I veleni nelle acque del Veneto
La bellezza del paesaggio confonde. Ai piedi dei colli Berici coperti di vigne e olivi, tra campi ondulati e ville rinascimentali, Lonigo ha tutto l’aspetto di una cittadina prosperosa del Veneto rurale, in provincia di Vicenza. Nulla lascia pensare che sia al centro di un caso di contaminazione industriale tra i più grandi in Europa. Infatti si trova su una falda idrica inquinata da composti tossici indicati con una sigla sconosciuta ai più, anche se da queste parti è diventata un nome familiare: Pfas, o sostanze perfluoroalchiliche. Sono molecole che non esistono in natura, eppure sono ovunque: in oggetti di uso quotidiano come le pentole antiaderenti e il rivestimento impermeabile dei piatti di carta, negli imballaggi alimentari, nei tessuti e pellami impermeabilizzati, nel Goretex, in certe pellicole, nelle schiume antincendio, nella sciolina per gli sci.
Da quella falda contaminata pescano gli acquedotti di 21 comuni tra le province di Vicenza, Verona e Padova, oltre a un numero imprecisato di pozzi privati a uso potabile. Una popolazione di circa 350mila persone è stata ed è tuttora esposta a livelli allarmanti di Pfas. Senza saperlo però: almeno fino a pochi anni fa.
“Non sospettavo nulla”, dice Michela Piccoli, infermiera che vive a Lonigo: “Ma quando ho visto le analisi del sangue di mia figlia mi sono spaventata”. È successo nei primi mesi del 2017, spiega. L’azienda sanitaria locale (Asl) aveva invitato le famiglie a uno screening per i ragazzi a partire dai quattordici anni, nell’ambito di un piano di sorveglianza sanitaria. Piccoli ricorda lo shock quando per posta sono arrivati i risultati: “Mia figlia, che allora aveva 16 anni, aveva nel sangue quantità di Pfas undici volte superiori a quelle tollerabili”. Si è buttata a leggere tutto quello che poteva su quei composti chimici. Sospetti cancerogeni, interferenti endocrini, cioè sostanze che interferiscono con il sistema ormonale e possono pregiudicare la crescita, lo sviluppo e la riproduzione. Il mondo le è crollato addosso. “Io che mi ero sempre fidata delle istituzioni, mi sono sentita tradita. Nessuno ci aveva mai detto di non bere quell’acqua”.
Dagli anni sessanta a oggi
È nato allora il gruppo delle Mamme no Pfas.
Prima quattro mamme di compagni di scuola, poi un numero sempre più
grande di persone, compresi i padri di ragazze e ragazzi. “Per prima
cosa abbiamo chiesto che la mensa scolastica si rifornisse di acqua e
cibo da zone non contaminate”, racconta Piccoli. E l’hanno ottenuto: ma
hanno anche capito che non bastava, finché la falda idrica restava
inquinata. “Si era aperto un mondo. Abbiamo cominciato a studiare,
leggere documenti, cercare esperti”.
La prima notizia di inquinamento da Pfas in Veneto risale al 2013, con la pubblicazione di uno studio commissionato dal ministero dell’ambiente all’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa), nell’ambito di un’indagine europea sulle sostanze perfluoroalchiliche nei bacini fluviali. Il Veneto, con l’Adige e il Brenta, era emerso come il caso più preoccupante. L’agenzia regionale di protezione ambientale del Veneto (Arpav) trovò allora la fonte della contaminazione negli scarichi di un’azienda del vicentino, la Miteni.
Lasciamo dunque Lonigo e risaliamo la pianura veneta in direzione Vicenza, oltrepassiamo l’autostrada Milano-Venezia, attraversiamo piccoli centri assediati da fabbriche, centri commerciali, capannoni: il panorama prevalente del ricco nordest. Infine imbocchiamo la strada provinciale della val d’Agno, sempre tra fabbriche e capannoni. Trissino è un grazioso paese sulle prime alture dei monti Lessini; la sua area industriale occupa l’ampio fondovalle. La Miteni quasi non si vede, seminascosta da alti pioppi.
