Il conflitto in Medio Oriente: la variabile “impazzita” del gas

Certamente sarebbe sbagliato dire che il conflitto mediorientale, che trae origine dalla questione palestinese e dalla fondazione dello stato di Israele, possa essere ascrivibile a una questione meramente economica, come è appunto la guerra energetica in corso e che ha la finalità di cambiare (a vantaggio di chi l’ha fatta esplodere) la gravità della competitività mondiale; ogni riferimento agli USA che vogliono, tra l’altro, far fuori la concorrenza europea sui mercati mondiali affamandola di energia, non è certamente casuale. 

Possiamo fare questo ragionamento sull’energia sulla scorta del fatto che le guerre contemporanee – soprattutto se coinvolgono le potenze nucleari – non hanno mai l’obbiettivo di distruggere e annichilire l’avversario fino alla completa capitolazione, ma piuttosto quello di raggiungere una gradazione di obbiettivi o direttamente durante la fase armata del conflitto, o immediatamente dopo, attraverso le comunque inevitabili trattative di pace.

Innanzitutto diciamo che dal punto di vista energetico vi è un immediato collegamento tra la “guerra dei tubi” che in qualche modo è in corso da anni nel Quadrante caucasico [Si veda il mio articolo precedente (1)] e quella che rischia di deflagrare nel Quadrante Mediorientale: l’80% del fabbisogno petrolifero di Israele viene soddisfatto attingendo dai pozzi dal Caucaso, e più precisamente quelli dell’Azerbaijan e poi viene trasportato attraverso un corridoio energetico che parte dall’Azerbaijan, continua attraverso la Georgia, sbocca in Turchia e da qui dal porto di Ceyhan viene stivato su petroliere che fanno rotta verso i porti di Israele.

Immagine 1: Corridoio petrolifero Caucasico-Anatolico diretto verso Israele

C’è immediatamente un fatto che salta agli occhi osservando la rotta di questo corridoio energetico fondamentale per lo stato di Israele: i due paesi più importanti, ovvero l’Azerbaijan, che è il paese d’origine, e la Turchia, paese di transito inaggirabile, sono entrambi due paesi mussulmani e dunque in teoria sarebbero due paesi schierati con la Palestina e contro lo stesso Israele. Come si può vedere gli affari mettono le visioni ideologiche in una posizione di secondo piano, o almeno, così è stato fino ad ora. Poi certamente vedremo cosa accadrà in futuro soprattutto se l’attuale assedio di Gaza City, messo in campo da Israele, dovesse trasformarsi in un conflitto di vaste proporzioni.

Certamente, possiamo dire che la chiusura del corridoio petrolifero caucasico se fosse posto in essere dalla Turchia (l’Azerbaijan, pur essendo un paese a maggioranza islamica ci pare avere una élite al potere molto pragmatica e non ideoligicizzata) comporterebbe un durissimo colpo per l’economia israeliana e probabilmente spetterebbe agli alleati europei e a Washington il compito di rifocillare di petrolio Tel Aviv per le sue esigenze. Un vero guaio questo per l’Europa già di suo affamatissima di energia.

Immagine 2: giacimenti di gas nell’EastMed

Per quanto riguarda la produzione di petrolio di Israele, è da considerarsi del tutto marginale visto che è equivalente a circa 6000 barili di petrolio al giorno (a fronte a circa 230mila barili/giorno consumati); ci sarebbero invece molto shale oil, ma dal punto di vista ambientale il costo sarebbe enorme per un paese piccolo e densamente popolato. Diverso è invece il discorso per quanto riguarda il gas: a partire dall’inizio del millennio sono stati trovati enormi giacimenti in  tutto l’ EastMed (quelli maggiori si chiamano Leviathan e Tamar). Risorse energetiche  queste, che si trovano sia nella zona di sfruttamento economico esclusivo dello Stato di Israele che in quella di Cipro che in quella greca. Comunque i tre paesi si sono accordati per un progetto di sfruttamento congiunto che peraltro prevede la costruzione del solito tubo off-shore immancabilmente diretto verso l’Europa (attraverso l’Italia, of course). Si tratta del progettato gasdotto EastMed che dovrebbe partire dai pozzi israeliani e ciprioti per continuare attraverso una condotta prima sottomarina e poi sulla terra ferma in Grecia, per poi riconnettersi al TAP  (Trans-Adriatic Pipeline) e arrivare dunque fino all’Italia e all’Europa.

