandemia!
In realtà l’idea di coinvolgere coloro che beneficiano del reddito di cittadinanza, oltre ad aprire alla possibilità di ricatti ai danni degli interessati, non è neutra come potrebbe apparire, né innocua come si potrebbe sperare.
Tradisce l’adesione ad un frame ben preciso, apparentemente ispirato al buon senso («in circostanze d’emergenza ciascuno deve fare la propria parte», «la società non può farsi carico di chi non ha voglia di lavorare» ecc.), in realtà insidioso, perché si scontra con l’idea di inalienabilità di alcuni diritti su cui si fonda la nostra convivenza civile. Ma l’efficacia del frame sta qui: le contraddizioni rimangono in secondo piano e prendiamo acriticamente tutto il pacchetto. Se si accetta una visione funzionalista dell’essere umano, questo diventa titolare di diritti solo nel momento in cui riesce a dimostrare la sua utilità per la produzione: un soggetto improduttivo rappresenta, in questa prospettiva, un peso morto, da riconvertire al più presto alla pubblica utilità. Lo stesso frame che muove le cicliche riproposizioni dei lavori forzati cui sottoporre i detenuti.
Il riferimento di Bellanova al servizio civile, poi, non può non far
pensare al fatto che questo sia nato come alternativa al servizio
militare. La pandemia, nei discorsi istituzionali, è una guerra. Una metafora non priva di malizia.
Umani quando servono
Un capitolo a parte va aperto per quel che riguarda l’enorme numero di lavoratori dei campi senza documenti che vivono in condizioni di schiavitù e sfruttamento in baraccopoli, luoghi insalubri e indecenti. Accanto alle irricevibili proposte delle associazioni di categoria per ovviare alla difficoltà di reperire la manovalanza, infatti, ne sono state fatte anche altre, relative alla regolarizzazione dei sans papier. Secondo una ricerca presentata da Oxfam in collaborazione con la Onlus Terra!, ci sono circa 430 mila irregolari che vanno a incrementare di quasi un quinto le fila dei lavoratori del settore agricolo. Nel caso dei lavoratori regolari i diritti, almeno sulla carta, esistono. Per gli irregolari, invece, non vale lo stesso: il migrante irregolare non è ovviamente iscritto al Sistema Sanitario Nazionale e di conseguenza non ha un medico di base e ha diritto soltanto alle prestazioni sanitarie urgenti. Il migrante sprovvisto del permesso di soggiorno, dunque, nei casi di sintomi lievi (qualche linea di febbre, un po’ di tosse) non si rivolge alle strutture sanitarie, mentre nei casi più gravi non ha alternativa al presentarsi al pronto soccorso, il che contrasterebbe con tutti i protocolli adottati per contenere la diffusione del virus. Il sans papier ha timore di presentarsi in un ospedale, perché potrebbe incappare in un controllo che lo condurrebbe all’espulsione o alla reclusione in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Proprio per questo, Melting pot chiede una regolarizzazione di tutti i sans papier per esigenze di tutela della salute individuale e collettiva.
Flai Cgil, Terra! e un’altra trentina di rappresentanti dei sindacati e organizzazioni del terzo settore, invece, hanno proposto di adottare una sanatoria per far emergere chi è costretto a vivere e lavorare in condizioni di irregolarità e, parallelamente, di allestire o requisire immobili a fini di sistemazione alloggiativa per far sì che queste persone possano uscire dalle baraccopoli in cui sono costrette a vivere proprio in quanto irregolari. Sempre nella stessa intervista a Repubblica, la ministra Bellanova, nel commentare queste e simili proposte afferma: «Sono importanti gli appelli. Io rispondo che abbiamo tre esigenze prioritarie: sconfiggere caporalato e clandestinità, impedire che nei ghetti ci siano emergenze sanitarie, garantire alle imprese manodopera. Dobbiamo urgentemente mettere mano alla regolarizzazione, anche temporanea, dei lavoratori stranieri».
Ecco. Per «garantire alle imprese manodopera», va bene una regolarizzazione «anche temporanea» dei lavoratori agricoli sans papier. Carne da campo, insomma. La possibilità di essere regolarizzati su un determinato territorio perché in un particolare momento quel territorio esprime necessità di produzione altrimenti impossibili da soddisfare rischia di subordinare quelli che dovrebbero essere diritti inviolabili (al lavoro, al reddito, a un ambiente di vita dignitoso, all’accesso alla sanità e alle cure mediche) alla capacità produttiva di ciascuno. E alla sua disponibilità, in questo caso in particolare, ad accettarne acriticamente le condizioni; in questo modo quei diritti possono essere concessi o negati, riconosciuti o revocati in maniera arbitraria, in base a criteri per i quali la persona non rappresenta più un fine in sé della società, ma uno strumento in suo possesso.
E per realizzare un simile disegno, disinnescando dal principio possibili critiche e rivolte, si torna a utilizzare la metafora bellica, che diviene lo strumento propagandistico attraverso il quale mobilitare il Paese all’obbedienza. Obbedienza, in questo caso, alle esigenze della produzione: in un momento di emergenza nazionale, le necessità delle imprese diventano strategiche e vi si dovrà provvedere senza esitazioni e richieste di sorta. Agli irregolari, quindi, verrà fornito uno strumento di aggregazione simbolica, di accoglienza nominale in una comunità (la regolarizzazione gioca il ruolo di una «uniforme», da dismettere al termine della «leva») e verranno inviati al fronte, con gli altri. Generando, in questo modo, una coartazione al lavoro – necessario per l’interesse generale e solo perché in questo momento non vi si può provvedere in altro modo.
Antonio Gibelli nel suo L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, descrive un «fronte interno» sottoposto a disciplinamento militare tramite legge marziale: anche l’insubordinazione sul posto di lavoro diviene, in questa prospettiva, una forma di diserzione e di tradimento. Il rischio che si corre applicando la metafora bellica è quello di condannare implicitamente coloro che potrebbero denunciare le contraddizioni di tali misure, come si trattasse di renitenti o di imboscati.
Interessante che, oggi come allora, a condannare i disertori o a esaltare gli eroi, siano coloro che possono permettersi di rimanere al sicuro nelle loro case. Una realtà dei fatti già contenuta nelle strofe di O Gorizia tu sei maledetta, pietra miliare del canto popolare antimilitarista:
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Gianpaolo Ornaghi
dottorando presso l’Università degli Studi Carlo Bo di Urbino e responsabile per la didattica dell’Iscop – Istituto di Storia Contemporanea della Provincia di Pesaro e Urbino.
Martina Nasso
giornalista freelance, collabora con Repubblica, Good Morning Italia e con altre testate che si occupano principalmente di tematiche ambientali
31/3/2020 https://jacobinitalia.it
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