Il circolo perverso delle sanzioni alla Russia

I dati non sono oggettivi. Ma disporre di dati, il più possibile attendibili, cioè tratti da fonti ufficialmente riconosciute, può essere utile per comprendere alcune situazioni e fenomeni economici. Nella scienza e nella statistica economica, il dato si presta a variabili interpretazioni e per questo la sua analisi deve essere accompagnata da solide argomentazioni.

In questi giorni, sono in molti, a livello politico e istituzionale, a perorare la causa dell’embargo dell’export dei prodotti energetici (petrolio, soprattutto gas, carbone) provenienti dalla Russia, come arma economica per depotenziare la minaccia militare di Putin, con il duplice obiettivo di mettere fine all’invasione dell’Ucraina e quindi creare le condizioni per una soluzione diplomatica.

Secondo costoro si tratterebbe di una “guerra economica umanitaria” sulla falsariga di quella guerra militare “umanitaria” che era stata propagandata dalle potenze occidentali per giustificare l’attacco all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia e via dicendo (la lista è alquanto lunga).

Tale tipo di intervento, a differenza della “guerra militare umanitaria” (che certamente crea distruzione e morte per chi la subisce, di solito civili inermi e poveri, e rimpingua i profitti dell’industria militare di chi la dichiara) ha però, a sua volta, un effetto collaterale: può avere costi molto pesanti anche per chi la decide. Costi, che – come la storia ci insegna – anche in questo caso non saranno pagati dalle élites economiche al potere ma dalle classi sociali a più basso reddito.

Le sanzioni creditizie-finanziarie

Tra le prime sanzioni si è deciso di tagliare le transizioni monetarie con le banche russe, bloccando il sistema SWIFT per alcuni operatori creditizi, a cui si è aggiunta, proprio nell’ultimo pacchetto, anche la Sberbank, ma non la Gazprom Bank che intermedia le transizioni del petrolio e del gas russo. Ciò si aggiunge al congelamento delle riserve valutarie russe, di cui abbiamo già discusso.

L’effetto di queste misure non è stato molto efficace. L’obiettivo era di quello di creare un blocco monetario per compromettere la stabilità del rublo e creare quindi un processo di svalorizzazione del sistema produttivo russo con effetti pesanti sulla stessa congiuntura economica, già fortemente colpita dal Covid nel 2020 ma nel 2021 in fase di ripresa. La reazione del governo russo è stata, tuttavia, immediata ed efficace: il combinato disposto di chiedere il pagamento dei prodotti energetici in rubli tramite la Gazprom Bank per favorire l’acquisto di oro sui mercati internazionali (ad un prezzo di 10$ superiore a quello di mercato, compreso quello estratto in Russia) ha impedito che il blocco delle riserve valutarie portasse alla svendita di parte delle 2.300 tonnellate del metallo prezioso detenute dalla Banca Centrale russa (per sostenere il corso del rublo) e a una sua maggior dipendenza dal dollaro (qui). Il risultato è che oggi il rublo ha le stesse quotazioni registrate prima dell’invasione e tali sanzioni rischiano di indebolire il dollaro come valuta di riserva internazionale.

Le sanzioni sui prodotti energetici

Sul fronte dell’export, le esportazioni della Russia nei primi dieci mesi del 2021 sono state pari a 388,4 miliardi di dollari, con un aumento del 42,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, secondo i dati forniti dal Servizio doganale federale russo. Questo importante incremento è dovuto ai bassi livelli del 2020, anno della crisi pandemica, all’aumento dell’inflazione e alla ripresa economica del 2021.

Come è noto, la parte del leone viene fatta dall’export nei prodotti energetici. Secondo i dati dellEconomic Complexity Observatory, che compila informazioni dettagliate su acquisti e vendite in moltissime nazioni del mondo, nel 2019 il 60% del valore complessivo di quanto esportato dalla Russia è ricaduto in questa categoria, per un ammontare totale di circa 235 miliardi di dollari. Per dare un’idea, il solo export di questa categoria di materie prime finanzia (persino con un piccolo avanzo) l’intero import russo. La componente di petrolio greggio ammonta a 123,3 miliardi di dollari, il petrolio raffinato a 66,2 miliardi, il gas solo a 26,3 miliardi.

