Il confine bosniaco e il caso Frontex

Due eventi concomitanti stanno agitando nelle ultime settimane gli ambienti felpati e spesso sonnacchiosi delle istituzioni europee preposte alla gestione delle migrazioni e alla protezione dei rifugiati. Il primo riguarda la penosa situazione dei profughi bloccati in Bosnia, ai confini dell’Unione, e ridotti a vivere all’addiaccio, nei boschi o in ricoveri di fortuna dopo che un incendio ha distrutto il campo di Lipa, allestito con i fondi dell’UE. Si tratta di circa 3000 persone – perlopiù migranti provenienti da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Molti di essi sono stati respinti dall’UE con procedure sbrigative e, secondo quanto sta emergendo, probabilmente illegali. La stessa Italia è coinvolta. Da Trieste sono stati ordinati respingimenti di profughi verso la Slovenia, che poi li trasferisce in Croazia, che a sua volta li ricaccia in Bosnia, da cui erano riusciti a filtrare.

Tra l’inizio dell’anno e la metà di novembre del 2020 le autorità italiane hanno infatti rimandato in Slovenia 1.240 persone (il 420% in più rispetto al 2019: dati Altreconomia, ripresi da ISPI), poi respinte a catena fino al confine bosniaco. Sono le cosiddette riammissioni attive effettuate dalla polizia di frontiera a Trieste e a Gorizia, che il governo ha finalmente rivelato. Come in una specie di drammatico gioco dell’Oca, i profughi vengono rispediti alla casella di partenza. Le persone coinvolte tra loro lo chiamano “the game”: è la roulette dei tentativi di raggiungere i paesi interni dell’UE, molto spesso a piedi, nella speranza che le promesse di tutela dei diritti umani riguardino anche loro.

Non lascia però spazio a molto ottimismo il Libro Nero dei respingimenti, un rapporto di 1.500 pagine pubblicato nel novembre del 2020 dal Border Violence Monitoring Network, frutto di quattro anni di lavoro, in cui sono state raccolte 892 testimonianze e documentata l’esperienza di 12.654 vittime di violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica. La Croazia è il punto più critico di una vicenda che si è consumata a lungo ai confini dell’UE in una sostanziale indifferenza. Lì i migranti vengono sistematicamente picchiati, derubati e ricacciati oltre il confine con la Bosnia. Soltanto tra gennaio e novembre del 2020, il Danish Refugee Council ha registrato 15.672 respingimenti dalla Croazia, classificandone come “violenti” il 60%.

Le istituzioni dell’UE accusano le autorità bosniache di non aver approntato soluzioni idonee all’accoglienza dei profughi, nonostante i finanziamenti ricevuti da Bruxelles. Per il tormentato paese balcanico, 16.000 ingressi in un anno sono presto diventati ingestibili. Non sta più funzionando la collaudata strategia dell’esternalizzazione degli obblighi di accoglienza e protezione umanitaria attuata con successo dall’UE (dal proprio punto di vista) su altre rotte di transito, sussidiando e convincendo paesi come Turchia, Niger e persino Libia, affinché accolgano i richiedenti asilo che l’UE non vuole lasciar entrare nel proprio territorio. Questa volta invece al confine bosniaco i sussidi economici non sono bastati a oliare la macchina di una pur precaria accoglienza: le popolazioni locali hanno inscenato proteste e bloccato i tentativi di approntare soluzioni alternative per porre rimedio alla chiusura del campo di Lipa. In altri termini, hanno imitato le dimostrazioni di ostilità verso i profughi che si sono verificate anche nel nostro paese. In Bosnia comunità locali gravate da povertà, disoccupazione, emigrazione dei giovani si sono sentite chiamare da poteri esterni, lontani e assai più ricchi, a farsi carico dell’accoglienza di gente più sfortunata e bisognosa di loro. Il fatto che queste comunità non siano obbligate a trarre dai loro fondi le risorse per l’accoglienza, ma al contrario ricevano aiuti, non è bastato a convincerle.

