I MEDICI A GETTONE

articoli di Chiara Rivetti, Daniele Tempera, Raffaele Varvara, Milena Gabanelli e Simona Ravizza

I medici a gettone e la sanità pubblica – Chiara Rivetti

Sono stata assunta nel Servizio sanitario nazionale (SSN) come medico ospedaliero nel 2006. In fondo, non poi così tanti anni fa. Eppure, sembra passata un’era. Allora, era un traguardo vincere un concorso per un posto a tempo indeterminato, nel pubblico. Lavorare in ospedale era quello per cui avevamo studiato, e il posto fisso permetteva di pensare a far figli, a chiedere un mutuo, dava sicurezza e stabilità. Entravi a far parte della grande famiglia dell’ospedale che ti aveva assunto, con tutto l’amore e l’odio che c’è nelle grandi e vivaci famiglie. Ma, come fan presto, amore, ad appassir le rose. Così almeno è per noi: ora, il posto a tempo indeterminato interessa, ma fino a un certo punto. Perché c’è l’alternativa dei medici a gettone.

Come una piaga d’Egitto, l’esternalizzazione dei servizi medici ad agenzie di somministrazione lavoro, amichevolmente dette cooperative, si è diffusa, partendo dai pronto soccorso ed è andata via via espandendosi agli altri reparti, mortificando e desertificando i servizi. Il peccato originale va ricercato in una errata programmazione del fabbisogno di specialisti: per lavorare in ospedale non è sufficiente la laurea in medicina ma è necessaria anche una specialità, e negli anni scorsi sono stati formati meno specialisti del necessario. Così, i medici andavano in pensione e i concorsi per trovare specialisti da assumere per sostituirli erano puntualmente deserti. Soprattutto nelle specialità nuove e più usuranti, come la medicina d’ emergenza-urgenza. Ecco che per tenere aperti i servizi, oltre 10 anni fa, iniziarono a spuntare i primi contratti di sub-appalto alle cooperative. Le cooperative i medici riuscivano a trovarli, perché la remunerazione oraria era (ed è) quasi il doppio di quella di un dipendente, perché i criteri di selezione sono molto meno stringenti, perché spesso erano medici di altre regioni o stranieri, che accumulavano una serie di turni ravvicinati dormendo magari in albergo, per poi tornare a casa. Le cooperative siglavano appalti prevalentemente negli ospedali meno appetibili della provincia, e prevalentemente nei Pronto Soccorso.

Rispetto a 10 anni fa, ora decidono di lavorare a gettone anche medici pensionati con esperienza, neolaureati e neospecialisti. Proprio perché la remunerazione è alta e la flessibilità oraria pure. Per il resto, la situazione negli anni è drammaticamente peggiorata: le cooperative sono ovunque, anche in città come Torino. Tantissimi reparti ne fanno uso, oltre al Pronto Soccorso: radiologia, rianimazione, pediatria, ortopedia, neurologia, nefrologia ecc. Secondo la SIMEU, vi fa ricorso il 50% degli ospedali in Piemonte, il 60% in Liguria, il 70% in Veneto. In Friuli-Venezia Giulia e nelle Marche tutte le strutture sanitarie ricorrono ai medici a gettone.

Ma scegliere di sub-appaltare i servizi ad agenzie di somministrazione lavoro non è a costo zero. È una scelta che il sistema paga, e caro. Perché rovina l’ambiente di lavoro: il senso di équipe e la possibilità di formare un gruppo affiatato vengono meno con le prestazioni occasionali di medici che oggi ci sono e domani non più. Perché i medici a gettone non conoscono l’organizzazione della struttura, le procedure, il software di gestione delle cartelle dei pazienti e l’azienda non ha alcun interesse a investire nella loro formazione, essendo personale solo di passaggio. Perché gli ospedali delegano la valutazione delle competenze dei medici alle cooperative stesse: mentre i dipendenti devono avere la specialità e superare un concorso, ai medici delle cooperative spesso è solo richiesto di essere iscritti all’Ordine. Infine, perché demotiva il personale dipendente, che lavora gomito a gomito con colleghi che guadagno il doppio e hanno contemporaneamente molta più autonomia e flessibilità di orari.

