I luoghi comuni
Ogni tratto della nostra storia deve fare i conti con la maledizione dei luoghi comuni. Qualcuno, come lo scrittore Marcello Fois, concorda nel dire che i luoghi comuni sono il centro del nostro mondo: frasi e spazi condivisi. Perché “dentro queste case che siamo, resta il peso di ciò che abbiamo detto ma anche di ciò che non abbiamo osato dire. Le parole di troppo e quelle mai pronunciate…”. Credo sia dannoso valutare un solo riflesso di una prassi, del resto, ogni farmaco ha le sue controindicazioni.
Viviamo in un tempo difficile, a un passo dall’impossibile, tutto ciò che gira intorno a noi è impalpabile, le stesse prove, che un tempo servivano a rafforzare le ragioni, appaiono semplici e nude, insufficienti. Solitamente indichiamo il paradosso come contrario del luogo comune. In Italia, il luogo comune è un incentivo per classificare le opinioni, quasi un metro di valutazione, un rendiconto, una risposta dettata dai canoni imposti. Addirittura, possiamo contare su un elenco infinito di detti e di dettami.
Mi suggestiona molto, nel nostro lessico classico, quel “che ci vuoi fare?” Spesso inserito solo per raffigurare l’impotenza di fronte allo stato di fatto. “Che ci vuoi fare?” Quindi, impotenza e accettazione. Lo dicevamo anche durante la dittatura, quando i padroni trattavano da schiavi gli operai. “Che ci vuoi fare?” Bisogna pur mangiare. Oggi è doveroso sottomettersi al padrone per tirare avanti, altrimenti si rischia il fallimento.
Allora? “Che ci vuoi fare?” E quando parliamo a più persone, ognuno sente il dovere di ripetere, almeno una volta nella vita. “che ci vogliamo fare?” L’accettazione diventa un luogo comune, come lo svendersi. Il passaggio è molto più breve di quanto la nostra ragione possa immaginare. Ormai è costume svendersi per un posto di lavoro, per un posto meno freddo. Chinare il capo, chiedere raccomandazioni, donare il corpo. Tutto ciò passa per costume di massa, quindi valore e risultato del luogo comune. La dignità diventa un accessorio, un bene superfluo, l’infelicità un luogo c o m u n e , un’attitudine. Bisogna inchinarsi al più ricco, sottostare al comando, ringraziando i padroni per essere stati scelti come schiavi. La morale è stata archiviata da un pezzo e il debole soccombe, di questo passo morirà in ginocchio, mentre chiede un posto al datore di lavoro o chi ne fa le veci.
Il luogo comune è una bomba inesplosa, potrebbe non causare danni, ma ha più potenzialità di un ordigno atomico. Esso va affrontato, contrastato e abbattuto, ne vale la qualità della nostra vita, per non ridurla in una prigione. A volte o molto spesso, “tanto va la gatta al lardo, che non deve più correre dietro ai topi per mangiare”. Il luogo comune è una delle conseguenze della ideologia piccolo borghese, è una delle conseguenze di 200 anni di capitalismo, che tramite esso consacra il fatalismo; esempio classico: il cattolicesimo. Il luogo comune è il recinto dove pascolano i mansueti, i poveri di spirito, coloro che si sono dati per vinti, non è soltanto una pessima abitudine di un popolo.
Antonio Recanatini
Editoriale maggio 2016 www.lavoroesalute.org
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