Il confine che uccide
Se ne parla molto poco, ma anche lungo la rotta balcanica, che da anni è la principale via di accesso dei migranti in Italia, si muore per colpa delle politiche di respingimento e della militarizzazione della frontiera
Èa partire dalla fine del 2017 che il flusso delle persone in movimento per le rotte dei Balcani ha cominciato a interessare in maniera sempre più consistente la Bosnia-Erzegovina. Se all’inizio del 2018 la via di accesso principale passava dal Montenegro e prima ancora dalla Grecia e dall’Albania, già qualche segnale di quella che sarebbe poi diventata la via più utilizzata dal 2019 lo si registrava lungo le rive del fiume Drina, al confine tra Serbia e Bosnia-Erzegovina.
Uno degli indicatori di questi attraversamenti, sicuramente il più tragico, è il ritrovamento di corpi riemersi dalle acque della Drina, già considerata una delle più grandi fosse comuni delle guerre degli anni Novanta. E sin dai primi mesi del 2018 nell’area di Zvornik e poi a giugno in quella di Bratunac, ci sono stati rinvenimenti e conseguenti sepolture di persone di cui non si conoscono le identità, le provenienze, le storie. Rimangono senza nome. NN (o HH in cirillico) è il simbolo che appare sulle loro lapidi.
Nel 2017 e 2018, con un progetto di monitoraggio lungo la rotta balcanica – collaborazione tra i Comitati Arci Bolzano-Bozen, Arci del Trentino e l’associazione Lungo la rotta balcanica di Venezia – avevamo incrociato la storia di Madina Hussiny – trattata come un cane – morta a 6 anni nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2017, travolta da un treno in transito dopo un respingimento da parte della polizia croata al confine Serbia-Croazia tra Šid e Tovarnik. Dopo vari tentativi da parte della Croazia di insabbiare il caso, nel 2021 la Corte Europea per i diritti dell’uomo ha confermato le responsabilità croate per aver infranto gli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 34 della Convenzione.
Siamo riusciti a ritornare lungo la rotta balcanica nel 2023 e all’inizio del 2024 per tre missioni di monitoraggio e la situazione dei morti per colpa dei confini è grave. In Italia se ne parla pochissimo. Queste persone in movimento sono morte per colpa delle politiche europee di respingimento, esternalizzazione e militarizzazione dei confini. Non se ne parla perché se il risultato dell’approccio europeo alle politiche sui flussi migratori produce dei morti – oltre che sistemi concentrazionari e costruzione di barriere, muri e fili spinati finanziati dall’Unione europea nei paesi limitrofi – dovremmo tematizzare le responsabilità – individuali e collettive – che ci si assume nel sostenere politiche di questo genere che producono la perdita di vite umane.
Alcune associazioni, attivistə, volontariə e ricercatorə della Croazia, Bosnia-Erzegovina e Serbia si stanno occupando del tema perché il numero delle salme negli obitori di confine e delle sepolture frettolose, inadeguate e indegne è in continuo aumento. La tomba di Madina a Šid, per esempio, è stata sistemata dignitosamente ed è diventata un luogo della memoria per quella parte di società civile croata e serba che vuole sollevare una discussione sulle responsabilità europee per le morti ai confini e tenere il punto sulla denuncia delle violazioni dei diritti umani e dei Trattati e Convenzioni internazionali sul diritto di asilo.
No Name | No Nation | Not Necessary | No Noise. Invisibilizzati come persone in movimento nella categoria di migranti o peggio di clandestini. Resi ancora più invisibili da morti.
Grazie all’associazione Lungo la rotta balcanica abbiamo conosciuto Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da alcuni anni è uno dei riferimenti della primissima accoglienza per le persone in movimento che passano di là. Nihad, con il sostegno di SOS Balkanroute di Vienna, Lungo la rotta balcanica e Arci Bolzano-Bozen, sta facendo un lavoro incredibile per dare dignità alle persone morte lungo quella rotta, in particolare sui confini fluviali tra Serbia e Bosnia-Erzegovina. Ci ha accompagnati nei cimiteri di Bijeljina, Zvornik e Loznica dove esistono intere sezioni di lapidi senza nome – NN. Abbiamo documentato anche il cimitero di Bihać all’estremo opposto nord-occidentale della Bosnia-Erzegovina, altro punto caldo del flusso di persone in movimento lungo la rotta balcanica. Altro cimitero di senza nome.
Le tombe – NN – dei cadaveri ripescati dalla Drina sono letteralmente buttate lì in qualche modo nei cimiteri di confine. «Sto cercando di dare una sepoltura dignitosa a queste persone. Con una piccola lapide, in modo che rimanga un segno. Queste tombe senza nome peseranno sulla nostra coscienza prima o poi e bisogna preservarne la memoria», dice Nihad.
