Il buio oltre il muro

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino e pochi giorni dopo, con la Bolognina, spariva di fatto il Pci. La portata politica di quell’evento non può essere minimizzata: è cambiato il mondo e si è chiuso il Secolo breve, ma più denso di cambiamenti sociali, economici, politici.

Nessuno, o quasi, l’aveva previsto. E nessuno, o quasi, non solo in quei giorni ma anche negli anni successivi, seppe valutare le conseguenze globali di quell’evento. Il vento di quegli anni era la «fine della storia»: un argomento che già di per sé non aveva basi solide e reso ancora più banale dalla vulgata liberale. L’idea che il fallimento del socialismo reale garantisse il trionfo di capitalismo e democrazia, trattati per altro come fossero la stessa cosa, non prendeva in considerazione la storia e le dinamiche del capitalismo stesso.

In parte, quegli argomenti, erano giustificati dallo spirito dell’epoca: le crisi più devastanti del capitalismo erano distanti una sessantina d’anni e le democrazie occidentali, pur con qualche problemino, stavano dando prova di resilienza e stabilità. Perché mai questo sarebbe dovuto cambiare, tanto più ora che, si pensava e sperava, ci si avviava verso una epoca più pacifica e di collaborazione tra stati?

A trent’anni di distanza sappiamo bene che le cose non sono andate così: guerra permanente, crisi economica e povertà, e una sempre più accesa competizione tra stati che non lascia presagire niente di buono. E quelle democrazie, allora così stabili e floride sono ora alle prese con populismi, nazionalismi, spinte centrifughe e il ritorno delle destre illiberali.

Molto di questo è figlio – più o meno illegittimo – di quel muro. Sotto le cui macerie, oltre al Comunismo sovietico, rimase intrappolata la socialdemocrazia. E mentre si inneggiava a un futuro democratico, si cominciavano a tagliare le radici stesse della democrazia.

Borghesia, Liberalismo e Democrazia

L’idea che democrazia e capitalismo vadano di pari passo è ampiamente accettata e l’evidenza storia è piuttosto inconfutabile: la democrazia come la conosciamo si è sviluppata in contesti economici capitalisti. Tanto nel sentire comune quanto nella ricerca accademica, questo porta a identificare democrazia e borghesia: il mercato, per svilupparsi e crescere, ha bisogno di protezione contro il potere assoluto dello stato e liberalizza, di conseguenza, lo spazio politico. La crescita economica, secondo Dahl, uno dei più grandi studiosi della democrazia, espande una classe media interessata alle libertà personali, all’educazione, alla protezione dei propri diritti di proprietà, e, dunque, alla partecipazione nel governo della cosa pubblica. Ne consegue che la classe economicamente e socialmente dominante – la borghesia – sia la spina dorsale di una polity democratica. È la tesi popolarizzata da Barrington Moore nel famoso saggio Le origini sociali della democrazia e della dittatura.

Se dunque, alla fine della guerra fredda, i vincitori indiscussi erano capitalismo e borghesia, è facile capire come ci si immaginasse un mondo democratico, aperto, di crescita economica e prosperità.

Il fatto che non sia successo suggerisce che tanto questo sillogismo quanto il discorso mainstream sulla democrazia vadano quantomeno riviste. Che la borghesia sia «naturalmente» a favore della democrazia è argomento discutibile, e non mancano gli esempi storici, passati, recenti e recentissimi, che contraddicono tale assunto. Lo stesso Moore, per altro, circostanziava la sua tesi non alla borghesia in generale ma a quella anglosassone. Il problema è la confusione tra liberalismo e democrazia: come spiegato da Goran Theborn, le rivoluzioni borghesi, che hanno senza dubbio distrutto il vecchio stato assolutista e aperto il campo all’avanzata del capitale, non hanno però portato alla formazione di stati democratici: parliamo di società oligarchiche in cui il voto era ristretto per censo e per sesso. Liberali sì, democratiche no. I due concetti non coincidono. D’altronde nell’Ottocento, il consenso intellettuale era che capitalismo e democrazia fossero inconciliabili in quanto due maniere diverse di distribuire le risorse: in democrazia, si diceva, la forza del numero avrebbe sovrastato quella della ricchezza, mettendo a rischio il funzionamento del mercato. Era la tesi di Marx ma anche di David Ricardo, secondo cui il suffragio non doveva essere esteso a coloro che avevano interesse al rovesciamento dei diritti di proprietà. E un secolo dopo, Milton Friedman sosteneva che «una economia relativamente libera sia condizione indispensabile per la libertà. Ma abbiamo evidenza (storica) che una società democratica, una volta creata, distrugga la libertà economica». Va indubbiamente apprezzata l’onestà di molti dei suoi epigoni: se si guarda al tanto osannato Index of Economic Freedom, ci si accorgerà che nel 1996 – primo anno in cui fu pubblicato – l’Honduras, una dittatura militare, risultava al secondo posto. E l’index of human freedom – creato dai liberalissimi think tank Cato e Fraser – non include tra i parametri il suffragio universale e le elezioni multipartitiche.

