I morti sul lavoro? Chi lavora paga anche con la vita l’ignavia di questa politica

In questi mesi di bufera coronavirus le notizie dei morti e degli infortuni sul lavoro saranno ancor di più del solito relegati in qualche nota in fondo alle pagine interne. Però.

Ci stiamo rendendo conto che sta passando il messaggio che bisogna liberarsi, in un modo o nell’altro, del del costo della salute degli ultimi, e in particolare degli anziani di fronte a un’epidemia, o pandemia che sia, i poveri, nonchè quelli che, secondo i poteri economici, come i lavoratori sono facilmente scarificabili perchè salvaguardarli costa troppo e sono sostituibili perchè c’è un’immneso serbatoio di riserva rappresentato dai disoccupati e dai precari dei tanti lavoretti.

Ci stiamo rendendo conto che i lavoratori sono scarificabili nelle intenzioni dei poteri economici lo dimostra la difficoltà che c’è stata nel mettere in sicurezza, con i dovuti DPI (Dispositivi Protezione Individuali) durante queste settimane di contagio da coronavirus.

Ci stiamo rendendo conto che gli imprenditori possono comportarsi come dei delinquenti perchè gli è permesso da questa politica strettamente legata ai loro interessi, ma non è accettabile il loro menefreghismo. Solo gli scioperii spontanei hanno costretto governo e imprenditori a discutere, senza nessun provvedimento concreto ad oggi, di un provvedimento elementare, in particolare di fronte alla non chiusura delle fabbriche con produzione non essenziale. Come si chiama questo attenggiamento? Si chiama processo di induzione alla morte! Già un paio di anni fa lo disse senza mezzi termini il Fondo Monetario Internazionale (FMI): i poveri vivono troppo a lungo.

Ci stiamo rendendo conto che è un processo inziato da decenni con il depotenziamento della medicina del lavoro, del sistema dei controlli da parte dell’Inail e della Asl, una strategia atta a ridurre ai minimi termini i controlli su cantieri e aziende. Un esempio eloquente è dato dal già debole testo 81/08 che ha subito numerose rivisitazioni nell’ottica di alleggerire le sanzioni e le pene a carico dei padroni.

Franco Cilenti


Andrea e la fabbrica fantasma

Sveglia presto, e via! Andrea ha trovato lavoro, finalmente. Si era iscritto all’agenzia interinale vicino casa.
Assegnato a una ditta a qualche kilometro da casa. Che fortuna!
L’umidità del mattina da quelle parti si fa sentire, l’asfalto umido e l’odore dei boschi si stendono sul viso.
Andrea è assegnato sulla carta a una ditta, ma insieme ad altri ragazzi della sua età, tutti con contratto a termine con agenzia interinale, svolge il suo lavoro in un’altra sede. Sono tutti inquadrati come addetti al montaggio, ma il loro compito è smontare degli impianti di uno stabilimento chiuso. In sostanza: smontaggio e trasloco. Sono tutti giovani, il clima è scherzoso, non danno peso al fatto che il loro potrebbe essere un distacco, un lavoro in trasferta, e che forse hanno anche diritto a un rimborso kilometrico. Chi dovrebbe dirglielo?

Non esiste alcun sindacato nella fabbrica fantasma.
Nella sede della ditta, intanto, l’atmosfera che si respira è tesa. Dopo l’arrivo in una nuova proprietà che ha completato un’operazione di fusione, le commesse arrivano a sprazzi e i dipendenti iniziano ad avere dei ritardi sugli stipendi. Puzza tanto di operazione speculativa. Il presidente del Cda è spesso assente, evasivo con l’Rsu. Non si riesce ad avere un incontro. Stessa cosa nello stabilimento della ditta con cui c’è stata la fusione.

Andrea sta smontando una struttura e Luca, minorenne e senza patente, sta eseguendo manovre con il carrello elevatore lì vicino. Una distrazione e una ruota finisce per passare sul piede di Andrea. Buio e dolore. Viene avvertito subito il caposquadra, non è presente quel giorno, come non lo era mai stato. È la persona di fiducia della direzione, il classico cane da guardia.

Cerca fin da da subito di far desistere i ragazzi dal chiamare i soccorsi. Prova a sminuire l’accaduto. Convince Andrea ad aspettare e finire il turno di lavoro. Ma Andrea non ce la fa a restare in piedi e lavorare. Aspetta circa un’ora e mezza seduto, aspetta la fine del turno in una trave all’aperto nel piazzale. Nel frattempo il caposquadra arriva sul posto e fa capire che non è il caso di andare in ospedale o chiamare un’ ambulanza, ricordando ad Andrea che ha un
contratto a termine. Andrea va nel panico, aspetta, suda freddo. Finisce il turno e il compagno di lavoro mortificato lo accompagna a casa. Andrea ha dolore e aspetta la madre a casa. Solo con lei si convincerà ad andare in ospedale, denunciare l’infortunio e dopo qualche giorno querelare la ditta.

L’amministratore delegato e presidente del Cda gode della fama di uomo nuovo, ha appena acquistato la squadra di Calcio della città vicina, dopo un fallimento.

È l’uomo della Provvidenza, bravo comunicatore e impassibile di fronte agli operatori Asl che gli chiedono conto dell’accaduto a distanza di qualche mese. Non teme nessuno, è in una botte di ferro. Tutto il sistema sociale è dalla sua parte, cosa vuoi che gliene importi di Andrea alle persone distratte.