Nell’industrializzazione italiana la val d’Agno è legata al nome dei Marzotto e delle manifatture tessili, e la storia dei Pfas in Veneto comincia qui. Nel 1965 la rinomata azienda tessile decide di aprire a Trissino un centro di ricerca su sostanze per impermeabilizzare i tessuti. L’anno successivo la Rimar (Ricerche Marzotto) comincia a produrre composti perfluorati, brevettati una ventina d’anni prima dalla 3M negli Stati uniti, adattissimi allo scopo perché impermeabili a grassi e acqua.
Per circa cinquant’anni i composti tossici si sono accumulati nella falda acquifera
La sigla Pfas indica almeno quattromila composti diversi, che si distinguono per la lunghezza della molecola in cui atomi di carbonio si legano al fluoro. Sono a molecola lunga il Pfos (acido perfluoroottansolfonico) e il Pfoa (acido perfluoroottanoico), brevettato nel 1951 dalla Dupont negli Stati Uniti (è la base del Teflon). Le applicazioni industriali sono infinite; in pochi anni la Rimar travalica il tessile e comincia a produrre componenti fluorurati intermedi per l’industria farmaceutica e l’agrochimica.
Sulla nocività di Pfoa e Pfos ormai non ci sono dubbi. Dal 2006 una direttiva europea classifica i secondi tra le sostanze “altamente persistenti, con elevata tendenza al bioaccumulo e molto tossiche”, e dal 2009 il loro uso è sottoposto a restrizioni da un trattato internazionale, la convenzione di Stoccolma. Inoltre, dal 2016 l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro classifica il Pfoa come possibile causa di cancro al testicolo e al rene.
Oggi sappiamo che fin dagli anni sessanta la Dupont era al corrente della tossicità del Pfoa: ma si guardò bene dal rendere pubblici gli studi dei suoi scienziati. Solo all’inizio degli anni duemila, dopo una causa collettiva di cittadini in West Virginia, la Dupont è stata condannata per lo sversamento decennale di Pfoa nel fiume Ohio e per aver nascosto le prove della tossicità della sua produzione.
Quella causa ha portato anche al più ampio studio scientifico finora condotto sul Pfoa, con 70mila persone coinvolte: concluso nel 2011, ha documentato un probabile legame con il cancro al testicolo e al rene, malattie tiroidee, ipertensione in gravidanza, ipercolesterolemia e altro (la storia è ricostruita in un dossier dell’associazione italiana di epidemiologia).
Ai tempi della Rimar però di tutto questo non si parlava. Nel 1977 uno sversamento accidentale aveva inquinato la falda idrica con benzotrifluoruri (Btf), sottoprodotti di lavorazione, tanto che alcuni comuni del vicentino dovettero costruire in fretta e furia nuove condotte per attingere acqua potabile da fonti non contaminate. L’azienda fu multata, ma assolta dall’accusa di disastro ambientale e sanitario: allora i Btf non erano soggetti a normativa e la perizia tossicologica aveva escluso l’avvelenamento. Del resto, gli anziani ricordano ancora quando i fiumi nella pianura vicentina scendevano rossi e blu per le tinture.
Non molto è cambiato quando nel 1988 la Marzotto ha ceduto lo stabilimento a un consorzio tra la Mitsubishi e la Enichem, da cui il nuovo nome Miteni. Nel 1996 la Enichem è uscita dalla proprietà. Nel 2009 l’azienda giapponese l’ha ceduta al fondo d’investimento lussemburghese International chemical investors group (Icig Se).
Un prezzo troppo alto
Una cosa però è rimasta costante: la noncuranza per le questioni
ambientali. Imbocchiamo una strada laterale che aggira lo stabilimento
della Miteni fino a incontrare un piccolo torrente, il Poscola,
infossato tra l’impianto industriale e la collina.
“Ai tempi della Rimar era usato come fognatura”, spiega Dario Muraro, geometra e attivista che si batte per la bonifica di questa zona, mentre risaliamo il corso d’acqua fino ad arrivare alle spalle dello stabilimento. “La Miteni ha fatto altrettanto. Di recente sono emerse tonnellate di peci fluorurate sepolte lungo l’argine, ‘tombate’ sotto il cemento”. I tubi di scarico sono ben visibili, e finché l’azienda era attiva buttavano schiume impressionanti.