Immagine 3: Il percorso del gasdotto EastMed

Un opera mastodontica e costosa questa ma assolutamente fondamentale per garantire quella sicurezza energetica ormai persa dall’Europa a causa della guerra russo-ucraina, peraltro sapientemente istigata dal Dipartimento di Stato USA (ricordate la Nuland a Piazza Majdan che urla “Fuck the EU”?) proprio per far perdere competitività all’Europa aumentandole i costi dell’energia.

E’ chiaro che una deflagrazione del conflitto israelo-palestinese fino a trasformarsi in una enorme guerra regionale metterebbe in stand-by qualsiasi progetto di sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale e ancor di più di sua commercializzazione nei mercati europei. Questo lascerebbe ancor di più l’Europa in carenza di energia anche in prospettiva e soprattutto non darebbe quella sicurezza degli approvvigionamenti così necessari all’attività economica. Ipotesi questa – riportata dal New York Times – che secondo l’intervistato Gregory Daco, capo economista della EY-Panthenon (un dipartimento del gruppo Ernst&Young), potrebbe portare ad un forte aumento dei prezzi del petrolio fino alla cifra siderale di 150 dollari al barile e conseguentemente a perdite per l’economia globale fino a 2 trilioni di dollari. Della stessa idea – sempre per quanto riporta il NYT – sono il capo economista della Banca Mondiale, Indermit Gill, e il direttore del Center for Global Energy Policy della Columbia University, Jason Bordoff (2).

Certo, le previsioni degli economisti sono spesso influenzate dalle posizioni ideologiche degli stessi e conseguentemente dalla scelta del modello econometrico utilizzato ma non vi è dubbio che una deflagrazione di una guerra globale in Medio Oriente avrebbe conseguenze devastanti per l’economia mondiale proprio a causa dell’aumento dei prezzi del petrolio. E’ da sottolineare che nel caso in cui si arrivasse addirittura ad un blocco dello Stretto di Hormuz a subire danni ingenti sarebbe anche la Cina che ottiene grossi approvvigionamenti energetici dai paesi del Golfo Persico a partire proprio dall’Arabia Saudita. Non pare azzardato peraltro ipotizzare che invece gli USA, che hanno l’indipendenza energetica, dovrebbero invece subire delle conseguenze maggiormente gestibili dalla deflagrazione di una crisi energetica su vasta scala; questo certamente a differenza dei suoi maggiori competitor nei mercati mondiali, l’Europa, la Cina e il Giappone largamente dipendenti dalle importazioni energetiche.

Certamente il conflitto in questo quadrante mediorientale non può essere visto esclusivamente in chiave economica ed energetica, considerando che in queste terre si intrecciano dispute plurisecolari dovute a motivi religiosi e politici, ma anche questa particolare angolazione “energetica” può aiutare a comprendere importanti snodi che rischiano di delinearsi in questo drammatico frangente.

NOTE

(1) L’AntiDiplomatico, La guerra dei tubi del Gas nel Quadrante Est, 30 Ottobre 2023

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_guerra_dei_tubi_del_gas_nel_quadrante_est/29296_51376/

(2) New York Times, Risk of a Wider Middle East War Threatens a ‘Fragile’ World Economy, 2 Febbraio 2023 Link: https://www.nytimes.com/2023/11/01/business/economy/israel-gaza-war-global-economy.html

Giuseppe Masala

3/11/2023 https://www.lantidiplomatico.it/

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