Il crash informatico è un fatto politico
Il collasso digitale causato da Crowdstrike non è stato un semplice malfunzionamento tecnico: ha rivelato l’influenza senza precedenti delle piattaforme
La giornata del 19 Luglio 2024 è già passata alla storia come il più grande collasso informatico di sempre. Gli incubi del millennium bug sono diventati realtà in una giornata che ha scosso l’intero ordine sociale. Gli aeroporti di tutto il mondo sono andati in tilt. Nella sola giornata del 19 Luglio sono oltre 5.000 i voli cancellati, e quasi 50.000 quelli che hanno subito ritardi, con compagnie come Ryanair costrette a fare i check-in «a mano». Ritardi significativi hanno colpito anche le tratte ferroviarie, soprattutto quelle dei treni ad alta velocità (suscitando però assai meno sgomento da parte di passeggeri evidentemente abituati a ritardi astronomici). Ma non sono solo i trasporti a essere andati in tilt. Malfunzionamenti sono stati registrati anche nelle attività bancarie del nostro paese e altrove; persino i supermercati e le altre attività commerciali hanno avuto difficoltà nei pagamenti elettronici. Blocchi sono stati registrati anche nella sanità nel Regno Unito e in alcuni ospedali della Germania, dove non solo non è stato possibile gestire le prenotazioni, ma in molti casi è stato necessario rimandare interventi chirurgici a causa dell’impossibilità di utilizzare le strumentazioni digitali di ultima generazione. Elon Musk, eccentrico proprietario di X e di Tesla, ha prontamente «twittato» che il crash informatico ha impattato in modo significativo anche sulle filiere dell’automotive, con ritardi che rischiano di aggravare la già precaria situazione del settore.
La parte peggiore, però, è che non ci sarà una ripresa rapida. Questo non solo perchè ci vorrà del tempo per smaltire gli ordini, le prenotazioni, i viaggi e gli interventi chirurgici saltati in questi giorni, ma sono milioni i PC che avranno bisogno di un intervento manuale per essere «riparati». Per quanto il peggio sembra ormai passato, le più grandi preoccupazioni riguardano il futuro. In questa prospettiva appare particolarmente calzante il paragone con la recente pandemia da Covid-19 compiuto da Nigel Shadbot, docente di scienze informatiche dell’Università di Oxford. Non solo ci vorrà diverso tempo per recuperare ai danni del crash informatico del 19 Luglio, ma in una società sempre più digitalizzata, resta alto il rischio che avvenimenti come quello di qualche giorno fa si possano ripetere in futuro.
L’insicurezza della cybersicurezza
Alle prime notizie del crash informatico in molti erano pronti a gridare all’attacco hacker, ma non è andata così. Paradossalmente il responsabile è stato l’ultimo aggiornamento di Falcon, uno dei più noti programmi di cybersecurity diffusi da CrowdStrike, che, a causa di un errore di programmazione, è entrato in conflitto con i sistemi operativi di Microsoft restituendo la celebre schermata blu che segnala gli errori di sistema. Come è accaduto per i nostri organismi infetti dal Covid-19, la risposta immunitaria di Falcon ha finito per uccidere il suo ospite, determinando un collasso generale di tutti i dispositivi Windows su cui è stato installato l’aggiornamento di Falcon. C’è qualcosa di ironico in questo: un programma pensato per prevenire attacchi informatici ha finito per generare conseguenze assai più significative di qualsiasi attacco hacker visto fino a ora.
Per comprendere a fondo le ragioni di questo paradosso vale la pena aprire una parentesi sul ruolo della cybersecurity nell’economia globale. Nell’era del capitalismo digitale, infatti, questa rappresenta una componente fondamentale, eppure ancora largamente trascurata dagli studiosi. Proteggere i cloud dalla fuga di dati, vero e proprio petrolio dell’economia mondiale, rappresenta un elemento imprescindibile per le imprese – digitali e non – del nostro tempo. I lettori di Jacobin sicuramente ricorderanno la sorprendente scelta di Elon Musk di far rientrare in sede tutti i dipendenti di X immediatamente dopo la pandemia. Una scelta sorprendente considerando l’aura futurista che circonda il miliardario statunitense – peraltro proprio nel momento in cui il futuro del lavoro sembrava orientato verso una sempre maggiore remotizzazione – ma che può essere compreso proprio a partire dalla necessità di proteggere al meglio i propri dati. Cosa resterebbe di X – o di qualsiasi altro social network – se qualcuno ne rubasse l’imponente archivio di dati? Non sorprende quindi che la cybersecurity sia una voce di costo sempre più significativa nei bilanci aziendali, così come non sorprende se molte aziende all’indomani della pandemia abbiano richiesto ai propri dipendenti di rientrare nelle sedi lavorative invece che dar luogo agli scenari immaginifici della remotizzazione del lavoro. Se il futuro del lavoro non è stato quello della remotizzazione è stato quindi anche per una questione di cybersecurity e dei suoi costi.