Il tempo passa, Andrea zoppica e non riesce a sostenere lavori pesanti, il piede non è ancora tornato in salute. Ma la bolla scoppia e il proprietario è sotto accusa per bancarotta fraudolenta. La procura dichiarerà ai giornali che si tratta di “cannibalismo societario”. 8 milioni di euro spesi in beni di lusso con la ricchezza prodotta dai lavoratori e lavoratrici.

I responsabili utilizzavano come “capo-gruppo” e come “cassaforte” finanziaria una società slovacca con sede a Bratislava, riconducibile alll’amministratore e presidente del Cda, il datore di lavoro di Andrea, che, a partire dal 2015 aveva rilevato, in sequenza, le quote di maggioranza delle tre società italiane, sino ad assumerne il controllo totalitario prima di avviarle al fallimento.

Andrea zoppica, ha 23 anni, Luca dopo quell’incidente non si è dato pace, aveva 17 anni nessun corso di formazione e neanche la patente. I lavoratori e le lavoratrici delle ditte coinvolte nella bancarotta fraudolenta attendono risposte, stipendi, mobilità, collocamenti, pensione anticipata.
Sensi di colpa, speranze e attesa che la giustizia dei tribunali faccia il suo passo. Ma la provincia ha l’odore delle fabbriche e il peso della sconfitta avvolte nell’umidità del mattino e il richiamo della sirena di altri luoghi di ingiustizia e sfruttamento.


A che sarà servito?

Dietro ai cancelli della fabbrica, a 24 ore da un addio interrotto dalla procedure legali del caso, le lacrime restano congelate, da rimandare durante qualche rito nei giorni a venire. A che sarà servito?

Questa domanda domina la mente della moglie di Sebastiano, mentre attende di essere ricevuta. Il paese lasciato 30 anni fa è cambiato, i figli hanno l’accento del nord, si è costruito quel che si è potuto, pochi sfizi, lavoro, risparmi per comprare una casa, farli studiare o permettere loro di trovare un lavoro. È bastata una telefonata con una voce fredda e distaccata per stravolgere qualsiasi pensiero. Le vecchie abitudini dove andranno ora? Sembrava la voce meccanica di una segreteria telefonica, invece era qualche essere umano abituato a dare questo tipo di notizie.

Sebastiano, 58 anni, ha iniziato a lavorare prestissimo, ci si arrangiava come si poteva nelle terre in mano alle clientele, dove si conviveva con la miseria e la lontananza dai centri economici dello sviluppo del dopoguerra. Per sposarsi e mettere da parte qualche soldo partì con un amico, gli avevano detto che “Su”, cercavano operai.

Un anno di lavoro, il matrimonio, la scelta di restare e metter su famiglia. Vari lavori, fino alla stabilità: la fonderia, reparto sabbiatura. Caldo, polvere, rumore, caldo, polvere, rumore. La sveglia, il caffè, i pezzi, le mani stanche, la testa dolorante.
Mentre stava lavorando su un pezzo, il botto, un forte black-out, il corpo a terra, il casco distrutto, il sangue assorbito dalla polvere, raggrumato all’istante per il caldo.

Cos’è una vita, cos’è un corpo al lavoro? Avevano utilizzato per anni bombole di gpl recuperate, saldate senza

alcuna certificazione e controllo, come serbatoio collegato all’impianto ad aria compressa per svolgere la sabbiatura e
verniciatura dei pezzi. La calotta della bombola dove Sebastiano stava lavorando, dopo migliaia di ore di lavoro è scoppiata sul suo viso. Non sappiamo quale pensiero questo scoppio abbia interrotto, a cosa pensa un operaio mentre lavora su un pezzo.

Possiamo immaginarlo, ma non lo sapremo mai, la sua condizione non è la nostra. Non resta che una foto per poterlo ricordare, così com’era, senza
nessuna deturpazione causata dal taglio dei costi, dalla scorciatoia dellacompetizione sul mercato, dal pressapochismo e dalla smania di profitto. Le leggi e principi, spesso

restano fuori dai cancelli, come sua moglie. Il corpo a terra, le indagini, nessuna reazione da parte dei compagni di lavoro, non uno sciopero, non un cenno di dissenso, nessuna nota di commiato ufficiale.

Il titolare della società, un anziano in carrozzina con problemi gravi di salute, aveva solo il potere di firma, la gestione reale era in mano al figlio e al socio. ‹‹Io so, ma non posso dimostrarlo››.

Vengono individuate le responsabilità, si gioca con il tempo, il titolare dopo qualche mese muore per i problemi di salute dati dall’anzianità, nessuna giustizia per Sebastiano, perché la responsabilità penale è in capo alla persona fisica, la Legge per le società ad amministratore unico prevede questo, sono le regole del gioco. Al massimo ci si lava la coscienza, versando qualche migliaio di euro per
stimare una vita.

Ora mentre il tempo ha congelato le lacrime, delle dita accarezzano una foto, i sospiri si sovrappongono alla brezza di montagna, il telegiornale cita dei numeri di qualche statistica, una pentola spinge fuori del vapore, dove vanno gli abbracci mai dati, le parole non dette, le abitudini, il futuro interrotto in un giorno qualsiasi. ‹‹ A che sarà servito?››, mimano le labbra senza che un filo di voce pieghi l’aria.

Racconti di vite nell’insicurezza sul lavoro
a cura di Renato Turturro
tecnico della prevezione

Lavoro e Salute marzo 2020 http://www.lavoroesalute.org/

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