I RIDER: UNA STORIA INFINITA
Pur consapevole del concreto rischio di apparire monotono, almeno agli occhi dei meno interessati al problema, ritengo opportuno tornare sulla questione rider perché rappresenta un tema che continua ad offrire interessanti spunti di riflessione e discussione.
Naturalmente, considero noto a tutti che quando si parla di rider il riferimento è a quella platea di giovani e meno giovani, stimata in oltre diecimila soggetti, che ogni giorno (e più ancora di sera, fino a notte inoltrata) vediamo sfrecciare per le vie delle nostre città per la consegna di cibo a domicilio.
Una prestazione lavorativa, per conto di una delle ormai note piattaforme on-line di food delivery – da Deliveroo, Foodinho, Just Eat, Glovo a Uber Eats – che richiede la disponibilità di una bici o di una moto per spostarsi il più rapidamente possibile.
In verità, trattandosi di un tema già più volte affrontato 1, confesso che nutrivo qualche perplessità circa l’opportunità di ridiscuterne. C’è però una cosa che mi induce a farlo, e a farlo ogni qualvolta si ripete.
È la tenace insistenza cui ricorrono taluni esperti 2 e “addetti ai lavori”, nonché giornalisti, per tentare di confondere le idee e rendere un pessimo servizio ai lavoratori interessati.
In effetti, a mio parere, da parte dei suddetti esperti – relativamente alla questione che più da vicino interessa oggi i rider, cioè l’esatta qualificazione del rapporto di lavoro instaurato con le piattaforme, sospesa tra quella di natura subordinata oppure autonoma – si tenta di applicare la stessa strategia (purtroppo rivelatasi vincente) adottata quando fu introdotto il tema del c. d. “dualismo” esistente nel mercato del lavoro tra insider e outside; cioè tra lavoratori “garantiti” (dall’art. 18 dello Statuto) e lavoratori non protetti.
Come – credo – a tutti ben noto, fu all’inizio degli anni 2000, con il c.d. “Libro Bianco” e, successivamente, la legge-quadro 30/2003 e il decreto legislativo 276/2003, che si avviò una stagione di incessante e sistematico attacco ai diritti dei lavoratori.
Essa fu condotta attraverso una costante opera di persuasione che, in nome della pur giusta esigenza di proporre trattamenti non diseguali – tra lavoratori di serie A e di serie B, si amava dire – finì con il produrre, invece, un’equiparazione “al ribasso” dei diritti e delle tutele contrattuali e legali.
Le letali conseguenze di quel processo involutivo sarebbero state poi rappresentate tanto dalla legge Fornero (nelle parti in cui prevede i primi interventi di controriforma della c.d. “giusta causa” per i licenziamenti individuali e della legge 223/91 per quelli di tipo collettivo) quanto dai d. lgs. di cui al Job-act di Renzi (per il definitivo smantellamento dell’art. 18 e la cancellazione del vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato).
Fervente paladino di questa vera e propria “crociata” fu colui che, successivamente, avrei definito “Il Licenziatore”!
È in questo senso che, anche rispetto alla questione che più interessa i rider, si assiste a manovre che, a mio parere, ricordano un po’ troppo il famoso gioco “delle tre carte”; il che produce disorientamento e non pochi dubbi.
Eppure, a ben vedere, si tratta di una problematica già sufficientemente supportata da una specifica norma di legge (decreto legge 101/2019, convertito in legge 128/2019), dalle sentenze emesse da diversi Tribunali, da una Corte di appello e dalla stessa Cassazione.
Senza contare – a beneficio dei suddetti “esperti”, sempre pronti ad invocare l’Ue e le sue regole, quando si tratta di “allineare al ribasso” i diritti e le tutele dei lavoratori italiani – che risale appena a qualche settimana fa l’accordo tra il Ministero del lavoro spagnolo, le Associazioni sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori, attraverso il quale si stabilisce “la presunzione di lavoro subordinato nell’ambito delle piattaforme digitali per la distribuzione”.
La Spagna quindi è il primo Paese Ue a legiferare in tale senso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro dei rider.
In effetti, anche in Italia il Legislatore nazionale aveva previsto – attraverso la legge 128/2019 che apportava sostanziali modifiche al decreto legislativo 81/2015 – la possibilità che i contratti collettivi (relativi al lavoro attraverso piattaforme digitali) stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale potessero stabilire “criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente”.
E un contratto collettivo, in effetti, fu siglato in data 15 settembre 2020 tra Assodelivery (Associazione datoriale cui appartengono quasi 3 tutte le piattaforme operanti in Italia) e Ugl/Rider.
Come noto, però, l’Ufficio giuridico del Ministero del lavoro non ne certificò la legittimità – per il mancato riconoscimento all’Ugl della maggiore rappresentatività – e, nel contempo, colse l’occasione per fare alcune considerazioni di metodo e di merito.
Naturalmente eviterò, in questa sede, di tornare sui numerosi punti che presentano motivi di dissenso e perplessità di carattere normativo e legale. Mi limito a definire impropria la qualificazione del rapporto di lavoro (di carattere autonomo) decisa dalle parti firmatarie, inopportuna l’ipotesi che l’esercizio dei c.d. “diritti sindacali” sia, sostanzialmente, riservato alla sola Ugl ed assolutamente inaccettabile che – nonostante vietato dalla legge – il compenso previsto per i rider avvenga, in realtà, sulla base del cottimo.
