Il diritto alla disconnessione, quello vero
Qualche mese fa i sindacati, risvegliatisi per qualche attimo dal loro lungo letargo della ragione e del coraggio, hanno messo in evidenza la necessità di difendere il diritto alla disconnessione. Con esso indicavano la possibilità per il malcapitato lavoratore, contento di essere in “lavoro agile” con la stessa consapevolezza del tacchino che vede avvicinarsi il Natale, di avere qualche ora a disposizione in cui potersi esimere dall’essere perennemente raggiunto e raggiungibile da questioni di lavoro a casa propria molto dopo la fine dell’orario di lavoro. In questo risveglio i sindacati mostravano più che altro, come capita incessantemente a ogni “opposizione di sua maestà”, la loro incapacità di pensare qualcosa che non sia già inserito e vidimato come compatibile con gli interessi della, diciamo così, superclasse dominante. Del tutto scomparsa, ovviamente, anche la sola pensabilità della questione del diritto alla disconnessione, ma quello vero, cioè la possibilità di essere e restare cittadino non perché ho “staccato” qualche ora senza guardare la millesima notifica della giornata ma, più radicalmente, perché non sono strutturalmente connesso ad internet, non ho internet o non “mi porto dietro” internet, cioè non ho accesso alla portabilità di internet (per inciso lo stato normale umano prima dell’invenzione degli smartphone).
Siamo ancora in grado di pensare questa ovvia questione? Quanto siamo liberi di rifiutare di far parte del mondo social e della portabilità di internet? E ancora una libera scelta o è già un’obiezione di coscienza, qualcosa di tollerato dando per scontato che le cose debbano andare in un altro modo? E quanto si paga questa obiezione qualora la si voglia perseguire? Ci siamo accorti di avere inventato una nuova povertà? La povertà, del resto, come ci ricorda Illich (Descolarizzare la società, Mondadori 1975, p. 14) “si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio arbitrio”. E se si vuole misurare la propria libertà mentale e la propria adesione al pensiero unico ci si chieda se si sta considerando, leggendo queste righe, solo colui che non sa usare internet o non ha i mezzi per accedervi o anche colui che non vuole accedervi per libera scelta ma non per questo deve essere espulso dalla società. Insomma, lo scettico digitale resta ancora cittadino?
Mentre ci occupiamo di esplicitare e tracciare con attenzione ciò che per millenni, sebbene in ogni cultura implicito, è stato sempre chiaro a tutti (ad esempio la differenza tra corteggiamento e predazione sessuale) oppure di costruire una complessa impalcatura regolativa per le nostre legittime preferenze sessuali, intere aree della nostra esistenza vengono aggiogate a forze esterne in modo apparentemente irreversibile. Di certo non casualmente i nuovi diritti su cui sembra lecito (anzi doveroso) poter lavorare e che tanto disturbano il vecchio conservatorismo hanno come caratteristica sistemica quella di non ostacolare mai lo sviluppo tecnologico e quello finanziario e anzi a volte sono per il sistema economico occasione di un ampliamento di vecchi business a nuovi soggetti. I diritti degli omosessuali, ad esempio, non disturbano in alcun modo la struttura economico-consumista della contemporaneità, al massimo in alcuni casi (pensioni di reversibilità ecc.) possono mettere sotto pressione le finanze pubbliche, ben meno importanti delle grandi intoccabili finanze private. Il sistema di potere a volte li concede non perché sia buono (sennò si impietosirebbe anche per altri diritti altrettanto sacrosanti) ma perché può sembrarlo a costo zero.
Più in generale, in un baratto inquietante, acquisiamo diritti che non avremmo neppure saputo immaginare fino a trenta anni fa (magari il diritto a un menu vegano in una mensa) mentre arretriamo su quelli sociali che avevano caratterizzato il Novecento e addirittura perdiamo, avendone solo una confusa percezione, quelli che abbiamo posseduto da quando è iniziato il processo di ominazione sulla terra (poter stare da soli, ad esempio, o non essere disturbati per qualche tempo dal continuo stato di connessione in cui siamo sempre meno volontariamente irretiti, o serbare alla nostra sola interiorità informazioni intime). Questi ultimi (i “diritti antichi” potremmo qui definirli) non sapevamo neppure fossero diritti perché solo il nuovo mondo tecnologicamente strutturato in cui viviamo è in grado di toglierceli e tuttora, pur patendone ferocemente la compressione, stentiamo a tenerli presenti alla mente.
Gli antichi diritti non erano stati formalizzati perché non era possibile immaginare qualcosa in grado di comprimerli. Quando questi diritti che non sapevamo di avere non ci saranno più, le trasformazioni avvenute non ci permetteranno di esercitare davvero nessuna libertà e nessun nuovo o vecchio diritto perché essi saranno resi impossibili dalla formazione di un individuo, già ora in preparazione, senza lo spazio interiore minimo per svilupparsi come individuo. I diritti individuali (spesso non ci si riflette) necessitano non soltanto che esistano i diritti, chi li rispetta nonché chi sia in grado di farli rispettare, ma ancor prima che esistano gli individui grazie a un sistema sociale che non li eradichi come piante infestanti.