La presenza delle cooperative, in aggiunta ai carichi di lavoro insostenibili e alla scarsa valorizzazione delle professionalità, porta al fenomeno delle grandi dimissioni: in Italia sette medici al giorno abbandonano gli ospedali pubblici, con un incremento del fenomeno del 39% nel 2021 rispetto all’anno precedente. I medici si dimettono dal SSN e decidono di aprire partita Iva, andare nel privato, sul territorio o nelle cooperative. Appunto. E ciò crea un circolo vizioso perverso, per cui chi rimane avrà sempre più lavoro e sempre più sarà necessario far ricorso alle esternalizzazioni per coprire i turni.

Allora perché le aziende decidono di reclutare il personale medico con questi contratti piuttosto che assumere? La motivazione ufficiale è che non si hanno alternative, e senza i medici delle cooperative alcuni servizi sanitari dovrebbero chiudere. In parte, è vero. Ma solo in parte. Da un lato, ancora adesso non è facile trovare gli specialisti da assumere, che aumenteranno in maniera rilevante solo tra 2-3 anni. La legge finanziaria del 2010, però, ha fissato un tetto di spesa per il personale sanitario, che non deve superare il livello della spesa del 2004 ridotto dell’1,4%. Questo tetto è nettamente inferiore alle esigenze attuali, così si procede con i contratti a prestazione, il cui costo cade su un capitolo di spesa che si chiama «beni e servizi» e non su quello del «personale», che è gravato appunto dal limite imposto per legge. Ma la vera, sincera risposta, dall’altro lato, al perché le ASL si appoggino alle cooperative è che, di fatto, la sanità non è una priorità. Né lo è stata nel recente passato. I governi regionali e nazionali in questi anni hanno lasciato che le cose lentamente peggiorassero, fregandosene, mentre i gruppi privati arrivavano come avvoltoi su un banchetto ancora palpitante di vita. Le soluzioni c’erano e ci sono, ma ignorale è più comodo, forse più conveniente. Il nostro grido di allarme di 10 anni fa, quando da subito denunciammo il pericolosissimo fenomeno delle cooperative, fu colpevolmente ignorato. Allora, sarebbe stato necessario formare nuovi specialisti che adesso sarebbero in numero sufficiente per coprire tutte le carenze di organico. Invece, l’aumento, a livello nazionale avvenne in misura modesta nel 2019 (da 6.200 a 8.000) e considerevolmente solo dal 2020 (da 13.400 fino a 17.400 nel 2021).

Ma nell’immediato, oltre a formare nuovi medici, qualcosa si potrebbe fare per arginare il fenomeno delle esternalizzazioni. Per esempio, il tetto di spesa al personale andrebbe tolto, subito. Infatti, anche dove gli specialisti ci sono, le ASL sono frenante dall’assumere da questo limite di spesa. Poi, le remunerazioni dei dipendenti dovrebbero essere competitive con quelle dei medici delle cooperative, in modo che il lavoro nel pubblico sia attrattivo. Sarebbe necessario, in questa fase critica, poter contare sull’aiuto degli specializzandi anche nei reparti ospedalieri: non è un caso che le aziende universitarie debbano esternalizzare i servizi in misura nettamente inferiore. Infine, sarebbe indispensabile la revisione della rete ospedaliera, riorganizzando i servizi e riconvertendo gli ospedali che non garantiscono la qualità e la sicurezza delle cure perché troppo piccoli.

Quando le cooperative entrano in un ospedale, è l’inizio della fine. Ma nessuno sembra esserne realmente consapevole. Sarebbe necessario fotografare i rientri in Pronto Soccorso dei pazienti appena dimessi, i tempi di degenza, l’appropriatezza nell’esecuzione degli esami diagnostici e nella prescrizione delle cure. E quanti medici, nell’arco di poco tempo dopo questa scelta, decidono di chiedere trasferimento o di licenziarsi. Sarebbe necessario, in sintesi, avere a cuore il destino del servizio sanitario nazionale pubblico e considerarlo un bene comune prezioso, da difendere e in cui investire. Ma non sembra che sia così.

