Il colonialismo d’insediamento in Palestina

Nel quartiere di Sheikh Jarrah, situato nella parte orientale della città di alQuds (Gerusalemme), a pochi chilometri a Nord della città vecchia, gli abitanti palestinesi stanno resistendo in questi giorni allo sgombero forzato dalle loro case. Da diversi anni, gruppi di coloni israeliani hanno cominciato a insediarsi nel quartiere, occupando alcune case o parti di esse, sfollando, già in diversi momenti (nel 2002, 2008 e 2017), 43 palestinesi. Negli anni Settanta, un gruppo di coloni ha registrato la terra del quartiere a nome proprio, nonostante negli anni Cinquanta fosse stata concessa dal governo giordano(che ha avuto giurisdizione sui Territori Palestinesi e sulla parte Est di Gerusalemme fino al ‘67) ai palestinesi che oggi la abitano da più di settant’anni e che erano già stati violentemente espulsi da altre città palestinesi nel ‘48. Dai primi anni 2000, i coloni hanno cominciato a esercitare sempre maggiori pressioni per appropriarsi del quartiere ed espellerne gli abitanti palestinesi, in uno scenario più ampio in cui le politiche dello stesso stato israeliano mirano a spingere fuori dalla città gli abitanti palestinesi: costruendo illegalmente ogni anno unità abitative per coloni a Gerusalemme Est, demolendo le case dei palestinesi e negando loro i permessi di costruzione.

Nelle immagini e nei video condivisi sui social media in questi giorni da parte degli abitanti del quartiere e dei solidali di altre zone della città (nonostante le limitazioni esercitate da parte di Facebook e Instagram rispetto a questi contenuti), irrompono continuamente, negli occhi di chi ha familiarità con l’archivio visivo della Nakba («catastrofe») palestinese, le memorie e le immagini dell’espulsione violenta dei palestinesi dalle loro case e terre tra il 1947 e il 1948 per mano di milizie armate sioniste.

Questa costellazione di immagini irrompe nel presente allargandosi mano a mano che lo sguardo si sposta sul territorio e tra i suoi spazi, e incontra, così, la marcia dei palestinesi solidali (provenienti da altre zone), che camminano a piedi verso Gerusalemme quando le strade del loro accesso alla città vengono chiuse; o quando ci si imbatte nella violenza israeliana su migliaia di fedeli in preghiera nella Spianata delle moschee e nella moschea di AlAqsa nelle notti e negli ultimi giorni del mese di Ramadan; oppure, ancora, quando vediamo le immagini di manifestazioni che rivendicano un momento di intifada palestinese che non solo si contrappone all’occupazione e colonizzazione, ma mette anche in discussione la leadership istituzionale palestinese e il suo tradimento della causa del popolo.

Immagini che si intrecciano e che si parlano, invertendo talvolta le rotte, e riattraversando dolori e memorie vive. Questo dialogo tra i corpi palestinesi che resistono nel tempo e nello spazio, tuttavia, non è una conversazione muta, ma rappresenta, piuttosto, quello che Walter Benjamin nelle sue Tesi sul concetto di storia definisce «appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra» in cui il rapporto tra passato, presente e futuro può essere ri-articolato. Le voci nelle piazze e nelle strade da Haifa a Ramallah, da Gerusalemme a Gaza utilizzano un linguaggio che possiamo, e dobbiamo, ascoltare se, semplicemente, riconosciamo quanto, eloquentemente, l’autrice e attivista indiana Arundhati Roy (nella sua Sydney Peace Prize Lecture, nel 2004) ci dice: «Non esistono i senza voce. Esistono solo coloro che vengono deliberatamente silenziati, o coloro ai quali si preferisce non ascoltare». I palestinesi oggi (e da tempo) parlano chiaramente di «colonialismo d’insediamento», termini che inseriscono nei canti e nei cartelloni, nella poesia e nella produzione artistica e culturale, nei contenuti condivisi sui social media e nel loro linguaggio di rivendicazione politica. Finché non si ascolta questa diversificata voce collettiva e non si riconoscono parole e conoscenze che derivano dall’esperienza vissuta e incarnata dei palestinesi in tutte le loro posizioni geografiche, non si può comprendere a pieno la complessità che tutti, così facilmente, dichiarano – solidali e oppositori della causa palestinese – nel descrivere la situazione del «conflitto israelo-palestinese».

Di conflitto si tratta, ma è necessario e fondamentale riappropriarsi di questo termine, ampiamente utilizzato invece, in questo contesto, in un’accezione simmetrica volta a obliterare la diseguaglianza delle posizioni e del potere. Una riflessione critica sul termine deve sottrarlo al linguaggio prettamente giuridico per recuperare il suo significato politico. Il conflitto è una relazione, che riguarda necessariamente delle questioni fondamentali attorno alle quali i soggetti lottano. Cade, qui, un’altra narrativa che si nasconde sotto al mantello della «neutralità», quella secondo la quale la situazione palestinese è complicata perché le parti, soprattutto quella palestinese, non sono capaci di trovare una soluzione: la narrativa dell’«irrazionalità». E invece qui c’è un conflitto che ruota attorno a una questione fondamentale, quella della giustizia – una questione per nulla astratta e che riguarda le condizioni materiali e i rapporti di potere all’interno dei quali i soggetti vivono. Se si riconosce che esiste una relazione conflittuale, ci si può interrogare sui nodi attorno ai quali questa si articola, e si può, quindi, riconoscere che esistono posizioni diverse e non equivalenti, che esistono dinamiche di potere e di esercizio della forza che generano l’oppressione di una parte nei confronti dell’altra: ci sono gli oppressi e gli oppressori, ed è attorno a questo rapporto che si articola la relazione conflittuale.

