I giorni della prima intifada

Nella giornata ONU di solidarietà con il popolo palestinese, istituita nel 1977, arriva ancora una volta la conferma che nelle carceri di Israele vengono detenuti minorenni, spesso poco più che bambini e donne, sospettate di “resistenza all’occupante” – che per il governo di Tel Aviv si traduce in “terrorismo”. Lo sappiamo, nell’indifferenza generale, semplicemente grazie al fatto che nei giorni di tregua sta avvenendo uno scambio di prigionieri, in primis donne e bambini. Spesso si tratta di detenzione preventiva, senza processo, tanto, sono palestinesi e in quanto tali se non sono pericolosi lo diventeranno. E quanto accade in queste ore fa tornare in mente i fatti che portarono, ad inizio dicembre del 1987, alla cosiddetta “prima Intifada” (rivolta). Vale la pena ripercorrere quei giorni perché costituiscono in parte un elemento per comprendere il presente e anche in quanto, anche allora, i bambini ne furono, tragicamente, protagonisti. Nei mesi che precedettero la rivolta la situazione, tanto a Gaza che in Cisgiordania era quella di una guerra a bassa intensità. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) guidata da Yasser Arafat era per il popolo palestinese egemone. Le sue componenti (Al Fatah, Partito Comunista Palestinese, Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), pur nella loro indipendenza organizzativa e nelle differenze politiche, cooperavano come un movimento di liberazione nazionale. L’espansionismo di Israele era in piena crescita. Nella Striscia di Gaza, non si era insediata una forte presenza israeliana ma questa oltre che controllare militarmente l’unico punto di uscita verso Israele aveva il controllo delle risorse idriche. In pratica poche migliaia di persone avevano perennemente acqua potabile, centinaia di migliaia di abitanti, soprattutto nei campi profughi, alcuni nati nel 1948 poca acqua per poche ore settimanali. In Cisgiordania andavano crescendo, nonostante il parere contrario delle risoluzioni ONU, i settlement, gli insediamenti dei coloni, in cui andavano ad abitare tanto famiglie israeliane desiderose di aumentare il proprio benessere avendo terra da coltivare quanto i nuclei che giungevano mentre avveniva il disfacimento dell’Unione Sovietica e che, in quanto di origine ebraica, ottenevano la possibilità di entrare in Israele e divenirne cittadini. Chi sceglieva di andare negli insediamenti aveva sovvenzioni e sostegno statale. Sorgevano spesso sulle alture, in prossimità delle terre più fertili che venivano requisite, in alcuni casi lontani dai centri abitati dalle popolazioni palestinesi in altri, come Hebron o Gerico, occupandone una parte. E contemporaneamente sorgevano vie di comunicazione percorribili unicamente dagli abitanti degli insediamenti che, sentendosi minacciati, si muovevano armati di tutto punto. Ancora erano pochi i tabù rispetto alla realizzazione della “grande Israele”, dal mare al Giordano, comprendendo persino una parte di Libano e Siria nonostante almeno la politica estera europea continuasse a mostrare resistenze a tale progetto.

A chi capitava di aggirarsi nella Gerusalemme ovest, principalmente abitata da famiglie israeliane, si percepiva un idea di dominio che assumeva dimensioni ancora più fosche entrando nella parte araba della città, perennemente attraversata, giorno e notte, da soldati israeliani pronti a fermare unicamente cittadini dai tratti somatici arabi. Tensioni forti si percepivano nel punto di contatto connesso ai luoghi sacri delle religioni, da una parte il Muro del Pianto, dall’altra, antistanti, la spianata della Moschea di Al Aqsa (il terzo luogo sacro per importanza per l’Islam). La potenza militare israeliana sembrava poter fungere da deterrente a qualsiasi innalzamento della conflittualità anche se già allora numerosi erano i detenuti politici palestinesi, molti dei quali relegati nella famigerata Ansar 3, una prigione in pieno deserto del Negev, dove si poteva restare anche per anni per reiterati provvedimenti di detenzione preventiva. Ma qualcosa stava cambiando. Le prime avvisaglie, che ebbero eco internazionale, si ebbero il 25 novembre 1987 quando, due deltaplani, partiti dal sud del Libano, tentarono un’incursione militare in territorio israeliano. Il primo fu abbattuto, il secondo riuscì ad atterrare e il suo pilota ad entrare in una base militare uccidendo 6 militari e ferendone 8 prima di essere ucciso.