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Il lavoro da mille euro al giorno: così i privati si mangiano gli ospedali pubblici – Daniele Tempera

Secondo la Corte dei Conti dopo la pandemia i conti della sanità pubblica sono fuori controllo. Non per nuove assunzioni o ritocchi agli stipendi dei medici, rimasti spesso al palo, ma perché le commesse pubbliche sono andate a cooperative e società private che hanno raddoppiato il fatturato incrementando l’uso, sempre più privatistico, delle strutture pubbliche.

“Si è cominciato con i consulenti. All’inizio si trattava di medici in pensione che davano una mano nei reparti. Oggi questa prassi è diventata sistematica: senza esterni non si va avanti”. È un grido di dolore, quello di M., medico oggi in pensione, ma che ha lavorato a lungo nell’ospedale di Castiglione del Lago, comune di quindicimila abitanti sul Lago Trasimeno, in provincia di Perugia. “I colleghi mi spiegano che impiegare professionisti a gettone è l’unico modo per mandare avanti i pronto soccorso e mi raccontano di guadagni assurdi per turni di 12 ore e più – racconta ancora a Today.it – La domanda che io faccio è: come è possibile fare queste turnazioni nella medicina di emergenza e che un medico in malattia lavori come gettonista in un altro ospedale pubblico senza che nessuno se ne accorga? E soprattutto dov’è chi deve controllare sulla qualità del servizio e sui lavoratori?”.

L’ospedale di Castiglione del Lago è finito nell’occhio del ciclone nell’ultima inchiesta dei carabinieri del Nas sullo scandalo delle liste di attesa pilotate. Qui i militari hanno scoperto infatti una radiologa, dipendente della Asl ma formalmente in malattia, che lavorava come medico a gettone in ospedali veneti per conto di due cooperative. Domicilio in Spagna, per evitare così le visite fiscali, certificati di malattia firmati da un medico probabilmente connivente e turni di lavoro di 12 ore profumatamente pagati. Il tutto mentre diventavano sempre più lunghe le liste di attesa per accertamenti diagnostici nell’ospedale dove doveva lavorare. Il caso insospettisce prima i vertici dell’ospedale e successivamente i nuclei anti-sofisticazione dei carabinieri che riescono a ricostruire le strategie della donna e indagarla per truffa.

Si tratta di una delle storie più emblematiche emerse dall’inchiesta. La dimostrazione di come il business dei medici a gettone sia stato, nel post Covid, particolarmente ghiotto per i privati e non privo di ripercussioni per la sanità pubblica. Anche quando viene effettuato, come nella stragrande maggioranza dei casi, alla luce del sole.

Un business fiorente per pochi che però paghiamo tutti

Quando parliamo di medici a gettone parliamo di professionisti che lavorano a cottimo e guadagnano quasi sempre – a parità di ore lavorate – più degli assunti. Per un solo turno di lavoro i ‘medici in affitto’ possono arrivare anche a più di 1.000 euro, fino a 3.600 euro per 48 ore di lavoro in caso di turni accorpati. E a mancare sono spesso standard orari e qualitativi, con tutti i rischi che ne conseguono, anche per i pazienti. Vengono spesso reclutati in chat su internet da cooperative o società di consulenza che, da anni, hanno fiutato il business e lo cavalcano legittimamente.

Per rendersene conto è possibile visionare, online, le visure di alcune delle aziende che forniscono servizi di intermediazione sanitaria. Ci si accorge così di incassi quasi raddoppiati nel giro di 3 anni. È il caso, ad esempio, della ‘Medical Line Consulting’, società di consulenza romana, a cui sono stati affidati, tra gli altri, i turni dei pronto soccorso di Fondi, Latina e Terracina per sopperire alla drammatica carenza di personale (l’ultima delibera da 100mila euro firmata il 29 maggio 2023 dalla Asl di Latina per il solo servizio estivo). La società fa registrare un fatturato che supera i 20 milioni di euro nel 2022 e che raddoppiato rispetto al pre-pandemia. Ma sono molte le cooperative nate per fornire prestazioni di tipo medico-infermieristico dal 2020 a oggi. Ad alimentare il business c’è un giro di affari considerevole alimentato dai soldi pubblici, dalla drammatica e strutturale carenza di personale sanitario e da un paradosso tutto italiano che si chiama “tetto di spesa”.