Riappropriarsi del termine «conflitto» e ri-significarlo nella riflessione sulla questione palestinese è necessario per riuscire a cogliere le dinamiche del presente accogliendo il linguaggio dei soggetti che vivono la condizione dell’oppressione, i palestinesi; e per riuscire a riconoscere, così, non solo la loro posizione di subalternità, ma anche la loro soggettività e agency, e cioè le loro capacità di articolarsi, di parlare e di agire, anche in modi diversi tra di loro, all’interno di questa relazione e nei loro contesti di vita.

La lotta palestinese per la liberazione si svolge negli spazi della quotidianità così come nei momenti che saltano all’attenzione pubblica internazionale e vengono narrati in un linguaggio che si dichiara neutrale ma che è carico, invece, di rappresentazioni orientaliste e islamofobe. Questa lotta, tuttavia, riguarda i rapporti di potere materiale e culturale che incidono sulle vite palestinesi, e che si articolano all’interno della «struttura» del colonialismo d’insediamento sionista (come lo definisce Patrick Wolfe), che fonda lo stato israeliano e lo forma in tutte le sue articolazioni e in tutti i suoi rapporti con i palestinesi.

Questo rapporto di continuità tra le condizioni di vita esperite dai palestinesi e le strutture del potere che perseguono attivamente l’annientamento e la sostituzione della popolazione palestinese autoctona con una popolazione di coloni provenienti da tutte le parti del mondo, è quello che i palestinesi descrivono e riconoscono collettivamente, oggi, come «an-Nakba al-mustamirra»: la «catastrofe in corso». È ciò che i palestinesi a Sheikh Jarrah stanno vivendo oggi, vedendosi spingere fuori dalle case che hanno costruito con le loro mani. Nel quartiere come a Gaza, e in tutte le città in cui in questi giorni si sono svolte manifestazioni e proteste, i palestinesi descrivono la Nakba, per questo, non più e unicamente come il momento tra il ‘47 e il ‘48 in cui decine di città palestinesi sono state occupate, più di 500 villaggi sono stati distrutti e 800 mila palestinesi sono stati espulsi con la violenza e la minaccia dalle loro case e dalle loro terre (come documenta anche il noto lavoro dello storico Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina), ma come un processo in corso, e una struttura politica ed economica che determina le loro vite e che si svolge a partire dagli inizi del XX secolo.

Riarticolare il lessico permette di guardare al presente e a ciò che sta avvenendo in questi giorni in una prospettiva che riconosce la complessità, ma non per utilizzarla come strumento di appiattimento e semplificazione. Il colonialismo di insediamento è un progetto politico che determina le vite dei palestinesi così come quelle degli odierni israeliani, e questo nodo va interrogato per riuscire a pensare e realizzare la giustizia in questo contesto.

Durante le proteste a Sheikh Jarrah, una musicista palestinese lì presente in solidarietà con gli abitanti del quartiere è stata arrestata. Le videocamere e gli smartphone hanno ripreso la violenza con cui è stata trascinata a terra, tirata per il suo hijab da un soldato e poi ammanettata e fatta sedere a terra vicino alla jeep militare. Lì seduta, Mariam Afifi è stata ripresa mentre parla a un soldato in piedi davanti a lei: «Perché sono stata arrestata? Perché stavo aiutando una ragazza che veniva picchiata?», e poi aggiunge: «No, io so che sei un essere umano. Avrai una famiglia e dei figli. Vuoi che i tuoi figli crescano difendendo la parte sbagliata? Difendendo gli oppressori? È questo ciò che volevi diventare da giovane? […] Quando eri un bambino, e facevi grandi sogni, era questo ciò che volevi? Essere dalla parte degli oppressori?».

Nonostante, alcuni giorni fa, la deliberazione del tribunale israeliano sia stata rimandata di un mese, i coloni e i soldati hanno continuato ad attaccare le manifestazioni pacifiche nel quartiere. Gli abitanti di Sheikh Jarrah però continuano a resistere: «Vi invitiamo tutti a fare presenza quotidianamente nel quartiere. Le nostre case sono le vostre e abbiamo tutti un’unica causa», dice Muna ElKurd, ed è una causa di liberazione.

Tamara Taher è dottoranda in Mutamento sociale e politico all’Università degli studi di Firenze e all’Università degli studi di Torino. Si occupa di teoria politica, intellettuali, cultura materiale e decolonizzazione attraverso una lente gramsciana. 

14/5/2021 https://jacobinitalia.it

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