Il caso Montanari e il taboo dell’antifascismo
Passato il 10 febbraio, la persona di buon senso tira un sospiro di sollievo: «fino all’anno prossimo», si dice, «sarò al riparo dalle bufalazze sulle foibe, che a ridosso del giorno del ricordo vengono sparate a getto continuo». Un getto, oltretutto, ad altissima pressione. «Ora che ci siamo lasciati alle spalle le polemiche più assurde, come quella contro il gestore del profilo twitter di una sezione di Brescia dell’Anpi, reo di aver postato una citazione dall’ultimo libro, E allora le foibe?, di Eric Gobetti, posso informarmi meglio. E capire cosa dice davvero la storiografia, su ‘sta questione delle foibe». «Magari parto proprio dal libro e dalle interviste di Gobetti», riflette ancora la persona di buon senso, «poi leggo lo speciale di Internazionale curato da Nicoletta Bourbaki, e mi procuro anche qualcuno dei titoli citati in bibliografia».
Rassicurati dal giudizio – per definizione assennato – della persona di buon senso, ci sentiamo più tranquilli anche noi. Invece no. Il fanatismo da Giorno del Ricordo ci insegue fino in quest’ultimo scampolo d’agosto. Il casus belli è un editoriale di Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano. Montanari, che come l’eroe del nostro racconto è una persona di buon senso, e la testa non si limita ad averla sulle spalle ma la fa anche funzionare, mette insieme i fatti: non solo considera i singoli eventi, ma ne coglie anche le somiglianze, ciò che hanno in comune e che nell’insieme rappresentano.
I vertici delle istituzioni repubblicane, questa è la tesi, stanno dimostrando di non considerare l’antifascismo una pregiudiziale. Ne è una prova il caso di Claudio Durigon, che avrebbe voluto dedicare ad Arnaldo Mussolini il parco di Latina attualmente intitolato a Falcone e Borsellino; ne è una prova il caso di Andrea De Pasquale, l’agiografo di Pino Rauti (uno statista tanto creativo e intelligente…), nominato alla direzione dell’Archivio centrale dello Stato, con pubblico placet del ministro Dario Franceschini, nonostante le proteste delle associazioni tra le vittime del terrorismo. Ne è una prova l’ideologia del Giorno del Ricordo: le istituzioni, e ai livelli più alti, hanno assunto come verità ufficiale la rappresentazione neofascista, in larghissima parte non veridica, delle vicende che hanno interessato il confine altoadriatico durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Vicende delle quali, come si sa, le foibe sono la metonimia.
Da sempre, i nostalgici in orbace hanno cercato di giustificare i crimini nazifascisti spiegandoli come una reazione al terrore bolscevico, e hanno trovato in ciò l’appoggio della parte più retriva della storiografia liberale. In questa stessa ottica, hanno sempre tentato di equiparare le foibe ai campi di sterminio (cioè di olocaustizzarle), riuscendo infine a trovare nella legge istitutiva del Giorno del ricordo un decisivo avallo di stato. Questa è, in buona sostanza, la communis opinio storiografica: l’editoriale di Montanari non fa altro che ricalcarla fedelmente. Ma… apriti cielo!
«Tomaso Montanari, un comunista che nega le foibe», strilla subito Libero. «Le Foibe non esistono?», gli fa eco su twitter il senatore e presidente del Partito (once upon a time) Socialista Riccardo Nencini: «un atto di lealtà alla Repubblica sarebbero le dimissioni di Durigon e l’allontanamento di Montanari dall’insegnamento». Così sembra che sia Montanari sia Durigon abbiano detto che le foibe non esistono. L’italianissimo ormai ex sottosegretario si sarà dunque adontato non poco: «sono mica un negazionista slavo filotitino, io! Volevo solo intitolare un parco al fratello del duce: non capisco perché anche Nencini voglia farmi dimettere…». Ma non finisce qui. L’ormai renziano Gennaro Migliore, ancora su twitter, è durissimo: «Ma vi pare possibile che il Rettore di una prestigiosa Università come quella degli [sic: in realtà è ‘per’] stranieri di Siena definisca ‘revisionismo storico’ la Giornata del Ricordo? A me no. Chi nega una tragedia come quella delle foibe non ha proprio nulla da insegnare». Inutili i tentativi di spiegare che Montanari assumerà il rettorato a partire da ottobre, e quindi che allo stato attuale non potrebbe dimettersi da Rettore neanche volendo. A un certo punto il Professor Pietro Cataldi, stanco di essere inconsapevolmente nominato invano, interviene con un bel comunicato ufficiale, in cui ribadisce ciò che dovrebbe essere ovvio: ossia che il rettore della Stranieri è ancora lui; che le opinioni di Montanari sono di Montanari, non della Stranieri; che Montanari, in quanto studioso e prima ancora in quanto cittadino, ha il diritto di esprimere la propria opinione su un problema storiografico; infine che le cause di dimissioni dalla carica di rettore sono tipiche e restrittivamente disciplinate, e che la disciplina restrittiva è posta a tutela della libertà accademica. Niente: «Montanari ancora non si è dimesso», insiste – sempre su twitter – Benedetta Frucci, assistente parlamentare e ultras di Italia Viva.
Va detto che chiedere le dimissioni preventive del non-ancora-rettore Montanari sta diventando un’abitudine, per Italia Viva. I renziani ci avevano già provato a inizio agosto, trainati dall’ex ministra Teresa Bellanova. L’accusa, in quel caso, era stata di leso ponte sullo stretto: grande opera dannosa e inutile, nonché piatto ghiottissimo per le mafie (cfr. il precedente del Tav Torino-Lione), alla quale Montanari era tornato a ripetere la sua contrarietà. «Io trovo molto grave», aveva scritto l’imprenditore bergamasco Gianmarco Gabrieli (anch’egli renziano), «che il Presidente del Consiglio non riprenda un rettore per l’incapacità di articolare un pensiero facendo tweet come un troll qualsiasi [la (mancanza di) punteggiatura è nell’originale]».