Lo spiega in modo esaustivo Pierino Di Silverio, segretario di Anaoo Assomed, il più rappresentativo sindacato di categoria per medici e dirigenti medici: “Si ricorre ai gettonisti perché c’è un tetto di spesa rigido per l’assunzione di personale che impedisce alle aziende ospedaliere, pur se volessero, di assumere. I medici a gettone ricadono invece in una voce denominata di ‘beni e servizi’, non sottoposta a queste limitazioni”. Il paradosso è che, per un semplice gioco amministrativo delle tre carte, spendiamo tutti di più, ottenendo servizi di qualità inferiore.

Il report della Corte dei Conti: boom delle consulenze negli ultimi 3 anni

A certificarlo c’è il report annuale della Corte dei Conti sul monitoraggio della spesa sanitaria. Per rendersi conto di quanto poco ci sono convenuti i professionisti a gettone in sanità è sufficiente guardare a due voci di spesa: da un lato il costo del personale, dall’altro ai cosiddetti “costi intermedi” per beni e servizi. Se i fondi statati destinati ai redditi da lavoro dipendente nella Sanità sono aumentati del 2% dal 2013, quelli per “i costi intermedi” sono aumentati del 10%. Nel corso di quasi dieci anni si passa così da 30 a 43 miliardi di euro di spesa destinati a “beni e servizi”.

Componente201320142015201620172018201920202021
Redditi da lavoro dipendente-1,3%-0,7%-1,3%-0,7%-0,1%2,5%2,7%1,8%2,2%
Consumi intermedi-1,4%3,9%3,1%4,2%3,0%2,7%0,1%11,2%10,1%
Spesa sanitaria corrente di CN-0,6%1,7%0,3%0,9%1,1%2,0%1,1%6,1%4,2%

Una percentuale enorme su cui sicuramente incidono una grande pluralità di costi e attrezzature mediche, necessarie soprattutto nei difficili anni dalla pandemia, ma influenzata sicuramente anche dal business delle consulenze d’oro nella sanità. A scriverlo sono nero su bianco gli stessi magistrati contabili: “la crescita dei consumi intermedi è influenzata anche dal consistente ricorso alle forme di lavoro flessibile, previsto da specifiche disposizioni normative emergenziali intervenute nell’ultimo biennio”. Soldi su cui si sarebbe potuto forse assumere e formare nuovo personale, ma che si è preferito utilizzare per pagare, a peso d’oro, cooperative e aziende private.

Un business fiorente di cui si sono avvantaggiati in pochi e che ha costituito spesso un problema, sia in termine di qualità che di spese, anche indirette, come spiega Di Silverio: “Con i medici a gettone si spende di più anche in maniera indiretta, anche perché non si può avere la continuità delle cure con un medico che lavora a cottimo – osserva Di Saverio – Se si avvicendano due medici, il secondo potrebbe chiedere al paziente di svolgere altri esami perché non conosce la sua storia clinica. Il rischio è quello di una lievitazione delle spese diagnostiche e terapeutiche” spiega a Today.it il segretario di Anaoo Assomed.

La stretta sul personale a gettone del Governo e i problemi aperti

Un’evidenza di cui si è reso conto anche il Governo che dallo scorso aprile ha predisposto una stretta sull’utilizzo dei cosiddetti gettonisti nella sanità con il decreto bollette. I medici a gettone possono ora essere utilizzati solo in caso di necessità e urgenza, in un’unica occasione e senza possibilità di proroga, dopo aver attentamente verificato che sia impossibile utilizzare personale già in servizio. La commessa non può durare più di dodici mesi e viene istituito un tetto alla loro retribuzione. Inizialmente si pensava di confinarli ai pronto soccorso, ma l’endemica carenza di personale medico ha indotto il governo a ritornare sui suoi passi ed estendere la possibilità del loro utilizzo a tutti i reparti.

È presto per capire quali saranno gli effetti della norma: attualmente sono essenziali in molte strutture ospedaliere. Solo negli ospedali veneti questa tipologia di professionisti ha coperto circa 42mila turni . Ed è proprio nei pronto soccorso dove vengono maggiormente utilizzati.