I principali paesi destinatari sono la Cina (49,3 miliardi di dollari di solo prodotti energetici, su un volume totale di export alla Cina pari a 112,4 miliardi di dollari), Regno Unito (25,3 miliardi di dollari), Paesi Bassi (22,5 miliardi di dollari), Bielorussia (15,8 miliardi di dollari) e Germania (14,2 miliardi di dollari).

È interessante notare come la sola voce del gas svolga un ruolo non molto rilevante nel totale dell’export dei prodotti energetici, pari a poco più del 12%. Il blocco di tale voce avrebbe quindi effetti limitati dal punto di vista sanzionatorio.

Diverso è, invece, il ruolo del petrolio, il cui blocco peserebbe non indifferentemente sul totale dell’export russo

Con riferimento a tale materia prima, l’Unione europea importa il 97% del petrolio che consuma e il 25,7% arriva dalla Russia. In numeri assoluti, l’Ue produce 18,7 mega tonnellate di greggio (Mt) e ne importa 440,3.  Nell’Unione europea il 65% del petrolio è consumato dai trasporti e, in gran parte, da quelli su strada. Il 12,5% del greggio che l’Italia importa è di origine russa.

I Paesi che ne importano di più sono la Germania (28,1 Mt), la Polonia (17,9), l’Olanda (13,1), la Finlandia (9) e il Belgio (8,2). L’Italia è all’ottavo posto nell’Ue con 5,6 Mt di greggio che arriva dalla Russia. Gli Stati Uniti importano una quota molto più bassa, il 7%.

Per quanto riguarda il grado di dipendenza, la situazione è assai variegata. Al vertice di questa classifica si trova la Slovacchia, che raggiunge il 78,4%. Seguono Polonia, Finlandia e Lituania dove la percentuale è di poco superiore al 66% del petrolio importato.

Per quanto riguarda l’Italia, la dipendenza dal petrolio russo è diminuita. Come riportato nella bozza del Def, il Documento di economia e finanza che ha ottenuto il via libera del Governo il 6 aprile 2022, le sanzioni in risposta alla crisi in Crimea del 2014 hanno inciso soprattutto sull’import di petrolio greggio (-3,7 miliardi di euro) e di prodotti petroliferi raffinati (-2,2miliardi).

Tutta altra storia, invece, per quanto riguarda il gas naturale, in cui l’Italia ha aumentato il proprio approvvigionamento dalla Russia (+1,5 miliardi di euro tra il 2013 e il 2021, un incremento del 19,7%), in presenza di un analogo aumento della dipendenza relativa (dal 37,1% al 46,6%).

A livello europeo, nel 2020, la percentuale di gas russo sul fabbisogno europeo si è attestata al 43,44 per cento, mentre nel primo trimestre del 2021, tale percentuale è salita al 47 per cento. In Europa i Paesi maggiormente dipendenti dal gas russo sono anzitutto le Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), Bulgaria, Finlandia, Slovacchia e Slovenia che importano da Mosca circa il 90 per cento del proprio fabbisogno di gas. Italia e Germania importano rispettivamente il 40 per cento e il 50 per cento di gas dalla Russia.

È chiaro che la dipendenza dal gas è superiore a quella dal petrolio

Sorge quindi una prima domanda, di fronte a questo quadro: perché il dibattito europeo si è incentrato sulle sanzioni sul gas e non sul petrolio? Sulla base del quadro descritto, colpire l’export di petrolio avrebbe un effetto sanzionatorio molto più pesante di quello relativo al blocco del gas, dal momento che la Russia esporta il petrolio 10 volte di più del gas. In secondo luogo, la dipendenza europea (e in particolare dell’Italia) dal gas russo è maggiore di quella del petrolio.

Occorre inoltre aggiungere che lo scorso febbraio, un paio di settimane prima dell’invasione dell’Ucraina, Russia e Cina hanno annunciato un accordo sul gas naturale per 48 miliardi di metri cubi all’anno in tutto.

