Il 41 bis va abolito, la storia e l’impegno contro le mafie e il terrorismo di comuniste/i lo insegna
Il diritto penale, sostanziale e processuale, è stato alimentato da decennali emergenze o presunte tali, costruite da campagne mediatiche reazionarie consapevoli o, financo, inconsapevoli. Si assiste, dunque, a un duplice diritto: uno ‘ordinario’ e costituzionale, fondato sul giusto processo (art. 111 Cost.), sulla presunzione di innocenza, sul valore emendativo della pena, da un lato, e, dall’altro, un diritto dell’eccezione contro l’imputato, affiancato da un diritto all’eccezione, a favore dello Stato. L’esecuzione penale e le misure di prevenzione sono i primi e più agevoli ambiti in cui sperimentare eccezioni al sistema costituzionale di punizione. In queste il reato, ancor più il delitto, si trasformano in afflizione concreta della persona come conseguenza di una sua azione o, addirittura, al fine di anticiparne una particolarmente antisociale.
Non si può ragionare sul trattamento afflittivo disciplinato nel 41 bis dell’ordinamento penitenziario (o.p.), se non lo considera quale sottospecie nella più ampia categoria del ‘carcere di alta sicurezza’, a sua volta ricompresa nella macrocategoria del diritto eccezionale.
I numeri parlano chiaro su come il trattamento eccezionale sia diventato fisiologico: su una popolazione carceraria di 54.609 persone ve ne sono 9212 in regime di alta sicurezza, ripartiti in tre sottogruppi per pericolosità, e 749 al 41 bis. Sono tutte e tutti Toto’ Riina? Evidentemente no, ma semplificano il sistema di controllo dei reclusi, spersonalizzando al massimo il sistema della punizione e contraddicendo per facta concludentia il principio costituzionale della individualizzazione del trattamento afflitti o, ribadito nell’art. 1 dell’o.p.. E, ancora, in tema di art. 41 bis, vale la pena ricordarne la genesi.
Esso fu introdotto nel luglio 1992, con decreto legge, come misura straordinaria e provvisoria dai ministri Claudio Martelli ed Enzo Scotti, peraltro ancora oggi influenti consiglieri politici dell’opposizione parlamentare e, dieci anni dopo, integrato in parte nell’o. p. da un Governo Berlusconi.
Si tratta di un isolamento finalizzato ad azzerare la relazione di una persona con il resto dell’umanità e più che restringerla in detenzione la riduce in cattività. Sono, infatti, consentiti unicamente: cucinare cibo, scrivere lettere ai difensori o a parlamentari senza censura, un colloquio mensile di un’ora a distanza coi familiari, due ore d’aria al giorno in un cavedio da cui non si vedano altre parte parti del carcere con un gruppo al massimo di quattro persone nella stessa condizione. Tutto il resto è vietato, anche avere foto dei parenti più stretti, ogni momento della vita è osservato e ascoltato dalla polizia penitenziaria.
La misura ha i tratti della abnormità anche dal punto di vista strettamente giuridico: non è una pena è, invece, un atto politico. Un provvedimento del Ministro della Giustizia assunto su proposta del Ministro dell’Interno e di varie forze di polizia, acquisito il parere di magistrati requirenti in cui un giudice, il Tribunale di Sorveglianza solo di Roma, interviene eventualmente a seguito di reclamo. E si tratta di un regime comminato per quattro anni, a prescindere da una condanna passata in giudicato, perché è una misura di prevenzione con due soli requisiti, vale a dire l’essere imputato di gravissimi delitti, non solo di mafia e terrorismo in senso stretto, nonché la presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un associazione criminale, terroristica o eversiva”. Un’anomalia anche nella collocazione sistematica, dunque.
Se si tratta di un provvedimento amministrativo, perché collocarlo in un corpus normativo che si chiama ordinamento penitenziario?
Mi considero uno dei principali responsabili e sostenitori dell’inserimento dell’abolizione del 41 bis o.p. nel programma di Potere al Popolo nelle elezioni politiche nel 2018. Si tratta di un argomento incandescente, in quanto colpisce il sistema carcerario, le vittime e la lotta alle mafie, non certo per un’insussistente emergenza anarchica o di violenza politica. La linea del Partito e di settori non irrilevanti della sinistra italiana – persino la più moderata – è stata sempre difendere le garanzie costituzionali nel sistema penale. Per questo è anche oggi un nostro dovere non solo porre in evidenza l’assenza dei presupposti per il 41 bis ad Alfredo Cospito, ma denunziare l’assurdo inchino alla subcultura forcaiola dell’intero arco parlamentare, sicuramente consona ai nipotini di Almirante.
Una cultura dell’esecuzione penale costituzionale non esclude un trattamento carcerario più afflittivo per delitti gravissimi, a patto che esso non sia spersonalizzato e, invece, inserito in un processo individuale di risocializzazione.
Le comuniste e i comunisti in Italia, con l’eccezione del gruppo dirigente PCI negli anni dell’unità nazionale, possono rivendicare una storia garantista a tutto tondo, a cominciare dalla posizione sull’ergastolo di Umberto Terracini nell’Assemblea costituente. Varrebbe la pena rileggere con un po’ di attenzione il dibattito parlamentare del 1992 sul tema di oggi e si scoprirebbe l’eccellente lavoro di opposizione al decreto Martelli Scotti da tutti parlamentari del Partito, in particolare alla Camera da Giovanni Russo Spena e Milziade Caprili. Non era certo un simpatizzante di Cospito l’ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana Pancrazio De Pasquale che il 4 agosto per il Partito pronunciò la dichiarazione di voto. Discorso politico di impressionante attualità, pronunciato nell’anno del duplice strage palermitana che denunciava come la lotta alla mafia non potesse essere lasciata ad organi di pubblica sicurezza costretti a essere il vero motore del trattamento disumano che va oggi sotto nome 41bis. Analogo impegno di opposizione ci fu per la pattuglia parlamentare dieci anni dopo nel 2002 che, ancora una volta quasi in solitudine, contrastò la modifica definitiva dell’o.p. con Giuliano Pisapia, Graziella Mascia e Giovanni Russo Spena.
E varrebbe la pena ricordare alla pletora di politici populisti, liberali solo per gli amici, la battaglia di un liberal/conservatore maestro del diritto penale, Alfredo Biondi, contro i suoi Governi Amato e Berlusconi. Il garantismo autentico non porta voti, non muove interessi economici, ma è il segno della maturità delle istituzioni e dell’opinione pubblica.
Gianluca Schiavon
Resp. nazionale Giustizia, PRC-S.E.
6/2/2023 http://www.rifondazione.it/
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