“Nei pronto soccorso c’è più presenza di medici a gettone perché c’è più carenza di personale. È un settore che è molto gravato, in questa fase storica, dai rischi correlati alle aggressioni, dalle potenziali denunce e da un carico di lavoro impressionante. Un medico di pronto soccorso deve gestire più di 90 pazienti che sono spesso critici o acuti che potrebbero cambiare codice, ovvero aggravarsi, da un momento all’altro” spiega Di Salverio presidente di Anaoo-Assomed.

“Il decreto del governo è un segnale, ma è al momento una goccia nel mare. Il problema è che attualmente senza queste figure non si va avanti” gli fa eco Antonio Voza, presidente della Società Italiana di Medicina di Emergenza e Urgenza, che estende il problema a tutto il nostro sistema sanitario. “È un problema generalizzato a 360 gradi, noi siamo la rosa del vigneto, i primi ad ammalarci. Ma è tutto il sistema ospedaliero a essere in crisi. Ci sono sempre più specialisti che lasciano il lavoro pubblico per gli ambulatori privati” aggiunge Voza.

Quello che è certo è che più si fa ricorso a queste figure, più a risentirne è la qualità con conseguenze che possono essere anche drammatiche: “Un’organizzazione, come quella della medicina di emergenza, che fa ricorso sistematico a professionisti delle cooperative è sicuramente più debole e avrà una qualità inferiore in un campo molto delicato dove diagnosticare una patologia immediatamente può salvare una vita” chiosa.

È indubbio però che, quando parliamo di medicina d’urgenza, ci troviamo di fronte medici spesso sottoposti a turni più stressanti rispetto al resto del personale medico e che spesso non hanno le stesse opportunità di arrotondare che hanno gli altri con le visite intra ed extra-moenia. Due caratteristiche che rendono la professione sempre meno appetibile da parte dei giovani e il ricorso ad esterni sempre più probabile.

Strutture pubbliche, affari privati

Ma è anche il proliferare delle visite (pienamente legittime) svolte “privatamente” da dipendenti delle Asl all’interno di strutture pubbliche o convenzionate a segnalarci che la presenza di affari privati in strutture pubbliche è un problema complesso. Sono sempre i Nas, nel corso della già citata inchiesta sulle liste d’attesa, a segnalare la storia di un dirigente medico responsabile di un ambulatorio di gastroenterologia e colonscopia di Roma. Nonostante le liste pubbliche con ticket fossero bloccate da mesi, il medico esercitava le stesse prestazioni in attività intramoenia extramuraria -regolarmente autorizzata – presso un poliambulatorio privato con una programmazione fino ad 8 esami giornalieri. Tradotto: l’unico modo per effettuare un accertamento diagnostico, spesso essenziale per la salute, era pagare.

“Tra i suggerimenti che abbiamo sottoposto al ministero c’è anche quello di calibrare le visite in intramoenia ed extramoenia – sottolinea Dario Praturlon, portavoce dei Nas commentando gli esiti dell’inchiesta degli scorsi giorni – intendiamoci, è tutto alla luce del sole, e non c’è nessun profilo penale contestato, resta da considerare se sia deontologico” spiega ancora Praturlon.

“È paradossale che non ci sia disponibilità di prestazioni col ticket e poi ci si possa far visitare in intramoenia, dove il medico percepisce guadagni extra utilizzando la struttura pubblica o in un’altra struttura convenzionata dall’Asl”.

L’utente fa di fatto una visita privata, ma invece di ritrovarsi sei mesi di attesa attende pochi giorni, a patto di pagare. Una situazione ben testimoniata da Nord a Sud con inchieste portate avanti anche dal nostro gruppo editoriale.

C’è poi il problema della mancata adesione di cliniche e ambulatori privati, già convenzionati, al sistema di prenotazione unico delle aziende sanitarie o a livello regionale. Una scelta dettata da convenienze economiche, ma che riduce la platea di strutture utili per l’erogazione delle prestazioni mediche specialistiche e diagnostiche. Nel Lazio dovrebbero coprire il 70% delle prestazioni, nella realtà ne coprono solo il 10%. “Abbiamo notato come in molte Regioni non sempre nel Cup ci siano tutte le strutture private accreditate: il paziente non ha a disposizione tutta la platea di strutture, devono chiamarle direttamente. In molte Regioni questo aspetto è un problema” spiega ancora Dario Praturlon a Today.it.