Tornando a Crowdstrike, si tratta di una delle più note e ricche aziende di cybersecurity al mondo. Fondata nel 2011 da due ex dipendenti di McAfee – marchio protagonista di una delle più celebri produzioni di antivirus tra la fine dei ‘90 e i primi anni del 2000 – negli ultimi anni è divenuta una delle più grandi aziende al mondo. Prima della giornata del 19 Luglio, nel quale ha perso in un solo giorno ben il 13% del suo valore, Crowdstrike faceva registrare infatti una capitalizzazione di ben 80 miliardi di dollari. Non sorprende quindi che molte aziende, pubbliche e private, si siano rivolte ai servizi di cybersecurity offerti da CrowdStrike per proteggere i propri dispositivi digitali. Un comportamento che però ha finito paradossalmente per amplificare l’impatto del bug. Peraltro, è curioso notare che non è la prima volta che CrowdStrike diviene nota nella cronaca internazionale. Tra i servizi offerti dalla società statunitense vi è infatti anche uno dei più noti servizi di investigazione privata nei casi di furto dei dati. Nel 2015, fu CrowdStrike a collegare un attacco informatico subito da Sony Pictures direttamente agli hacker della Corea del Nord. Probabilmente, però, il caso più noto fu nel 2016, quando la Commissione Nazionale dei Democratici Usa ingaggiò CrowdStrike per investigare sul furto dei dati avvenuto ai danni del partito americano l’anno prima. L’indagine, come è noto, si concluse con l’evidenza di un coinvolgimento russo volto a favorire l’ascesa di Donald Trump alla casa bianca.
I malfunzionamenti tecnici non esistono
Il collasso informatico del 19 Luglio non mette in evidenza soltanto la fragilità dell’economia digitale, ma anche la centralità assunta dalle multinazionali del digitale all’interno della nostra società. Molto più di quanto accadeva per le aziende di Ford, la capacità di queste aziende di influenzare l’ordine sociale è senza precedenti. In questa prospettiva, le piattaforme digitali assumono tratti che vanno oltre quelli delle tradizionali corporation per come le abbiamo conosciute fino a ora. I processi di digitalizzazione che hanno accompagnato l’ascesa delle piattaforme, non sono infatti neutri, né si tratta di una semplice traduzione in digitale di ciò che era analogico. Essi impongono nuovi standard, definiscono nuove metriche e scale del valore che ridisegnano le relazioni sociali in favore di un crescente rapporto di dipendenza nei loro confronti. In questo senso, più che un nuovo modello di business, le piattaforme digitali stanno quindi emergendo sempre di più come le infrastrutture del nostro tempo. Come ho avuto modo di argomentare nel libro curato da Vando Borghi e Emanuele Leonardi dal titolo Il sociale messo in forma. Le infrastrutture come cose, processi e logiche della vita collettiva (Orthotes, 2024, scaricabile in open access qui), ciò non vuol dire semplicemente che occupano una posizione centrale nella nostra società, intermediando una serie crescente di attività economiche e sociali, ma sembrano essere dotate di un proprio «potere infrastrutturale» solitamente attribuito agli attori pubblici. Riprendendo la categorizzazione di Michael Mann, a differenza del potere dispotico – solitamente incarnato nelle forze dell’ordine e nella capacità dello stato di sanzionare chi violi le sue leggi – si tratta di un potere largamente invisibile, ma non per questo meno efficace. Il paradosso delle infrastrutture è infatti proprio quello di restare invisibili, di trasformarsi nel semplice sfondo sul quale la realtà sociale prende forma. Se cerchiamo una grande infrastruttura probabilmente non la troveremo, non ci interroghiamo sulle reti elettriche che alimentano le luci delle nostre case o delle tubazioni idriche che fanno arrivare l’acqua nei nostri rubinetti. Ma è proprio quando non siamo in grado di vedere l’imponente influenza che le infrastrutture esercitano sulla nostra vita che ci troviamo nel centro del loro potere. Esso paradossalmente si rivela soltanto nel momento in cui collassa, quando smette di esercitare la sua influenza, minando la tenuta dell’ordine sociale e mettendo in luce il grado di dipendenza che ci lega alla materialità delle infrastrutture. I collassi infrastrutturali – siano essi informatici, elettrici o anche sociali come è accaduto per la sanità durante il Covid-19 – non sono quindi semplici malfunzionamenti tecnici, ma veri e propri eventi politici, in grado di rivelare l’esistenza di un potere che nella normalità del quotidiano resta invisibile.