Dal Poscola i reflui della Rimar/Miteni sono affluiti nell’Agno e nel Fratta-Gorzone, che sfocia nel Brenta. Soprattutto, sono filtrati nella falda idrica. Il sottosuolo qui è composto da uno strato di materiale alluvionale ghiaioso profondo tra 15 e 20 metri, che contribuisce a formare un bacino acquifero (una falda idrica) tra i più estesi d’Europa. Lo stabilimento era stato costruito proprio su una zona che alimentava la falda: ma nessuno ci badò. “Nei decenni del dopoguerra qui l’industria era tutto. Siamo passati di colpo dalla civiltà contadina a quella dei capannoni”, osserva Muraro, “ma abbiamo pagato un prezzo troppo alto per quel benessere”.
Per circa cinquant’anni dunque i composti tossici si sono accumulati nella falda, dove si spostano verso sud a una velocità media di circa 1.200 metri all’anno, contaminando ormai zone anche molto distanti (la mappa dell’agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale, Arpa Veneto).
Le indagini
Oggi sappiamo che la direzione della Miteni era consapevole della
situazione almeno dal 1990. Lo dice una relazione del nucleo operativo
ecologico (Noe) dei carabinieri di Treviso del giugno 2017 (citata nel
2018 in questa relazione
della commissione bicamerale d’inchiesta sulle attività illecite
connesse al ciclo dei rifiuti, la cosiddetta commissione ecomafie).
Al Noe risulta che la Mitsubishi aveva commissionato a più riprese indagini ambientali nello stabilimento. La prima, nel 1990, aveva rivelato che il terreno sotto gli impianti era intriso di “materiale anomalo” saturo di benzotrifluoruri, quelli dello sversamento del 1977. Altre indagini, eseguite dalla società di consulenza ambientale Erm Italia tra il 1996 e il 2009, avvertivano che il terreno era ancora impregnato da inquinanti (i Pfas furono rilevati per la prima volta nel 2008), e che era praticamente a contatto con la falda idrica. Nel 2004 l’azienda aveva fatto installare una “barriera idraulica”, cioè un sistema di pozzi per pompare e filtrare l’acqua dalla falda sottostante: ma risultò insufficiente, ha poi constatato la Erm Italia nel 2009.
A norma di legge la Miteni aveva l’obbligo di comunicare queste notizie alle autorità sanitarie locali: ma non lo fece allora e neppure nel 2013, quando pure dovette “autodenunciare” la situazione di inquinamento ormai attestata dall’Arpa Veneto.
Non solo. Nel novembre 2008 la direzione Mitsubishi aveva chiesto una stima dei costi per smantellare e bonificare il sito (anche questo è nella relazione del Noe). Risultò una somma tra 12 e 18 milioni di euro per la sola bonifica. La holding giapponese deve aver giudicato più conveniente vendere la Miteni, ceduta nel 2009 per la cifra simbolica di un euro alla lussemburghese Icig Se. Durante un’audizione alla camera l’amministratore della filiale italiana ha affermato che il gruppo allora ignorava l’inquinamento del sito (ma quel prezzo non diceva nulla?). Sta di fatto che la Miteni ha continuato la sua produzione fino all’autunno 2018, quando ha dichiarato fallimento.
In tribunale
Oggi la vicenda dei Pfas nell’acqua potabile è oggetto di due filoni di
indagini della procura della repubblica di Vicenza. Il primo riguarda i
fatti fino al 2013 e ha portato al rinvio a giudizio dei dirigenti della
Miteni tra il 2002 e il 2013, insieme ai vertici delle due aziende
proprietarie, la Mitsubishi fino al 2009 e la Icig Se in seguito: tutti
imputati di disastro doloso e avvelenamento di acqua di uso pubblico.
Il processo è all’inizio. Si sono costituite parti civili la regione Veneto, le Mamme no Pfas, Legambiente, Greenpeace e diverse sigle del movimento No Pfas del Veneto, oltre a Confagricoltura. Nell’ultima udienza, l’8 giugno, la Mitsubishi si è costituita come “responsabile civile”, cioè ha accettato di farsi carico dei danni che i giudici potranno accertare. Il dibattimento comincerà a ottobre.