Eppure le convenzioni sono fatte in forma sussidiaria per supportare un servizio pubblico che spezzo zoppica. Segno che quello dei medici a gettone è solo la punta dell’iceberg di un Sistema Sanitario Nazionale sempre più ostaggio di logiche più privatistiche che pubbliche, che stanno trasformando lentamente un diritto costituzionale in un privilegio.

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DIMISSIONI DI MASSA DI MEDICI E INFERMIERI – LA FUGA METTE IN GINOCCHIO LA SANITA’ PUBBLICA – Raffaele Varvara

Assimilando il nostro SSN a un paziente in codice rosso, diremmo: “emorragia massiva con compromissione emodinamica”. Il sangue sono gli esercenti le professioni sanitarie, l’emorragia è la fuga dei sanitari dal pubblico verso il privato e la compromissione emodinamica sono le gravi conseguenze sistemiche che questo esodo provoca sulla copertura dei bisogni di salute della popolazione.

Prendiamo ad esempio l’ospedale Manzoni di Lecco dove si contano 1,6 abbandoni al giorno a gennaio 2022, 1,5 a febbraio 2022″, riferisce Francesco Scorzelli, 63 anni, infermiere da 37, dirigente sindacale Usb e delegato nella Rsu dell’ospedale di Lecco, che ha spulciato una per una tutte le delibere e le determine per tirare la somma della conta delle defezioni. Nel 2021 gli “abbandoni” sono stati 321 e il trend del 2022 è addirittura superiore. “I concorsi di ogni ordine e grado vengono banditi, non solo per i tecnici di radiologia, anche per infermieri, medici, tecnici di laboratorio, amministrativi, ma rapidamente le graduatorie vengono consumate – prosegue il sindacalista -. Per quanto riguarda quello degli infermieri, in pochi mesi, siamo già arrivati alla 400ª posizione in graduatoria”. Significa che non si riesce a rimpiazzare chi se ne va perché i nuovi arrivi spesso durano poco e non vogliono terminare nemmeno il periodo di prova. “E’ da tempo che denunciamo la scarsissima volontà di rendere “appetibile“ lavorare nelle strutture sanitarie pubbliche della nostra provincia”, spiega il dirigente dell’Usb dell’ospedale di Lecco(1).

Non è appetibile di certo un corpo professionale che, dopo la pandemia, soffre di quello che possiamo ribattezzare “disturbo post-traumatico da stress di categoria”. A fornire la radiografia di come stanno i nostri medici e infermieri è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di oltre duemila professionisti sanitari e presentata a Milano al 28esimo Congresso Nazionale della Federazione.

In totale a dichiararsi in “burnout” è il 49,6% del campione ma la percentuale sale al 52% quando si parla di medici, per ridiscendere al 45% nel caso degli infermieri. E in entrambi i casi l’incidenza è più del doppio tra le donne, dove permane la difficoltà di coniugare il tempo di lavoro con quello assorbito dai figli e la famiglia in genere.
Ad influire sullo stato di stress cronico è anche il fattore età, visto che sotto i trent’anni la percentuale di chi è in burnout cala al 30,5%. Fatto è che proiettando i dati più che significativi delle medicine interne sull’universo mondo dei professionisti della nostra sanità pubblica abbiamo oltre 56mila medici e 125.500 infermieri che lavorano in burnout. E che per questo motivo incappano in qualche inevitabile errore. Uno studio condotto dalla Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota ha rilevato almeno un errore grave nel corso dell’anno nel 36% dei camici bianchi in burnout. Percentuale che proiettata sul totale dei nostri medici da un totale di oltre 20mila errori gravi.

Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla Fnopi, la Federazione degli ordini infermieristici, stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri pubblici operanti in Italia in burnout da altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila, sicuramente qualcuno in più considerando che uno stesso operatore può essere incappato in più di un errore nel corso dell’anno (2).

Non solo errori, nella mia pratica clinica ho constatato empiricamente che il burnout dei sanitari ha un impatto sui processi di cura: non si cura la causa di una malattia andando alla ricerca dei fattori scatenanti profondi, ma si prescrivono decine e decine di farmaci allo scopo di gestire superficialmente i sintomi, mettendo pezze su pezze ai problemi di salute sottostanti. Noto inoltre come rispetto a tre anni fa, oggi c’è una certa facilità a intraprendere la strada della palliazione, al primo aggravamento dello stato clinico di una persona.

