I Tafazzi dell’ambiente
Scriveva Nenni nelle sue memorie che ad un certo punto “si sentì un tintinnio di sciabole”. Alludeva agli inizi degli anni ’60, quando si cominciava a profilare il primo centrosinistra (quello che le riforme le avrebbe fatte, non l’attuale gestore del liberismo) e un ministro dei lavori pubblici democristiano, Fiorentino Sullo, tentò di varare una legge sul regime dei suoli. Ferocemente avversata da quel blocco di rendite passate da agrarie a fondiarie e che dopo aver facilitato l’avvento del fascismo in Italia era pronto anche ad un colpo di stato. Che poi non ci fu. Come però non ci fu neanche la legge. Bisognò aspettare fino alla unità nazionale e alla fine degli anni ’70 perché essa fosse varata. Salvo però essere quasi subito silurata da una sentenza della Corte Costituzionale che ne trovò l’incongruenza legislativa derivante da un compromesso volto a salvaguardare capra e cavoli. Dove i cavoli sono l’idea che il territorio è un bene pubblico (e ambientale) per eccellenza (diremmo oggi un bene comune e un ecosistema); e le capre sono quelli che se lo vogliono mangiare. Sta di fatto che da allora le regole e i valori dell’uso dei suoli sono eternamente in proroga e sottoposti alle leggi dei più forti. E intanto si è andati avanti a condoni, deroghe e grandi opere addirittura blindate con poteri emergenziali. Passando per l’urbanistica “contrattata” si è arrivati al consegnarsi mani e piedi alla cupidigia privata.
Mi raccontava Antonio Cederna che lui per decenni aveva scritto sempre lo stesso articolo per raccontare il sacco cui il territorio veniva sottoposto.
Quello agrario era ben conosciuto per come aveva bloccato lo stesso processo di costruzione dell’Italia pronti come erano lor signori ad “allearsi”, meglio dire a vendersi, a chiunque straniero pur di tenere i loro privilegi feudali. Spiegava bene una certa cultura progressista italiana che questo Paese era, ed è, un intreccio tra arretratezza e modernità distorta, tra rendite e profitti, tra grandi interessi e fanteria del capitale.
E spiegava bene la cultura ambientalista nascente che questa guerra capitalista si giocava su un Paese, l’Italia, bello ma fragile, una zolla intercontinentale sospesa, con equilibri tettonici e climatici delicatissimi. Scriveva Gramsci che l’intreccio tra natura e cultura rappresentava una quistione fondamentale della nostra storia urbanizzata, della nostra ricchezza. Purtroppo queste culture, queste consapevolezze, sono state largamente calpestate. Nel corso del dopoguerra abbiamo avuto processi di migrazioni interne spinti da logiche speculative che cercavano manodopera a basso costo. Con inurbamenti selvaggi e spopolamenti e abbandoni. I carichi ambientali si sono distribuiti nel modo più entropico possibile. Per i processi produttivi e per le dinamiche di rendita. Abbiamo cumulato record negativi europei e mondiali. La più vasta e veloce cementificazione, dove si contraddistingue la Padania con medie nettamente superiori a quelle europee e che procede così ancora oggi. Record di consumo di cemento pro capite. Di seconde case e case sfitte. Di capannoni industriali. Di autostrade, bretelle, tangenziali. Di agricoltura e allevamenti intensivi (50 milioni di abitanti equivalenti solo i maiali in Padania). Spiegava bene Francesco Indovina già negli anni ’70 che lo spreco edilizio era funzionale a questo particolare capitalismo. E film come le mani sulla città raccontavano il ruolo della rendita e della speculazione nei poteri.
Mentre il regime dei suoli era stato azzoppato, si portò avanti un altro provvedimento che, dalla alluvione del Polesine del 1956, e poi quella di Firenze, era considerato fondamentale e cioè la legge per la difesa del suolo. Ci vollero trent’anni per approvarla finalmente. Forse una delle migliori leggi mai fatte. Considerava il territorio nel suo rapporto con l’acqua e dunque in uno dei suoi aspetti ecologici fondamentali. Quindi non una piattaforma ma un ecosistema. Grande merito ebbe Giorgio Nebbia che era senatore indipendente del PCI e con cui lavorai per tanti anni da responsabile ambiente prima del PCI e poi di Rifondazione. La 183, legge sulla difesa dei suoli, prevedeva comunità di governo per bacini idrografici, riformando istituzioni e pianificazione in senso ambientale. Qui la contro reazione non fu diretta come sul regime dei suoli ma subdola. A questa legge si sovrappose una legge per la gestione delle acque, numero 36 degli anni ’90, che metteva al centro i “bacini tecnologici”, cioè la gestione dell’uso dell’acqua. Che stava diventando merce da privatizzare, con le municipalizzate che si trasformavano in multinazionali. Due logiche opposte, una ecologista l’altra mercatista, tenute insieme dal più ipocrita dei concetti “lo sviluppo sostenibile”. Ciò che viviamo oggi ci dice che ha prevalso il mercato e invece che “rinaturalizzare” i territori, riducendo i carichi e rapportandoli alla capacità di assorbirli, si è proceduto in un mercatismo poggiato sulla idea di artificializzazione. Vediamo oggi nel dramma dell’ennesima alluvione, che la Padania si è artificializzata per convogliare le acque ma che oltre certi limiti questa artificializzazione non regge più. E i limiti ormai sono superati da tutti i punti di vista. Nella quantità e qualità di cementificazione. Che addirittura si moltiplicano nell’era “digitale” e “pseudo ecologica”.