La prima intifada

Pochi giorni dopo i tre fatti che vengono ancora considerati la scintilla della rivolta e della sua repressione: il 6 dicembre, un cittadino israeliano venne accoltellato a morte a Gaza, due giorni dopo 4 abitanti del campo profughi di Jabalya, un inferno dei vivi in cui vivevano ammassati, dal 1948, 60 mila persone, furono uccisi da un camion dell’IDF (Forze di sicurezza israeliane). La dinamica è tutt’ora raccontata in diverse versioni, fatto sta che il camion di militari si scontrò con due veicoli che trasportavano lavoratori palestinesi, causando appunto la morte di 4 di loro. Per gli abitanti del campo non si trattava di un incidente ma di una vendetta, per migliaia di abitanti scesero in strada per protestare contro l’esercito. Nella serata, un ragazzo, forse neanche maggiorenne, Hatem al-Sisi, che tirava pietre contro i soldati venne freddato da un colpo di fucile. La rivolta si espanse rapidamente e non fu soltanto militare. Iniziò uno sciopero generale di tutte le attività commerciali palestinesi – chi vendeva alimenti restò aperto 3 ore al giorno – e diedero vita anche ad un movimento nonviolento di sciopero fiscale, per trattenere le imposte – la legalità del comportamento rispetto alla legge internazionale è discussa. Israele sconfisse il boicottaggio infliggendo pesanti multe, per mezzo di arresti e pignorando beni degli aderenti allo sciopero fiscale. Protagonista di questa rivolta fu quella che allora era una nuova generazione, spesso scolarizzata e fortemente laica. Il governo israeliano, individuando nelle scuole e nelle università i focolai, ne decretarono la chiusura a tempo indeterminato. Ma i giovani continuarono a scendere in piazza, all’inizio utilizzando soltanto pietre per combattere uno degli eserciti più potenti del pianeta. In molti ne caddero. Nel frattempo proseguiva la politica delle esecuzioni extragiudiziali portata avanti da Israele in totale impunità. Nell’aprile 1988 venne ad esempio ucciso a Tunisi, dove si era stabilito il gruppo dirigente dell’Olp, uno dei più stretti collaboratori di Arafat, Abū Jihād, mentre la rivolta continuava a divampare. Precedentemente, il 22 dicembre 1987 persino il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva condannato il non rispetto della Convenzione di Ginevra, in merito ai morti causati dalla repressione israeliana. Seguiranno, da allora al 1992 altre 9 risoluzioni, puntualmente disattese, in cui lo stesso Consiglio, condanna e deplora la pratica di deportazione di massa di cittadini palestinesi. Sia nei centri abitati e nei campi profughi di Gaza che nelle cittadine e nei villaggi in Cisgiordania, nascono intanto comitati popolari per sostenere l’Intifada. La loro azione non si limita solo all’autodifesa e alla denuncia delle continue violazioni, cerca di mantenere un tessuto sociale condiviso, punisce chi collabora con l’occupante, sostiene le famiglie che hanno subito perdite o i cui congiunti sono detenuti, prova a tenere in piedi un tessuto di scuole popolari per garantire a ragazzi e ragazze l’istruzione. La repressione è in poco tempo durissima e implacabile. L’obiettivo è quello di indebolire l’Olp e di fiaccarne le capacità organizzative. Nello stesso momento in cui si chiudono le scuole pubbliche il governo israeliano finanzia l’apertura di moschee e induce i giovani a passare più tempo nelle madrase, le scuole coraniche. Da quella repressione e da quel passaggio epocale nasce il rafforzamento di Hamas, un tempo piccolo gruppo islamista ma che diviene lentamente egemone soprattutto nella Striscia di Gaza. Nei campi profughi sorti nel 1949 per volontà dell’Onu, dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) arrivano pochi fondi e sovente la loro gestione non è trasparente. Hamas, sin dall’inizio, con il sostegno dei Paesi del Golfo, offre welfare alle famiglie dei propri militanti e a chi ha subito un lutto, disegna già da allora quella che sarà la propria identità.

Ma la rivolta delle pietre e dei bambini continua, acquista simpatie nel mondo pacifista internazionale – è del 1989 la magnifica manifestazione a Gerusalemme denominata Time For Peace – smuove la coscienza di quella parte di società israeliana di sinistra che non accetta di perseguire persone e che rifiuta la logica di guerra. Dall’esperienza delle “Donne in nero” manifestanti israeliane che protestano davanti alle carceri a Gerusalemme quando si processano detenuti politici palestinesi, ai refusenik (i militari che si rifiutano di obbedire agli ordini), ad intellettuali, esponenti politici, una minoranza rumorosa che cerca il dialogo e propone un futuro di pace. Il loro impegno viene punito dai governanti israeliani in maniera implacabile, a volte alcune/i di loro finiscono con l’essere persino ripudiati dalle famiglie. L’odio cresce anche nel mondo palestinese e dalle pietre si passa al lancio di molotov e ai primi attentati suicidi. La risposta sono le case dei resistenti che vengono abbattute, gli ulivi secolari sradicati, le incarcerazioni arbitrarie e il confinamento in zone circondate dai coloni. Non si possono capire i fatti odierni se non si comprende come la generazione oggi adulta sia cresciuta in quel clima, dove, soprattutto i bambini, subivano umiliazioni di ogni tipo, vessazioni, atti di violenza che sottintendevano una sorta di odio razziale nei confronti delle popolazioni arabe. Capitava di vedere esposte nei mercatini della Gerusalemme israeliana magliette con la scritta in inglese “spara ad un’araba incinta e ne elimini due con un colpo”. E va detto che anche le generazioni di israeliani di allora sono cresciute nell’odio e nella paura dell’arabo come nemico.

Nel 1993 con gli accordi di Oslo si pensò di poter porre fine al conflitto e di trovare una via di pace. Ma questa è un’altra storia che non è andata a buon fine

Stefano Galieni

29/11/2023 https://transform-italia.it/

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