Lotte operaie e democrazia

È solo con la comparsa dei movimenti sociali di massa che lo stato liberale è costretto, pian piano, ad allargare la franchigia elettorale. Movimenti che, va sottolineato, sono frutto delle dinamiche economiche del capitalismo liberale e nascono in contrapposizione a esso. Infatti, secondo alcuni studiosi, come Acemoglu e Robinson, fu la paura della ribellione dei poveri a convincere la borghesia a cercare un compromesso politico. La contro-tesi al lavoro di Moore è il meno conosciuto Sviluppo Capitalista e Democrazia di Rueschemeyer, Stephens and Stephens, in cui si sostiene che è il formarsi e il consolidarsi della classe lavoratrice a forzare lo sviluppo democratico. Un recente articolo di Adaner Usmani riprende l’argomento di Rueschemeyer: sono le azioni collettive e la capacità dei lavoratori di bloccare la macchina economica a imporre quel compromesso politico e sociale chiamato democrazia.

In quest’ottica, dunque, la democrazia non è più il regno della borghesia e del capitalismo, ma piuttosto quella competizione per le risorse tra un sistema economico basato su forza (economica) e ricchezza – e dunque chiaramente non democratico – e l’azione politica delle masse. Non è la logica conseguenza del capitalismo, quanto piuttosto un processo dinamico che nasce dalle sue contraddizioni, per frenarlo e limitarlo e non per completarlo. Secondo Przeworski, la «democrazia capitalista è una particolare forma di organizzazione delle relazioni politiche in cui i risultati dei conflitti sono, entro certi limiti, incerti e, in particolare, in cui i risultati non sono determinati unicamente dalla collocazione di classe». In poche parole, si tratta di un compromesso in cui le relazioni economiche rimangono «capitaliste» ma la distribuzione delle risorse avviene (anche) per via democratica.

La fine della Socialdemocrazia

L’impatto del 1989 sulla democrazia, seguendo questo filo logico, è dunque diverso. Se da una parte si esaltava la nozione di democrazia, completamente astoricizzata e decontestualizzata, dall’altro si imponeva il mercato come arco portante del nuovo regime economico-sociale. Non a caso il modello che si proponeva non era quello del capitalismo democratico ma quello del neo-liberismo anglosassone. L’Ottantanove, dunque, divenne un redde-rationem all’interno del mondo Occidentale in cui il grande capitale, che mal sopportava il compromesso democratico, fece fuori la socialdemocrazia keynesiana.

Non doveva essere necessariamente così: a quell’epoca i partiti di massa a sinistra erano vivi e vegeti in tutta Europa, i sindacati ancora forti, la globalizzazione ancora di là da venire. Per di più le stesse masse dell’Est guardavano con simpatia alla socialdemocrazia, scontente più della repressione politica che del modello economico. Certo, per elaborare sull’argomento di Acemoglu, la scomparsa dell’Urss come modello alternativo, liberò il capitalismo dalle sue paure – e dunque dai suoi freni. E il successivo processo di de-industrialiazzazione a partire dagli anni Novanta indebolì il potere di interdizione della classe lavoratrice.