La seconda indagine giudiziaria riguarda i fatti successivi al 2013, tra cui l’inquinamento legato a una nuova generazione di perfluoroalchilici che ha in parte sostituito i vecchi Pfoa e Pfos. Sono a molecola più corta e hanno nomi come C6O4, prodotto a partire da composti della Solvay di Alessandria (e ritrovato nel Po in concentrazioni allarmanti). O come il GenX, estratto da scarti industriali che la Miteni ha importato dai Paesi Bassi, in particolare dalla Chemour, colosso della chimica erede della Dupont, a partire dal 2014 e con regolare autorizzazione regionale. Fino a quando nel 2017 le autorità olandesi hanno informato il governo italiano del potenziale rischio (come ricostruisce questo dossier di Greenpeace). Benché non ancora soggetti a limitazioni precise, anche sui “nuovi” Pfas si moltiplicano studi e preoccupazioni.
Ma torniamo alla Miteni. “Entro 18 mesi dall’autodenuncia del 2013 l’azienda doveva progettare la bonifica definitiva”, osserva l’attivista Dario Muraro. “Invece solo nel dicembre 2019 ha presentato un piano di ‘messa in sicurezza operativa’, cioè un intervento provvisorio. Intanto, lo stabilimento resta una fonte attiva di contaminazione, perché le barriere idrauliche esistenti non bloccano del tutto le sostanze nocive”. Interpellati in proposito, i responsabili del fondo d’investimento Icig Se non hanno finora risposto alle richieste di commento.
Definire un piano di bonifica spetta a una “conferenza dei servizi” con enti locali, autorità sanitarie, azienda e varie parti sociali (le Mamme no Pfas vi sono rappresentate da un esperto geologo). Si profilano tempi lunghi.
La zona rossa
Anche per l’acqua potabile manca una soluzione definitiva. Quando la
presenza dei Pfas è emersa, la regione Veneto ha accertato che gli
acquedotti di 21 comuni distribuivano acqua contaminata (sono la zona
rossa, con epicentro a Lonigo, e i comuni vicini). Altri 12 comuni hanno
pozzi privati a uso potabile che pescano nella falda contaminata,
benché gli acquedotti non risultino inquinati (la zona arancione). Altri
ancora sono i comuni sotto “attenzione” per il possibile inquinamento delle acque superficiali e dei pozzi.
Nel 2013 il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) aveva rilevato nell’acqua potabile da 1.973 a 3.138 nanogrammi (miliardesimi di grammo) di Pfoa per litro. In Italia allora non c’erano norme precise sui Pfas nell’acqua potabile – benché esistessero ormai direttive europee in materia. In polemica con il ministero della salute, nel gennaio 2014 la regione Veneto ha fissato un limite di 30 nanogrammi per litro (ng/l) di acqua potabile per il Pfos, fino a 500 nanogrammi di Pfoa, e non più di 500 nanogrammi per gli altri Pfas sommati insieme. Nel dicembre 2017 ha drasticamente abbassato i limiti (90 ng/l per la somma di Pfos e Pfoa, non più di 300 ng/l per tutti gli altri); limiti ancora più bassi sono applicati alla zona rossa. Questo vale in Veneto: sembrerà incredibile, ma tuttora non esiste una legge nazionale.
Su indicazione della regione, il gestore dell’acquedotto più contaminato ha installato filtri a carbone attivo per diminuire la concentrazione di Pfas nell’acqua (la spesa è ripartita nelle bollette). I filtri sono poi stati potenziati e raddoppiati nel 2017. Spesso saturi, vanno sostituiti spesso. L’unica soluzione più stabile sarà costruire nuovi acquedotti, che attingano da fonti non contaminate. La costruzione è in corso; il commissario straordinario della regione Veneto per l’emergenza Pfas, Nicola Dell’Acqua, ha comunicato di recente che i lavori procedono “da cronoprogramma”.
La congiura del silenzio
“La catena delle responsabilità fa impressione”, osserva Alberto
Peruffo, libraio e attivista di Montecchio Maggiore, nel vicentino, dove
la valle dell’Agno finisce nella pianura veneta. Siamo a sette
chilometri in linea d’aria dalla Miteni, nella libreria che ha fondato e
che è diventata un punto di riferimento per un ampio movimento di
cittadini per la salute e la difesa dei territori. Peruffo allude alle
responsabilità “non solo di chi ha prodotto queste sostanze, ma di chi
sapeva e taceva”.