Di questi, 10 miliardi verranno spediti dalla Russia alla Cina attraverso una “rotta nell’estremo oriente”. Vale a dire che passeranno per l’isola di Sachalin all’interno del gasdotto Sachalin-Chabarovsk-Vladivostok. La tubatura possiede attualmente una capacità di 8 miliardi di metri cubi all’anno, ma Gazprom intende portarla a 30.

I restanti 38 miliardi di metri cubi annui, invece, riguardano la condotta Forza della Siberia, entrata in funzione alla fine del 2019, che tuttavia al momento non dispone di questa capacità: dovrebbe raggiungerla nel 2025; ora arriva a 14 miliardi.

La Russia potrebbe dotarsi di ulteriori 50 miliardi di metri cubi annui di capacità di esportazione verso la Cina con l’avvio (eventuale: l’infrastruttura non c’è ancora) di Forza della Siberia 2, un gasdotto che attingerà alle stesse riserve nella penisola Yamal che riforniscono il Vecchio continente.

Se è vero che l’Europa potrebbe affrancarsi dal gas russo per il 2030 (secondo il piano REpowerEu: https://www.interregeurope.eu/news-and-events/news/repowereu-joint-european-action-for-more-affordable-secure-and-sustainable-energy), è altrettanto vero che la Russia potrebbe dirottare le mancate esportazioni dall’Europa al continente asiatico (Cina e India in testa). Attualmente, a Russia vende all’Unione europea 155 miliardi di metri cubi di gas all’anno, che potrebbero essere compensati da un aumento dell’export verso la Cina di quasi 100 miliardi metri cubi, a cui si potrebbero aggiungere un aumento dell’export verso l’India e il Pakistan (qui i dati).

Le sanzioni sul carbone e gli effetti perversi sulla transizione ecologica

Nell’ultimo pacchetto di sanzioni EU e Usa contro la Russia, è stato inserito anche il blocco dell’export del carbone. La Russia esporta carbone per un controvalore di 17,6 miliardi di dollari, pari al 6,2% del totale dell’export russo. Il blocco UE è del valore di circa 4 miliardi di dollari. Anche in questo caso, l’effetto sanzionatorio è molto limitato.

Ma ciò che occorre sottolineare è il peso del carbone russo (un carbone di alta qualità, non facilmente sostituibile) nel mix energetico dell’Europa.

Eurostat, l’ufficio di statistica europeo, incorpora il carbone nei “combustibili fossili solidi” che hanno registrato una tendenza al ribasso nell’Unione europea negli ultimi 30 anni e questo calo è accelerato dal 2018 in poi. Come riportato da La Repubblica, nel 2020 i combustibili fossili solidi, nel loro complesso, rappresentavano il 10,5% del mix energetico dell’Ue. Rispetto al petrolio e al gas naturale, i combustibili fossili solidi hanno un tasso di dipendenza totale dalle importazioni leggermente inferiore (il 34,8%), con la Russia che copre il 19,3% dell’uso di combustibili fossili solidi nell’Ue.

Occorre, tuttavia, scomporre tale dato e distinguere tra “carbone termico”, utilizzato per generare elettricità e calore (riscaldamento), e ‘carbone metallurgico’ utilizzato nella produzione di ferro e acciaio. Il carbone metallurgico russo rappresenta tra il 20% e il 30% delle importazioni di carbone dell’Ue, mentre la quota russa delle importazioni di carbone termico è quasi il 70% con Germania e Polonia che sono i paesi più dipendenti. Quest’ultimo tipo di carbone è quello a maggior qualità.

Negli ultimi anni, consumo e produzione di carbon fossile nell’Ue sono diminuiti, in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione. Tuttavia, secondo il think-thank europeo Bruegel, se da una parte l’Ue ha tagliato la produzione, dall’altra ha raddoppiato l’import passando dal 30% a oltre il 60% del consumo interno. Un po’ come per il gas, Mosca ha svolto un ruolo importante nel colmare il divario tra il consumo interno europeo e la produzione, con le importazioni in aumento da 8 milioni di tonnellate (7% delle importazioni totali dell’Ue) nel 1990 a 43 milioni di tonnellate (54%) nel 2020.

Sorge allora spontanea una seconda domanda: è conveniente rinunciare a una fonte energetica che per alcuni specifici usi (il riscaldamento a carbone) vede un tasso di dipendenza dalla Russia del 70% per bloccare un import di soli 4 miliardi di dollari?