Gli antichi diritti si pongono involontariamente contro l’espansione del sistema tecnologico e finanziario. Se si fosse deciso qualche decennio fa che in uno Stato si dovesse sapere in ogni istante dove si trovano con esattezza tutti i suoi abitanti o come essi spendano il loro denaro, questa decisione sarebbe rimasta del tutto teorica e impraticabile, derubricata a fantasia da socialismo distopico più che a implementazione tecnologica in via di realizzazione. Il mantenimento degli antichi diritti è strettamente collegato all’espansione del mondo telematico e a quello che esso decide di fare di noi. Se il mondo telematico si espande e si introduce nelle vite umane, se la tecnologia si fa biopolitica, allora i diritti della civiltà umana come l’abbiamo conosciuta devono arretrare.
Ci si permettono insomma i diritti che il tecno-capitalismo consente e si perdono i diritti che il tecno-capitalismo avoca a sé. Non occorre essere particolarmente maliziosi per notare come ampie aree della sinistra dagli anni Novanta in poi si siano mostrate estremamente timide nel salvare i vecchi diritti del lavoro perennemente sotto pressione a fronte delle richieste di flessibilità e disintermediazione del tecnocapitalismo e invece abbiano mostrato un certo coraggio nel rivendicare i neodiritti cui sopra si accennava. Alcuni diritti sono merce di scambio elettorale, altri costi per il sistema, ma di altri ancora non bisogna neppure parlare e tenerli in una sorta di limbo subliminale.
La perdita dei diritti dell’ominazione avviene senza alcuna resistenza. Se un uomo conosciuto nel mondo materiale volesse da noi solo un centesimo delle informazioni che volontariamente cediamo (stato fisico e prestazionale, immagini, gusti gastronomici e sessuali, curriculum sentimentale ecc.) ne saremmo infastiditi e preoccupati, e forse ci rivolgeremmo ai carabinieri. Invece, attraverso il web, cediamo costantemente pezzi della nostra esistenza, condividiamo, con un sistema assai meticoloso nello schedarci, intimità in altri tempi non condivise neppure con il proprio confessore o il proprio partner, però non sembriamo rendercene conto. Carichiamo gratuitamente sul database di un’azienda privata (Facebook e altri) milioni di dati intimi dimenticando all’istante che essa è un’azienda privata. La pensiamo invece come un mondo, un ambiente, una seconda vita (second life) e tante altre immaginifiche definizioni create dai menestrelli del sistema per dimenticare la vera ragione sociale dell’archivio universale che stiamo contribuendo a registrare. Quando invece si tratta di darne un giudizio secondo l’etica tradizionale allora, per salvarli, questi “mondi” diventano solo strumenti che, come recita il ritornello degli stupidi, dipendono da come vengono usati.
La domanda centrale però sembra un’altra. Quanta previa adesione ideologica al sistema di vita contemporaneo è necessario avere per poter possedere una piena cittadinanza? Quando lo smartphone è diventato un prerequisito democraticamente giustificato per poter fare parte della società? Ci stiamo accorgendo di quanti consensi ci sono richiesti (mai discussi, mai esplicitati) per non venire ghettizzati o discriminati? Ci siamo accorti che questi consensi impliciti sono in perenne aumento? E infine: quanta libertà di opinione è rimasta nelle nostre orgogliose sedicenti democrazie?
Più lo smartphone viene caricato di app e di utilizzi essenziali alla vita civile (piccoli pagamenti, interazione con la pubblica amministrazione, prenotazioni ai servizi postali, ricerca di locali, posteggi ecc.) più uno strumento creato da privati per profitto che si serve di software privati su sistemi di rete privati con inesistenti margini di difesa della privacy diventa il titolo d’accesso alla vita pubblica. Quando si è deciso che lo smartphone fosse il titolo di accesso alla società come e più di un documento d’identità? Quando abbiamo votato per questo? Quando abbiamo legiferato su questo? Quando ci si è abituati a questo orrore?
Non stupisce che non vedendo questo mutamento illiberale e antidemocratico la maggior parte della gente non abbia colto neppure la mostruosità morale del green pass. In entrambi i casi ai diritti di natura si sostituisce un assenso, nella maggior parte dei casi volontario sebbene inconsapevole e implicito, in altri casi estorto. Ci troviamo a dover dire sì a un preciso assetto valoriale del mondo e a una precisa struttura di funzionamento. Ma, si faccia attenzione, dobbiamo dire sì senza farcene accorgere, perché se si capisse che diciamo sì allora potrebbe anche immaginarsi che si possa dire no. È questo, ormai si sarà capito, non va neppure pensato.
Davide Miccione
23/6/2022 https://www.aldousblog.it
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