Mi preme, invece, evidenziare la tenace determinazione cui ricorrono coloro – e non sono pochi – che ancora si esercitano, nel più benevolo dei casi, a “mischiare le carte”!
Alludo a quanti, ancora a valle di quanto sancito dalla Cassazione 4 – nel senso di quanto deciso dalla Corte di appello di Torino 5, circa la natura autonoma del rapporto di lavoro ma fermo restando il diritto dei rider (in termini di sicurezza, inquadramento professionale, limiti di orario, ferie, malattia e previdenza) allo stesso trattamento previsto a favore dei lavoratori subordinati – persistono nel tentativo di inneggiare tanto al carattere autonomo della prestazione lavorativa quanto alla bontà 6 del contratto collettivo Assodelivery/Ugl.
In questo senso, nonostante nel frattempo siano intervenute:
a) una sentenza del Tribunale di Palermo che ha addirittura qualificato di natura subordinata il rapporto di lavoro intercorso tra un rider e la piattaforma Glovo;
b) un comunicato stampa del Procuratore della Repubblica di Milano che, a conclusione di una vasta e laboriosa indagine, conclusasi nell’ottobre 2020, conferma, tra l’altro, che l’attività svolta dai rider non può essere considerata quale lavoro autonomo di tipo occasionale, bensì, prestazione di tipo coordinato e continuativo, di cui al d.lgs. 81/2015;
appare comunque comprensibile la posizione di chi 7, a difesa di interessi “di parte” – pur se con scarsa attenzione alla bontà delle informazioni diffuse e alternando l’alterazione dei fatti al diniego della realtà – continua a sostenere, a mio parere, contro ogni logica, interesse personale dei lavoratori coinvolti e, perché no, incurante di arrecare offesa all’intelligenza dei lettori, la volontà dei rider a voler essere lavoratori autonomi.
Molto convincenti, al riguardo, le ipotesi di Diego Fusaro 8:
1) se corrisponde al vero – ma il dubbio è legittimo – il paradosso secondo il quale i rider, in Italia come in Spagna, preferiscano essere considerati lavoratori autonomi a tutti gli effetti piuttosto che subordinati, ciò dipende dalla circostanza che, evidentemente, il contratto collettivo prevede condizioni addirittura peggiorative;
2) la seconda ipotesi è che ciò dipenda dal fatto che il mito dell’imprenditore di sé stesso ha finito con il trionfare – soprattutto tra i più giovani – facendo sì che i nuovi precari oltre che dominati siano subalterni.
Molto meno comprensibile e per nulla condivisibile, invece, l’ostinata insistenza di taluno 9 nel continuare a concedere spazio e sostegno a un’idea secondo la quale l’incedere dell’evoluzione tecnologica – anche attraverso l’insorgere di nuovi “lavori” – debba necessariamente lasciare spazio a un adattamento del diritto del lavoro (naturalmente, in peius, come realizzatosi fino ad oggi) piuttosto che pretendere di assoggettare le nuove realtà alla disciplina del secolo scorso!
Eppure, a clamorosa conferma dell’assoluta necessità che hanno i lavoratori italiani (e non solo loro) di continuare a ricorrere alle tutele e alle garanzie contrattuali e legali garantite da un diritto del lavoro che – strumentalmente – viene definito un’invadente eredità dello scorso secolo, ci sono le disagevoli (oltre che precarie e mal retribuite) condizioni di assoggettamento lavorativo cui sono sottoposti milioni di lavoratori; dai rider, agli addetti al call-center, ai dipendenti Amazon, e non solo loro.
Si tratta, in sostanza, delle “catene di montaggio del XXI secolo”. Anche se sono in tanti coloro che si rifiutano di ammetterlo e/o di riconoscerlo.
NOTE
1 Fonti: “I rider: sfruttati e senza diritti”; su www.micromega.blog, del 22 giugno 2020. “Ancora a proposito di rider”; su www.lavoroesalute.org , dell’11 novembre 2020. “La furia iconoclasta di Pietro Ichino Il licenziatore”; su www.blog-lavoroesalute.org , del 3 dicembre 2020. “Pietro Ichino e i rider double face”; su www.micromega.blog , del 16 dicembre 2020. “Ancora sui rider”; su www.fondazioneannakuliscioff.it , News nr. 93.
2 Primo, fra tutti, Pietro Ichino. Da sempre il teorizzatore del superamento dell’art. 18 dello Statuto e della sostituzione del vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato con quanto prodotto attraverso il ben noto Jobs-act; l’ormai famigerato “Contratto a tutele crescenti”.
3 Just Eat ne uscì subito dopo la sigla del contratto, dichiarando l’intenzione di procedere all’assunzione dei propri lavoratori con contratti di lavoro subordinato.
4 Sentenza 24 gennaio 2020, nr. 1663.
5 Sentenza 4 febbraio 2019, nr. 26.
6 Secondo il parere di Pietro Ichino “basterebbe introdurvi una ragionevole disciplina della malattia e del recesso”.
7 Fonte: “Mercato del lavoro news nr. 92”; su www.fondazioneannakuliscioff,it
8 Fonte: www.filosofico.net del 23 febbraio 2021.
9 Fonte: “Rider: un banco di prova per il sistema delle relazioni industriali”; su www.pietroichino.it del 26 febbraio 2021.
di Renato Fioretti
Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute
25/3/2021
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