L’esternalizzazione degli obblighi di protezione richiede non solo finanziamenti e pressione politica, ma anche comunità locali disposte a tollerare, tra alti e bassi, l’insediamento di profughi che non se ne andranno in breve tempo, e chiederanno di accedere a sanità, educazione, mercato del lavoro. Visto dalla prospettiva della crisi bosniaca, è quasi un miracolo il fatto che da anni in Libano, in Giordania e in Turchia le popolazioni locali si siano adattate alla convivenza con numeri di profughi assai superiori a quelli accolti in Europa, in valore assoluto e in percentuale: 134 ogni 1.000 abitanti in Libano, 69 in Giordania, 43 in Turchia, contro 25 per la Svezia, 14 per la Germania e 3,4 per l’Italia (dati UNHCR).

Dunque la colpevolizzazione delle autorità bosniache in realtà nasconde il disappunto per la falla che si è aperta in uno scaricabarile finora riuscito, e che sta ora compromettendo la strategia dell’UE: mantenere le mani pulite, esibendo un formale rispetto dei diritti umani, ma in realtà delegare ad altri sia l’accoglienza, sia eventualmente il lavoro sporco del trattenimento dei profughi. Un altro colpo alla credibilità dell’UE proviene dai metodi adottati dalla polizia croata, e probabilmente anche da parte di milizie locali auto-organizzate: addebiti fin qui negati, ma confermati da ONG, giornalisti coraggiosi, vittime intervistate e fotografate con i segni sul corpo delle violenze subite.

Il secondo evento chiama in causa Frontex, l’agenzia dell’UE preposta al monitoraggio delle frontiere esterne. Anche su questo versante la credibilità dell’UE sta subendo seri contraccolpi. Il progressivo aumento del mandato operativo di Frontex e del budget relativo è un tipico esempio della crescita pressoché inarrestabile dell’industria del controllo dei confini, ossia di quel complesso di operatori pubblici, aziende private, produttori di tecnologie, che hanno costruito le loro fortune sulla domanda di sicurezza e di contrasto dell’immigrazione non gradita. Un’industria che si nutre della percezione di un’invasione alle porte, di un Nord del mondo sotto assedio, di un’onda montante di migrazioni fuori controllo. Non stupisce quindi che il budget di Frontex si sia moltiplicato nel volgere di pochi anni, passando da 6,3 milioni di euro nel 2005 a 333 milioni nel 2019, a 1,1 miliardi quest’anno, fino a 1,9 miliardi nel 2025: una dotazione senza pari nella storia delle agenzie Ue (Il Sole-24 Ore). Va ricordato che fu proprio un documento di Frontex fatto filtrare alla stampa, e seguito da alcune dichiarazioni del direttore Fabrice Leggeri, a innescare la campagna di criminalizzazione delle ONG impegnate nei salvataggi in mare. Oggi però sono Frontex e Leggeri ad essere finiti sotto inchiesta: un po’ tardivamente l’UE sembra essersi accorta che Frontex, dotata di elicotteri, droni, unità navali, collaborava ai respingimenti illegali nel Mediterraneo Orientale e a quanto pare anche in Bosnia, mettendo in pericolo l’incolumità delle persone coinvolte. Di certo l’agenzia non si è mai dotata dei 40 osservatori incaricati di controllare il rispetto dei diritti umani, che secondo il proprio regolamento avrebbe dovuto assumere. Ad aggiungere una nota di malcostume a un bilancio poco trasparente, sono emerse spese per feste ed eventi a carico dell’Agenzia pari a 2,1 milioni di euro in cinque anni. Quasi la controprova dello strapotere acquisito da un’agenzia che nessuno controllava, tanta era l’importanza politica attribuita alle sue funzioni. Ora sta indagando l’OLAF, l’Ufficio anti-frode dell’UE.

Le conclusioni da trarre da queste vicende sono almeno tre. In primo luogo, c’è una catastrofe umanitaria da scongiurare ai confini dell’UE. In secondo luogo, Frontex va ridimensionata, soggetta a regole tanto chiare quanto stringenti, monitorata con un’attenzione per troppo tempo carente. Terzo e più impegnativo punto, l’intera politica dell’asilo dell’UE va ripensata e riportata all’altezza dei principi umanitari inscritti nella sua costituzione.

Maurizio Ambrosini

1/2/2021 https://welforum.it

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