Il burnout dei sanitari non è un problema categoriale, del singolo medico o del singolo infermiere bensì un problema di sanità pubblica poichè ha un impatto sugli esiti di salute degli assistiti. Per questo motivo, alcuni ordini professionali stanno organizzando percorsi di cura per i professionisti sanitari. Tuttavia l’ansia, la depressione, l’irritabilità, la mancanza di energie motivazionali, vengono curate esclusivamente in maniera individuale-biografico-familiare; questi percorsi di cura non considerano che sta crollando un intero sistema di mondo e che di conseguenza il peso di quei disagi non può essere affrontato riduzionisticamente in maniera individuale, addossando la colpa al singolo professionista sanitario. Questi processi di elaborazione, quasi mai coinvolgono, i fattori storici e politici che influiscono in maniera determinante sulla salute dei sanitari e rappresentano le con-cause delle loro sofferenze. Se non si esprimono questi collegamenti, si rischia di far soffrire e di far sopportare l’enorme drammaticità della questione collettiva, come se fosse solo un problema di natura individuale, astratta e sciolta dai legami con i fattori storico-politici contemporanei. Per curare chi cura, servono percorsi di condivisione terapeutica, di socializzazione e politicizzazione del dolore, per collegare quei disagi alla fase storico-collettiva che viviamo e guarire con una terapia sistemica.

La terapia per fermare l’emorragia e il burnout che proponiamo al governo è il rifinanziamento del fondo sanitario nazionale per reggere la concorrenza con il privato. Le misure del governo per la sanità in manovra finanziaria sono, per tornare ai paragoni con la clinica, come un antibiotico sottodosato per un paziente in sepsi conclamata, ovvero nulle rispetto al fabbisogno.

Noi suggeriamo al ministro Schillaci la tassazione degli extraprofitti delle case farmaceutiche per smaltire le lunghissime liste d’attesa e rianimare il corpo professionale delle professioni sanitarie.

NOTE

  1. https://www.ilgiorno.it/lecco/cronaca/operatori-sanitari-in-fuga-appena-arrivati-gia-se-ne-vanno-5d7b9135
  2. https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2023/05/06/ansa/il-burnout-dei-sanitari-causa-100mila-errori-lanno_87e232c5-6954-44c4-99bc-429af5f6ff61.html

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Sanità: ecco le decisioni che danneggiano tutti – Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Non serve ribadire che abbiamo un problema di assistenza sanitaria sul territorio. È accertato. Per dare ai cittadini un punto riferimento a cui rivolgersi per le prime necessità senza intasare inutilmente i Pronto Soccorso sono stati messi 2 miliardi di euro del Pnrr nella costruzione di almeno 1.350 Case di Comunità.

Una ogni 40-50 mila abitanti (qui), con il vincolo a ultimarle entro giugno 2026. Sono strutture pubbliche dove ci lavoreranno medici di medicina generale, pediatri, ostetrici, lo psicologo, infermieri di famiglia, un assistente sociale, 5-8 figure sociosanitarie e amministrative (Dm 77 del 23 maggio 2022, pag. 26). A regime il costo annuo previsto per il personale ammonterà a 685,6 milioni, già indicati dalla Legge di bilancio 2022 (art. 93 pag. 208).

IL CRONOPROGRAMMA

Gli accordi firmati dalle Regioni con il ministero della Salute stabiliscono dove e come verranno realizzate le Case di Comunità. I progetti, approvati in tutte le sedi, sono partiti a tambur battente a giugno 2022…

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PNRR,  Guerra, Case e Ospedali di Comunità-nessi inestricabili.

Il PNRR prevedeva investimenti di 2 miliardi per costruire 1350 Case di Comunità e 1 miliardo per nuovi Ospedali di Comunità da attivare entro il 2026, ma 414 Case e 95 Ospedali di Comunità sono già saltati. I fondi non bastano.