Che conclusioni si possono trarre dalla canea scatenata contro Montanari? La prima, e più banale, è che la qualità del dibattito è infima. Per crassa ignoranza e/o per calcolo politico, si chiede la sua testa per cose che non s’è neanche sognato di dire. E ciò, oltre a essere nocivo nel processo di formazione dell’opinione pubblica, prova per l’ennesima volta la sconfortante bassezza di buona parte della classe dirigente che abbiamo in sorte.
La seconda, non meno scontata, è che il comune senso politico, nella sfera istituzionale, è slittato di molto a destra (in politologia si parla di «destrismo»). Un paragone: durante il lungo ’68 italiano, i «cattivi maestri» di cui gli esponenti delle istituzioni chiedevano l’allontanamento dalla cattedra erano gli intellettuali dichiaratamente rivoluzionari. Insomma, l’etichetta di «cattivo maestro» serviva a escludere dal perimetro della legittimità democratica chi credeva nella necessità di abbattere lo stato borghese: era, cioè, uno strumento retorico (e poi giudiziario) di difesa della costituzione materiale vigente. Bisogna difendere la società. Certo, si potrebbe dire che anche le critiche al ponte sullo stretto sono una spina nel fianco di qualche potentato economico, che ha i suoi rappresentanti politici, ma il confronto resta comunque impietoso: al cospetto dei leader di partito che chiedono le dimissioni di Montanari per un editoriale e qualche tweet (e qualcuno ha davvero rispolverato il vecchio caro marchio del «cattivo maestro»), i guardiani dell’assetto primorepubblicano ci appaiono alla stregua di paladini quasi utopisti del libero pensiero.
La terza conclusione è che gli attacchi a Montanari, così come ad altre e altri studiosi di sinistra, si stanno verificando in coincidenza, casuale ma non meno rivelatrice, con il novantesimo anniversario del giuramento di fedeltà al fascismo, che nel 1931 il regime impose agli accademici italiani. Coincidenza nella coincidenza, il regio decreto n. 1227/1931, che lo sancì, porta proprio la data odierna: 28 agosto. Su 1.251 professori, com’è noto, a rifiutarsi di giurare furono in 12. Ovviamente, la coincidenza è rivelatrice non perché quel fenomeno è uguale a questo. Allora c’era un obbligo di fedeltà, inteso da molti come del tutto esteriore, ma pur sempre un obbligo di fedeltà, sanzionato con la perdita della cattedra. Ora ci sono le sparate di qualche politico non molto padrone di sé, prive al momento di qualunque conseguenza. Ma proprio perché alle nostre spalle (o di fronte a noi, se la vediamo come Benjamin) c’è un passato così tanto ingombrante, dovremmo sapere che bisogna fermarsi prima. Molto prima. Bisogna pensarci bene, prima di invocare, ad esempio, l’intervento del presidente del consiglio sulle opinioni di un professore universitario.
Ha scritto una volta Andrea Giardina, il grande storico dell’antichità e già Rettore della Normale di Pisa, ricordando il suo maestro Santo Mazzarino e la cerchia dei suoi allievi di cui anch’egli faceva parte: «l’unica pregiudiziale, talmente ovvia da non essere esternata, riguardava l’estrema destra». È venuto il tempo di esternarla, quella pregiudiziale, perché probabilmente ovvia non è più. A questo proposito, vale a dire a proposito del significato dell’antifascismo per l’università odierna, è da ascoltare l’orazione con cui proprio Montanari ha annunciato la sua candidatura a rettore, lo scorso giugno: è uno dei due documenti più lucidi, tra quelli che hanno avuto una certa diffusione negli ultimi mesi, sull’importanza di non disgiungere l’impegno scientifico da quello civile e politico. L’altro è il discorso delle studentesse della Normale, checché ne dicano i detrattori.
Una quarta e ultima conclusione. Un fronte impopolare ma rumoroso, che affratella gli editoriali di Ernesto Galli della Loggia alle storie su Instagram di Rocco Tanica, passando per le sguaiate invettive quotidiane di Guia Soncini, ha contribuito a rendere relativamente celebre una demonologia d’importazione: quella che si propone di combattere il politicamente corretto, o (il che è lo stesso) la cancel culture, o (il che è lo stesso) l’ideologia woke. Sintagmi fungibili, che in fondo hanno un unico scopo: servono a dire di essere dei reazionari aggiornati. L’affaire Montanari è istruttivo anche in questo: dimostra in quale modo il potere si manifesta davvero, qui e ora, nell’anno 2021 in Italia, quando pretende che gli intellettuali ne legittimino il discorso, o almeno vi si conformino. L’attrito tra la parresia e il potere emerge a quest’altezza, non nella lotta contro il feticcio della cancel culture, per additare il quale si fa spreco dell’aggettivo «fascista». In un periodo in cui si cita Foucault a proposito e soprattutto a sproposito, in cui due personaggi pittoreschi d’estrema destra fondano un’università telematica e la chiamano libera università Michel Foucault, vale la pena di andare a rileggersi le trascrizioni dei suoi corsi dei primi anni Ottanta. Soprattutto quello posteriore, del 1984, terminato tre mesi prima della morte. Quando parliamo di coraggio della verità, per parlare con cognizione di causa, partiamo da lì.
Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.
28/8/2021 https://jacobinitalia.it
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