Una possibile risposta sta nell’utilizzare l’emergenza della guerra per rallentare il processo di transizione ecologica, un tema che è già stato ridimensionato alla luce del problema della dipendenza del gas russo che impedisce di sfruttare a pieno le armi sanzionatorie della guerra economica perenne. Sempre più oggi si parla della necessità di rimettere in funzione le centrali nucleari, di accelerare la costruzione di nuovi gassificatori (come nel caso di Trieste), di riprendere le trivellazioni del gas naturale nella Pianura Padana e in Basilicata e Puglia. Si sa che la lobby delle armi è strettamente imparentata con la lobby dell’energia fossile. Che sia anche questo un possibile obiettivo non detto?

Conclusioni

Queste semplici note ci inducono a ritenere che difficilmente le sanzioni che bloccano il gas e il carbone russo avranno gli effetti desiderati, tali da costringere Putin alla via diplomatica, dismettendo quella militare. È invece molto più facile prevedere che gli effetti saranno assai pesanti per i cittadini e le cittadine italiani.

Perché allora tutto l’arco costituzionale (con poche eccezioni), con in testa Draghi e il Pd, e la maggior parte della stampa mainstream, continuano a dirci che non c’è altra soluzione?

Di sicuro c’è una componente ideologica egemonica: ribadire che non vi è alternativa alla scelta atlantista e al ruolo guida degli Usa, un ruolo che gli Stati Uniti hanno bisogno di riconfermare come non mai dopo i recenti fallimenti della loro politica internazionale.

In secondo luogo, risalta in modo imbarazzante l’inesistenza di un ruolo autonomo dell’Europa, che è il continente che ha tutto da perdere e nulla da guadagnare da queste sanzioni. Sul piano geo-politico, il probabile rafforzamento politico-economico tra Russia e Cina porterà a un ulteriore isolamento e indebolimento della politica non solo estera ma anche economica dell’Europa. Se infatti l’Europa poteva vantare una buona carta da giocare nelle relazioni geo-economiche, questa era proprio la sua forza economica, in grado di poter sviluppare sinergie positive con la Cina (via della seta), con la stessa Russia, per quanto riguarda l’interscambio tecnologico, e con il Maghreb. Ora tale possibilità sembra ridotta, con godimento degli Usa e del Regno Unito post-brexit.

In terzo luogo, è necessario che la logica della guerra prevalga sulla logica della diplomazia. Sanzionare la Russia, sapendo che queste sanzioni non metteranno fine alla stessa guerra, e, contemporaneamente, inviare armi sempre più sofisticate all’esercito ucraino, hanno lo scopo di allungare la tempistica della guerra – con ulteriori orrori e morti tra i civili giorno dopo giorno – e con l’effetto, da un lato di mantenere lo stato di emergenza, dall’altro, di continuare a poter lucrare extra-profitti per i settori bellici e occasioni speculative per i mercati finanziari.

Dopo la fiammata iniziale, i prezzi del petrolio e del gas si sono assestati su valori in linea con il periodo precedente il livello pre-guerra, ma gli aumenti dei prezzi al consumo non si sono arrestati, trainati anche dalla speculazione dei derivati futures sui beni di prima necessità e sulle stesse materie prime (dal grano ai minerali).

La conseguente erosione del potere d’acquisto dei redditi di lavoro sta già portando a un incremento della povertà e della precarietà e si sa che quando si è impegnati per la sopravvivenza, gli afflati di cambiamento e di conflitto rischiano di scemare.

Per questo, la “sinistra” dovrebbe avere a cuore esclusivamente la via diplomatica per mettere sul tavolo i nodi reali della crisi tra Russia e Ucraina, a partire dal riconoscimento dello Stato Ucraino, della sua volontà di entrare nella Comunità Europea, ma anche a partire dalla garanzia di neutralità del paese, dell’allontanamento della Nato dai confini russi e dal riconoscimento della parziale o totale autonomia delle regioni a maggioranza russa. Una soluzione diplomatica che non abbia né vincitori, né vinti.

Andrea Fumagalli

13/4/2022 http://effimera.org/

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