Oggi è chiaro che quello dei Pfas è un disastro ambientale e sanitario di vaste proporzioni; ma rompere il silenzio non è stato facile. I primi medici che avevano osservato un’incidenza preoccupante di certe malattie furono tacciati di allarmismo. Nel 2015, però, sotto pressione di alcune associazioni ambientaliste, la Asl di Vicenza decise di fare un’indagine su un campione di cittadini adulti e scoprì che alcuni presentavano valori di Pfoa nel sangue fino a 35 volte superiori alla soglia di pericolo, otto nanogrammi per millilitro di sangue. “Erano emerse le prime ricognizioni su ipercolesterolemia, malattie della tiroide e sugli interventi per tumori del testicolo, in aumento nel comune di Lonigo”, ricorda Mario Saugo, medico che allora dirigeva il sistema epidemiologico regionale. “Uno studio recente sulla salute di madri e neonati ha registrato un aumento di casi di bambini con un peso più basso della media alla nascita. Si segnalano anche aumento di ipertensione e diabete in gravidanza, e alcune malattie congenite “, aggiunge Saugo, “purtroppo a oggi non si è fatto altro”. Una più ampia indagine epidemiologica non è mai cominciata, benché ci sia addirittura una delibera regionale del 2016: nessuno sa dire esattamente perché.
Invece ha preso avvio il primo piano di sorveglianza sanitaria sui residenti della zona rossa nati tra il 1951 e il 2002, a cominciare dai più giovani (il programma ha due livelli; quando le analisi rivelano un possibile danno alla funzionalità di organi vitali, comincia un secondo livello di accertamenti. Finora circa il 65 per cento delle persone sottoposte a screening è stato rinviato a esami ulteriori, si legge nell’ultimo aggiornamento del dicembre 2019).
È allora che famiglie ancora ignare, come quella di Michela Piccoli, hanno scoperto cosa c’era nel sangue dei loro figli. Forse è proprio allora che il silenzio si è davvero rotto.
Chi si batte per la salute
Un pomeriggio di giugno, nella libreria di Alberto Peruffo si riunisce
(in modalità telematica) la “redazione interdisciplinare” di Pfas.land,
sito internet che si definisce “organo d’informazione del movimento no
Pfas del Veneto”. Ne fanno parte medici, scienziati, militanti
ambientalisti, insegnanti. Si parla della Solvay di Spinetta Marengo, in
provincia di Alessandria, che progetta di ampliare la produzione di
composti perfluoroalchilici: “Vuole rilevare la produzione di C6O4
terminata alla Miteni”, osserva Peruffo. Il sito Pfas.land ha tradotto
in anteprima italiana due articoli della rivista Science
con l’ultimo studio sulla tossicità dei nuovi Pfas, da cui emerge anche
un legame tra la contaminazione osservata negli Stati Uniti e la Solvay
italiana.
Tra le azioni del movimento c’è stato anche un “blocco gandhiano” alla Miteni per il quale Peruffo è ancora sotto processo. E ci sono conferenze pubbliche con esperti, incontri con scolaresche. O la serata pubblica a Lonigo con l’avvocato americano Rob Bilott, quello della prima causa alla Dupont (raccontata dal film Cattive acque). Peruffo ha raccontato l’esordio di questo movimento popolare in un libro, Non torneranno i prati.
A questa presa di coscienza collettiva partecipano anche i lavoratori, superate le diffidenze reciproche. “Anche noi abbiamo sentito parlare dei Pfas per la prima volta nel 2013”, dice Giampaolo Zanni, segretario della Cgil provinciale di Vicenza, raggiunto al telefono. “Ora sappiamo che c’è un caso di inquinamento storico, che ha pregiudicato anche la salute dei lavoratori”, spiega. Una volta non se ne parlava: “In fabbrica c’era un medico aziendale, un professore di Milano; faceva analisi del sangue di routine e trasmetteva i dati alla Asl locale. Ma agli operai diceva di non preoccuparsi”. Nel 2019 lo studio dei medici Paolo Girardi e Enzo Merler su seicento persone che hanno lavorato alla Rimar/Miteni tra il 1970 e il 2018 ha invece rivelato mortalità “in eccesso” per varie cause, tra cui tumore al fegato. Con il mandato di circa ottanta operai, la Cgil ora chiede che il danno biologico dovuto all’esposizione ai Pfas sia riconosciuto come malattia professionale.