Emanciparsi dal capitalismo digitale
Il crash informatico del 19 Luglio ha quindi rivelato il livello di influenza che le multinazionali del digitale hanno raggiunto nella nostra società, rivelando il portato politico che si nasconde dietro ogni scelta tecnologica. Già la pandemia ci aveva mostrato come molte delle nostre attività economiche e sociali dipendono oggi da una mediazione digitale condotta da multinazionali in grado di generare introiti superiori al Pil di molti paesi del mondo. La stessa didattica durante i mesi del lockdown è stata garantita dai servizi offerti da multinazionali che hanno come fine quello di fare profitto, non certo quello di garantire la riproduzione sociale. C’è qualcosa di inquietante nel notare che molti dei cosiddetti servizi fondamentali – sanità, trasporti, educazione, ecc… – dipendono oggi da infrastrutture informatiche la cui proprietà solitamente non è pubblica, ma di grandi gruppi finanziari il cui obiettivo primario è quello di aumentare gli introiti dei propri azionisti. Ciò non riguarda soltanto i software e le app, ma anche le cosidette megainfrastrutture che oggi rendono possibile l’economia digitale come server, cavi e altro. A differenza di come spesso si immagina, infatti, il 99% della circolazione dei dati non è wireless, ma scorre attraverso cavi sottomarini che negli ultimi anni hanno costruito una rete che per la maggior parte è proprietà di aziende come Google e Facebook. Lo stesso si può dire dei cloud, ossia server di proprietà delle multinazionali del digitale forniti anche a molte aziende pubbliche. Basti pensare alla sola Poste Italiane, i cui archivi Spid girano sugli stessi server Microsoft collassati in queste ore. Un enorme patrimonio infrastrutturale che oggi regola la nostra vita sociale, ma che sfugge ad ogni forma di controllo pubblico con conseguenze significative in termini di sostenibilità – sociale ma anche ambientale dato il livello di inquinamento prodotti dai servizi digitali. Non è un caso quindi che, nonostante le rassicurazioni di piattaforme come Google e Amazon sulla riservatezza dei dati, il dibattito sulla necessità di un cloud pubblico europeo non accenna ad assopirsi.
Eppure non è soltanto sul versante del controllo delle infrastrutture materiali che si gioca la partita per l’emancipazione dal potere infrastrutturale delle piattaforme. Come osservano Bowker e Star in un testo del 1999 dall’emblematico titolo: Sorting things out, praticare un’inversione infrastrutturale significa «riconoscere la profondità dell’interdipendenza delle reti tecniche e degli standard da un lato, e il lavoro reale della politica e della produzione di conoscenza dall’altro». L’evento politico del 19 luglio è tutto qui, in un bug che è stato in grado di rivelare non solo l’enorme fragilità della nostra società digitale, ma anche il grado di dipendenza che essa intrattiene nei confronti del lavoro infrastrutturale compiuto dalle multinazionali del digitale. Allo stesso tempo il crash informatico ci ricorda però anche qualcosa che già i movimenti sociali e del lavoro avevano messo in luce in questi ultimi anni di lotte. Per quanto le piattaforme digitali ci possano apparire potenti e decisive per il nostro mondo, esse non sono le uniche padrone del loro destino. Sarà quindi che è proprio all’apice del proprio potere che le piattaforme digitali ci mostrano oggi il loro lato più fragile?
Marco Marrone, ricercatore in sociologia all’Università del Salento, è uno dei fondatori di Riders Union Bologna.
23/7/2024 https://jacobinitalia.it
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