I semi del profitto

Per oltre diecimila anni i contadini hanno liberamente conservato, selezionato, scambiato o venduto le loro sementi, usandole e riutilizzandole per produrre cibo. Oggi queste pratiche sono state drammaticamente ridimensionate da un secolo di trasformazioni radicali dei sistemi alimentari. Ci troviamo al punto che delle seimila diverse specie vegetali utilizzate come cibo, appena nove coprono il 66% della produzione mondiale.

Sono numeri allarmanti, che la FAO ha raccolto in un recente rapporto dedicato allo stato della biodiversità per il cibo e l’agricoltura, e che raccontano come in tutto il mondo le varietà locali coltivate dagli agricoltori stiano scomparendo a una velocità senza precedenti.

Ne conseguono la standardizzazione e l’appiattimento delle nostre diete, fenomeni che gettano le loro radici in una progressiva spinta alla privatizzazione dei mezzi di sussistenza più basilari – i semi – cominciata tra fine Ottocento e inizio Novecento. Alla scoperta di questa storia, anzi di tante storie apparentemente parallele ma fra loro intimamente intrecciate, ci porta con il suo ultimo libro, uscito per Laterza. “Chi possiede i frutti della terra” è un testo a metà fra inchiesta giornalistica e ricostruzione storica, una collezione di aneddoti chiave ma allo stesso tempo un tuffo nelle profondità dell’economia agricola di oggi, nel tentativo ben riuscito di tenere insieme le cause e gli effetti.

Così, nelle 224 pagine del libro il lettore passa dagli Stati Uniti del primo Novecento, quando un vivaista con l’occhio per gli affari decide di costruire una gabbia metallica intorno a un albero di mele particolarmente saporite, fino alle gabbie immateriali dell’oggi, costituite da brevetti e convenzioni sulla proprietà intellettuale delle risorse genetiche. “Chi possiede i frutti della terra” ci porta da un capo all’altro del mondo, seguendo la filiera di alcuni prodotti emblematici come la mela rosa, il kiwi giallo o l’uva senza semi, frutti che il mercato paga bene e che incontrano l’entusiasmo dei consumatori.

Anche noi forse li abbiamo assaporati, senza sapere però che a coltivarli sono pochi “club” di imprese selezionate e gestite da un sistema quasi militare, il cui primo obiettivo è evitare che tutti quelli al di fuori del circolo non possano piantare quella varietà. A meno di non voler correre il rischio di finire sul lastrico.

Questo dominio assoluto delle leggi del mercato ha soppiantato in gran parte dell’Occidente qualunque altra forma di gestione delle risorse genetiche, fosse essa in forma consuetudinaria o regolata dallo stato. In un processo sorprendentemente rapido, che ha visto nell’invenzione delle sementi ibride uno dei suoi passaggi più importanti, il diritto di riprodurre la vita vegetale è stato sottratto agli agricoltori e preso in mano dalle imprese.

Il seme ha così perso la doppia natura (di seme appunto, ma anche di cibo) che lo rendeva inafferrabile dal settore privato. Tuttavia, con le nuove scoperte nella selezione genetica e poi l’avvento delle biotecnologie, quella che può essere considerata la base della vita è stata piegata alle dinamiche del profitto, al punto che oggi l’agricoltore è quasi sempre dipendente da semi fabbricati dalle imprese sementiere e deve riacquistarli ogni anno, perché progettati per rendere bene solto una volta.

L’uniformità è condizione principale per la brevettazione di queste varietà, ed è diventata criterio universale che confligge con la prassi della natura (che non genera nulla di identico) e sta portando il sistema alimentare verso una perdita di biodiversità senza precedenti. La FAO stessa ammette che “c’è un considerevole consenso sul fatto che, in generale, il passaggio da sistemi di produzione tradizionali che utilizzano varietà locali a sistemi di produzione ‘moderni’ che dipendono da varietà ufficialmente rilasciate stia portando all’erosione genetica”.

La fiducia in un cambio di rotta che potremmo riporre nelle istituzioni pubbliche vacilla quando Ciconte descrive le soluzioni adottate in questi decenni dai paesi e dalla comunità internazionale. Le cosiddette “banche dei semi”, nate per conservare in tutto il mondo decine di migliaia di varietà locali, antiche e meno antiche di proprietà degli stati, non godono di buona salute.

A Bari resiste uno degli spazi di stoccaggio più importanti del pianeta, ma è una struttura sottofinanziata e in abbandono, triste reliquia che testimonia il disinteresse del pubblico per un comparto per il quale aveva tutt’altra sensibilità prima della “rivoluzione verde”.

Nonostante lasci forse un po’ di amaro in bocca, “Chi possiede i frutti della terra” è ci offre una ricostruzione storica che inquadra cause ed effetti del disastro ecologico ed economico in cui versa oggi l’agricoltura.

Un libro che ci invita anche alla mobilitazione, alla discussione e alla proposta di un’alternativa, per non subire inermi l’impatto devastante della crisi climatica sulle nostre agricolture e sui sistemi alimentari.

Francesco Paniè

9/5/2022 https://comune-info.net

Foto tratte Rete Semi Rurali

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