Nihad Suljić, insieme a Senad Pirić, sono i due punti di riferimento della primissima accoglienza a Tuzla, città della Bosnia nord-orientale, significativa per ragioni logistiche, riguardo alla rotta bosniaca. Con varie intensità la città è stata un Hot-spot perché è il primo centro urbano consistente – ha circa 110.000 abitanti – che le persone in movimento incontrano dopo aver attraversato il confine fluviale della Drina tra Bosnia-Erzegovina e Serbia, percorrendo la rotta bosniaca «alta». Inoltre, come città capoluogo di Cantone, garantisce trasporti pubblici con tutto il resto della Bosnia-Erzegovina e quindi possibilità di proseguire il viaggio verso l’Unione europea.
Nihad e Senad, esponendosi in prima persona con ripercussioni dirette sulle loro persone e carriere, hanno portato avanti una micro-rete di solidarietà umana – e politica – verso esseri umani in situazioni di difficoltà. Nihad in particolare è molto mobile e presidia tutti i punti caldi del confine tra Bosnia-Erzegovina e Serbia ed è un preziosissimo conoscitore del microcosmo di luoghi formali e informali dove si svolge la vita e la morte delle persone in movimento lungo la tratta finale della rotta balcanica.
Il lavoro che ha iniziato a fare Nihad ha a che fare con Srebrenica. Non tanto per il suo legame famigliare con la «Città dell’argento», teatro del primo genocidio in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Lui è di Tuzla. Ma la storia di Srebrenica è inglobata nel tessuto di Tuzla e Nihad è cresciuto vedendo le Donne e Madri di Srebrenica – come le madri di Plaza de Mayo – che ogni 11 del mese, da dopo luglio del 1995, presidiano la piazzetta davanti alla Moschea bianca di Tuzla con un cordone di fazzoletti ricamati con i nomi delle persone uccise e scomparse nel genocidio. A distanza di trent’anni ne mancano ancora un migliaio all’appello e questo è un trauma individuale e collettivo per una comunità che non riesce a chiudere i conti con il passato.
Nihad, nella mappatura e presa di coscienza dello stato indegno del trattamento dei resti mortali delle persone morte lungo il confine fluviale della Drina, ha iniziato un lavoro che SOS Balkanroute, insieme a Lungo la rotta balcanica e Arci Bolzano-Bozen, sostengono e abbia a che fare con il tema della dignità della persona – le tombe NN sono insostenibili come urlo in faccia alla nostra coscienza – e con il tema della memoria.
Memoria, perché la frettolosa approssimazione dei seppellimenti «dovuti» di corpi riemersi dalla Drina – spesso ributtati a calci nella corrente dai pescatori per evitarsi fastidi con le procedure di polizia – e che toccano ad amministrazioni comunali che ne farebbero volentieri a meno, risultano in segni provvisori, di legno, buttati alla meno peggio ai margini dei cimiteri delle cittadine interessate e che sono destinati a deteriorarsi con il tempo. E a sparire nell’oblio, dietro il muro di indifferenza costruito sui confini dell’Unione europea.
Il tema della dignità della persona ha a che fare con la ricerca da parte dei famigliari delle persone scomparse. C’è una rete internazionale sui Social, di famiglie afghane, curde, pakistane, ecc, che dopo un certo periodo di tempo che non hanno più notizie dei loro cari in movimento lungo la rotta balcanica, iniziano a chiedere informazioni. Nihad è riuscito a interagire con il servizio di medicina legale di Bijeljina, quello di riferimento per la Bosnia nord-orientale e ad aprire un dialogo, non scontato, con il Centro di Identificazione di Tuzla – l’Icmp-Pip, che si occupa del riconoscimento attraverso la tecnica dell’analisi del dna, delle vittime del genocidio di Srebrenica – e riesce a far depositare campioni di resti umani in modo che rimanga una traccia di possibile identificazione delle identità, dei nomi, di queste persone morte per colpa delle politiche europee sui diritti umani dei richiedenti asilo.
Pochi giorni fa ricorreva l’anniversario della strage di Cutro. Per le vie dei Balcani non sono ancora successe tragedie analoghe, con centinaia di persone che muoiono nello stesso istante. Lungo la rotta balcanica è in atto uno stillicidio di morti silenziose. Che dovrebbero urlare sulle coscienze di chi sostiene queste politiche.
Diego Saccora, operatore sociale, già tutore legale di minori stranieri non accompagnati all’interno del sistema di accoglienza del Comune di Venezia. Ha vissuto e operato nei centri di accoglienza formali e informali in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani. Esperto in rotte migratorie, riferimento formativo per reti e associazioni interessate al tema del monitoraggio delle violazioni dei diritti umani delle persone richiedenti asilo e in transito.
Andrea Rizza Goldstein, formatore e coordinatore dei progetti di cittadinanza Ultima fermata Srebrenica, Promemoria_Auschwitz e On the Road – sulle rotte dei migranti, per Arci e Arciragazzi Bolzano-Bozen. Referente del partenariato tra il Memorial Center Srebrenica e Arci Nazionale. Esperto di ex-Jugoslavia, autore di numerosi reportage, pubblicazioni e mostre fotografiche.
4/3/2024 https://jacobinitalia.it/
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