Questi fattori economici sono pregni di significato, ma devono essere integrati da un’analisi della democrazia come costrutto sociale. Il fattore culturale fu, infatti, altrettanto importante. La caduta del muro cancellò dal discorso politico, come per magia, le contraddizioni del capitalismo, per contrastare le quali i movimenti socialisti erano nati. Nell’abdicare la loro ragion d’essere, questi partiti e movimenti hanno inferto un colpo letale alla democrazia stessa perché hanno rinunciato all’analisi del capitalismo e alla sua coesistenza problematica con la democrazia – che da luogo di risoluzione del conflitto, per dirla con Przeworski, diventa il regime di difesa del mercato.

Come scritto recentemente da Piketty, in tutto l’Occidente le sinistre si sono trasformate da «partito dei lavoratori» a «partito dei brahmini», cioè dell’élite intellettuale – che può pure essere progressista sui valori civili ma è, nel migliore dei casi, disinteressata ai problemi sociali. E come brillantemente spiegato da Peter Mair in Ruling the Void – e anche da Colin Crouch in Post-Democracy – il cleavage storico tra destra e sinistra (e cioè appunto il conflitto capitale-lavoro) è semplicemente sparito. La sbornia neo-liberista è arrivata a un tale livello di parossismo che il Cancelliere dello Scacchiere e poi Primo Ministro Laburista Gordon Brown pensava che le forze del mercato fossero talmente virtuose da decretare la fine della «boom and bust economy», proprio mentre quel mondo si sgretolava sotto i suoi piedi.

Ci si era convenientemente dimenticato di cosa fosse stato il mercato lasciato a sé stesso: crisi continue; quadro sociale, economico e politico polarizzato; concentrazione di ricchezza e potere politico; guerra e fascismo. Se i socialisti avevano dimenticato Marx, avrebbero perlomeno potuto ricordarsi di Polanyi.

La crisi della democrazia

Tutti fenomeni immancabilmente ripresentatisi. Con una differenza importante rispetto al passato: l’assenza di quel contro-movimento progressista – il Lavoro, il Socialismo – che aveva portato al compromesso democratico. I risultati del nuovo sistema economico sono sotto gli occhi di tutti: povertà, diseguaglianza, disoccupazione e precarietà – concetti non solo sono spariti dal vocabolario della sinistra, ma divenuti qualcos’altro nel discorso politico dominante: la povertà andava vissuta come fallimento personale; la diseguaglianza è il frutto di una società meritocratica; la precarietà è flessibilità; la disoccupazione è «naturale» quando non proprio positiva perché segno tangibile della dinamicità di un’economia e della «distruzione creativa» di matrice schumpeteriana.

Il punto è che, se la democrazia è il luogo di rappresentanza dei bisogni e di risoluzione dei conflitti, il tessuto democratico è inevitabilmente in pericolo nel momento in cui questi bisogni non trovano rappresentanza.

Si svuota dunque di ogni significato la parola democrazia e si rimane con una serie di istituzioni formali: libere elezioni in cui il controllo dell’elettorato sull’agenda politica è quasi nullo, e dove sempre maggiori spazi di sovranità sono ceduti a istituzioni di governance a-democratiche ma non certo apolitiche; rule of law messa a rischio dalla prepotenza del censo e dal ricatto del più forte. Ma soprattutto continuo indebolimento dei corpi intermedi: sindacati alla canna del gas, partiti non più di massa ma delle élite. Viene meno dunque quel compromesso sociale che era la funzione storica della democrazia. Non può sorprendere, dunque, il deterioramento attuale: l’ondata «populista» non è altro che una rivolta degli sconfitti ed emarginati dalla società di mercato. Nella maggior parte dei casi, però, in funzione reazionaria, anche e soprattutto perché le sinistre – quelle che contestavano il sistema e ne imposero i freni – sono diventate parte dell’establishment. Il pericolo, dunque, non viene tanto dal populismo, effetto e non causa della crisi attuale, ma dalla mancanza di opposizione al mercato. La lezione, sintetica, è che senza socialismo non può esistere democrazia.

Nicola Melloni

Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.

21/11/2019 jacobinitalia.it

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