In assenza di questi presidi, per l’utenza non resta che “l’assalto” ai Pronto Soccorso. Alla domanda di assistenza lo stato risponde con una sorta di trincea militare dopo aver creato rabbia e disordine. Si  prometteva entro giugno 2026 una Casa di Comunità ogni 40-50 mila abitanti. Il progetto  doveva essere una sorta di ravvedimento per le sofferenze e i lutti  patiti dalla popolazioni, e soprattutto dai poveri, prima, durante e dopo la pandemia.

Case e Ospedali di Comunità  propagandati come un equivalente del Mulino Bianco in versione sanitaria dove MMG, pediatri, ostetrici,  infermieri, assistenti e varie altre figure socio sanitarie ed amministrative sono  empatici e prestano cure e conforto.

Ma le progettazioni a tavolino sono come i sogni, non hanno limiti … tanto l’attuazione è rimandata al risveglio e disegnare con la fantasia non costa nulla. Vennero fatte previsioni di spesa  annue per il personale di 685,6 milioni (Legge di Bilancio 2022). Il 27 luglio, però, il Ministro Raffaele Fitto inciampa  nella realtà.

I prezzi per l’edilizia sono lievitati dal 24 al 66% e quindi  la revisione del Piano è inevitabile. Il Governo decide di tagliare 414 Case e 44 Ospedali di Comunità. Dai castelli in aria si passa ad un più prosaico progetto di riadattare gli edifici già esistenti.

Case e Ospedali tagliati verranno finanziati (poi!?) con una parte dei 10 miliardi destinati all’edilizia sanitaria (fondi non Pnrr) originariamente destinati alla  costruzione di nuovi reparti, riparazioni, messa a norma, attrezzature ecc.

Questo cambio di marcia  va ad inficiare i fondamenti  stessi di una riforma ufficialmente mirata al riequilibrio della sanità territoriale carente o assente  proprio attraverso la costruzione di Case e Ospedali di Comunità.

Strutture queste che dovrebbero fare da filtro agli ospedali e gestire  malati  bisognosi di cure ma non di ricoveri ospedalieri propriamente detti. Concetto questo che si presta, va detto, a mille discrezioni e mille arbitri.

Questo significa per  la Campania, ad esempio, il taglio di 117 strutture rispetto alle 172 programmate.

Ma da questa waterloo del SSN non tutti escono scontenti. La Regione  Lazio per decongestionare gli ospedali ha firmato un accordo con i privati (accreditati, non casual, per carità) per ospitare nelle loro strutture pazienti al prezzo di 500 € al giorno a fronte dei 150 €  previsti per gli Ospedali di Comunità.

Ovviamente gli ospedali sovraffollati, con personale carente, demotivato, con una età media sempre più alta e vetusto come le stesse strutture continueranno ad essere carenti e fatiscenti.

Comunque i problemi legati a revisioni di spesa, gare mancate e/o ritardate  che mettono in allarme i mercanti della salute, prontamente soccorsi e assistiti dal Governo, non possono far passare in secondo piano una verità elementare:

non un € del PNRR viene  destinato a finanziare  l’assunzione delle figure necessarie alla  sanità territoriale.

Non finisce qui! I 42 mila Medici di famiglia asse portante delle Case di Comunità avrebbero dovuto mettere a  disposizione  due ore a testa al mese, ma non si rendono disponibili, fanno valere, per ora, il loro status di liberi professionisti. Il piano per potenziare le cure territoriali resta una chimera, non cancella la  disumana gestione della pandemia e non ci si prepara alle emergenze future,

I medici fanno valere una loro prerogativa professionale che li pone lontani da ogni principio di sanità universale.

I lavoratori della sanità,  per rivendicare cure universali e gratuite, si uniscono ai lavoratori degli altri settori.

Il 20 ottobre  Sciopero Generale, 21 ottobre manifestazione a Ghedi (Brescia)

contro le basi militari dell’Italia e della  NATO.  

Guerra,  guerre commerciali, guerre per il dominio dei mercati e politiche di guerra sono un tutt’uno con la sottrazione di risorse ai bisogni della vita.

Sindacato Intercategoriale Cobas – Coordinamento Nazionale via Bernardo Celentano 5, 20132 Milano (MI) – email: milano@sicobas.org

25/9/2023 Raccolta a cura di https://www.labottegadelbarbieri.org/

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