Oggi il sindacato si unisce ai cittadini per chiedere la bonifica del sito della Miteni, spiega Zanni. “Prima chiedevamo la riconversione dell’azienda: abbandonare i Pfas, inclusi quelli di nuova generazione, per passare a produzioni non inquinanti. Ma la proprietà non aveva intenzione di investire su quella fabbrica. A guardare indietro, quando gli investitori lussemburghesi hanno preso l’azienda per un euro era ormai chiaro: volevano continuare a produrre quelle sostanze finché avevano mercato e potevano fare profitti. Poi quando costi e messe in sicurezza sono diventati onerosi hanno lasciato che la Miteni fallisse”.
Un viaggio faticoso
Lo scorso gennaio la società dei medici per l’ambiente (Isde), guidata dal dottor Vincenzo Cordiano, ha diffuso un documento
per argomentare che, sette anni dopo le prime denunce sui Pfas, “buona
parte della popolazione nelle zone maggiormente contaminate è ancora
esposta a concentrazioni significative e potenzialmente tossiche di
queste sostanze presenti nell’acqua potabile, non essendo questa
adeguatamente filtrata”.
La battaglia del movimento no Pfas veneto non è finita. Un obiettivo immediato “è che tutta la popolazione della zona contaminata abbia accesso alla sorveglianza sanitaria”, osserva Peruffo. Lo screening in corso è limitato ai circa 85mila abitanti della zona rossa: “Noi, che viviamo nella zona arancione, non riusciamo neppure a farci fare analisi a nostre spese dai laboratori privati. Così si nega il nostro diritto alla salute”. La contaminazione può arrivare, oltre che dai rubinetti, dai pozzi privati, spesso usati per le coltivazioni e per il bestiame: e quindi dagli alimenti. L’articolo continua dopo la pubblicità
Alcuni pozzi pubblici a uso potabile in effetti sono stati chiusi, ma “serve un censimento di quelli privati”, dice Claudio Lupo, medico. Nel novembre 2017 la regione ha avviato analisi su campioni di prodotti alimentari. “I risultati però sono diffusi solo come medie di valori. Non sappiamo da dove provengano i campioni contaminati: chiediamo di sapere dove sono stati raccolti”, osserva Lupo. Il fatto è che il Veneto esporta prodotti alimentari e molti temono che parlare di Pfas sarebbe un rischio. È un dilemma anche per chi ha sempre sostenuto il principio del chilometro zero. “Continuiamo a sostenere i piccoli produttori, ma chiediamo loro di analizzare i propri pozzi e mettere filtri se necessario”, spiega Marzia Albiero, coordinatrice della rete dei Gruppi d’acquisto solidale nella provincia di Vicenza, che ha appena pubblicato una prima mappa dei produttori “amici”.
“Serve una bonifica vera”, aggiunge Piergiorgio Boscagin, fondatore del circolo Perla blu e parte della segreteria regionale di Legambiente nel Veneto, che con i Pfas si scontra dal 2013. Abita a Cologna Veneta, comune della zona rossa in provincia di Verona, dove sbocca anche il collettore che raccoglie i reflui di cinque depuratori industriali a monte, tra cui quello di Trissino. Il collettore Arica, dal nome del consorzio delle cinque zone industriali, è un condotto interrato lungo quaranta chilometri che sbuca nel Fratta-Gorzone: un flusso di acqua nera che si riversa in quella verde del fiume. Pochi metri a valle viene immessa l’acqua di un canale di irrigazione che arriva dall’Adige: sei metri cubi al secondo, un quarto della portata del canale, usati non per irrigare i campi ma per diluire quei reflui industriali e ridare al fiume il colore normale.
“È stato un viaggio faticoso”, dice Michela Piccoli nell’accogliente cucina di casa. Negli ultimi tre anni le Mamme no Pfas hanno incontrato amministratori locali, vescovi, ministri. Hanno testimoniato durante audizioni parlamentari. Un viaggio che hanno condiviso con un movimento ampio di cittadini. E che non è ancora finito.
Marina Forti
5/8/2020 https://www.internazionale.it
Foto: Lo stabilimento della Miteni, febbraio 2020. (Federico Bevilacqua)
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