Nelle alterazioni climatiche che modificano i fenomeni impattanti. Da questo punto di vista la Padania è un disastro mondiale. Per cementificazione. Per climalterazione prodotta e subita. Ha limiti di emissioni violati sistematicamente e limiti di qualità dei “recettori” sforato per la maggior parte dell’anno. Un disastro forse irreversibile. Quanto mai significativo perché avviene nella cosiddetta parte ricca, ripetendo quanto vissuto con il COVID.
Eppure ci fu un momento in cui di Padania si discusse in termini ecologisti e non leghisti. Fu l’eutrofizzazione dell’Adriatico. Io lo vissi da responsabile ambiente del PCI e vidi che in quel partito e in quella regione c’erano ancora i materiali prodotti dalle culture urbaniste ed ecologiste che richiamavo all’inizio e dall’anticapitalismo riformatore che ancora sostanziava il nome comunista. Facemmo molto anche se non abbastanza per affrontare le distorsioni dello sviluppo. Poi il cambio del nome cambiò la sostanza di quel partito. Occhetto usò la questione ambientale per motivare il nuovismo. L’idea di coltivare il deserto con cui aprì il congresso era talmente una sciocchezza entropica (ricordo la faccia di Laura Conti) che dimostrava il pressappochismo di una operazione che aveva come scopo il solo governo. A tutti i costi. Rapidamente la cultura riformatrice si dissolse, altro che rifondarsi nell’ambientalismo. E anche il governo perse ogni idea riformatrice per diventare mera gestione esecutrice di ordini disordinati. Lo sviluppo insostenibile di questo trentennio. La terra di Peppone e Don Camillo si è trasformata in quella in cui leghisti e piddini abusano nello stesso modo del territorio. Mettiamoci sopra alta velocità, cip 6 (miliardi di incentivi per fare inceneritori e sovrapproduzioni elettriche) e abbiamo lo sfascio strutturale di oggi.
Un disastro che non salva neanche l’Europa visto che in tante chiacchiere sulla transizione ecologica non c’è una direttiva europea sui suoli bloccata da sempre dalla quantità di suoli inquinati e che il testo cui pure io lavorai da parlamentare europeo giustamente vuole risanare considerando il suolo come biologicamente vivente.
Ma certo il tafazzismo italiano, caro Manifesto, è oltre ogni limite. Qualche esponente delle classi dirigenti politiche e massmediatiche dice che invece che imbrattare monumenti i giovani dovrebbero andare a fare gli angeli del fango come fu a Firenze. Non hanno visto che già lo fanno mentre loro vorrebbero metterli in galera per un po’ di vernice lavabile. Chiedo, qual è la pena giusta per chi per sessant’anni dopo Firenze ha fatto gli scempi che conosciamo? Per eleggere Bonaccini si spesero le sardine. Ecco, l’Emilia Romagna è sott’acqua: cosa diciamo a Bonaccini e Schlein?
Ma in realtà Tafazzi è un paragone sbagliato come tutto il ragionamento che ci sta dietro. Tafazzi fa male a se stesso, lorsignori (quanto farebbe bene un Fortebraccio al Manifesto), fanno male a noi. Certo alla fine anche il capitalismo verrà travolto. Ma intanto “loro” pensano a come sopravvivere loro stessi. Fanno la guerra per questo. Dicono scemenze come fare correre più veloci i canali come se non fosse proprio l’acqua più veloce per il cambiamento climatico a metterci a rischio. Pensano ad artificializzare intelligenza e carne. Pensano di non avere limiti, che il capitalismo può creare un pianeta artificiale per pochi che sopravvive alla distruzione di quello per tutti.
Altro che Tafazzi, è il capitalismo.
Roberto Musacchio
24/5/2023 https://transform-italia.it
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