I VOLONTARI DELLA RICERCA.
Marx è il motivo per cui ho iniziato a studiare filosofia. “Marx” è anche la destinazione del 342, l’autobus che ogni mattina alle sei per tre lunghi anni, la durata del mio dottorato di ricerca senza borsa, mi ha accompagnato al lavoro. In questi anni mi sono scoperta insegnante, ghost writer, archivista, babysitter, dogsitter, commessa e segretaria. Le mie molteplici identità erano definite dai miei “lavoretti”, un vezzeggiativo che mi ha permesso di segnare una distanza ideale tra il mio lavoro accademico “serio” e il resto. Questa dicotomia esistenziale esplodeva ogni volta che, imbarazzata, mi trovavo a dover definire la mia professione. Il mio lavoro serio non pagato era scandito da innumerevoli attività: scrivere saggi, leggere, studiare, seguire seminari, andare in biblioteca, assistere alle lezioni, esaminare gli studenti, organizzare convegni, collaborare con le riviste, tradurre, intervistare etc. I miei “lavoretti” prevedevano delle mansioni ben definite per cui venivo pagata e, a volte, sottopagata. Lavorare gratis per l’università italiana non mi ha permesso di capire fino in fondo quale fosse il mio statuto, il mio ruolo e il mio dovere in una forma estrema di alienazione. Un vero e proprio mondo invertito quello per cui potevo “lavorare” all’interno dell’università solo grazie alle mie acrobazie di sopravvivenza che, alimentando la mia schizofrenia, hanno fatto di me una disoccupata occupata.
L’inceppo stava nell’ostinazione a voler definire “lavoro” ciò che, in realtà, era solamente “volontariato” della ricerca. Dico volontariato non solo perché non era previsto un compenso, ma anche perché è frutto di una scelta. Ed è proprio su questo crinale sottile della scelta personale che si gioca il torbido legame con i professori, trasformato molto spesso in un circo di promesse e ricatti, di pressione psicologica e obbedienza coatta, di abusi di potere ed esercizio del sacrificio. I dottorandi in Italia sono un anello debolissimo della catena tra studenti e professori. Troppo vecchi per i collettivi studenteschi e troppo giovani per i sindacati, sono esclusi e dimenticati dal dibattito contemporaneo sul lavoro. I trentenni, che hanno investito tempo, soldi, fatica e speranza in progetti rifiutati e distrutti, vivono in un limbo il dramma di una totale illibertà. È un frammezzo molto difficile perché lungi dal prepararti al mondo del lavoro (che ormai è una chimera), il dottorato diventa una sospensione verso un futuro ancora più incerto. Da quando poi non esiste di fatto neanche più il ruolo di ricercatore a tempo indeterminato (Legge Moratti l. 230/2005), si deve ammettere che la ricerca in Italia – tranne per una minoranza strettissima – è ritornata ad essere una questione di classe.
Ormai, solo chi non conosce l’ansia da fine mese può concedersi il lusso di stare in biblioteca per fare ricerca. Questo non è che un esito avvilente delle politiche spietate di tagli adottate nel nostro Paese da decenni. Ma c’è di più. Il diffondersi di quella convinzione neoliberista che guarda con disprezzo alle discipline umanistiche, inutili e controproducenti. È purtroppo un destino che spetta a molti, a tutto quel sottobosco della cultura che è sempre più sottoterra, a un’intera generazione derubata dalla possibilità di scelta. Ma la resistenza alle macerie del presente abita proprio nello studio e nei sogni di chi, nonostante tutto, continua a pensare di poter cambiare il mondo.
Libera Pisano
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!