Il diritto di curarsi sotto l’occupazione militare israeliana
“Se fai qualcosa abbastanza a lungo, il mondo lo accetterà. L’intero diritto internazionale è ormai basato sulla nozione che un atto che oggi è proibito diventa ammissibile se compiuto da un numero sufficiente di paesi. […] Il diritto internazionale progredisce attraverso le sue violazioni ”.
Daniel Reisner, ex capo del dipartimento legale dell’esercito israeliano.[1]
I miglioramenti della salute che una società persegue sono vanificati se la popolazione non è in grado di usufruire delle cure di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. L’accesso all’assistenza sanitaria può essere impedito o limitato da diversi tipi di barriere – finanziarie, politiche, geografiche e sociali – che hanno un impatto differente sui vari settori della popolazione creando o aggravando disuguaglianze già esistenti, soprattutto quando viene meno anche l’accesso ad altri fondamentali determinanti sociali e politici della salute. L’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e l’annessione illegale di Gerusalemme Est rappresentano la barriera strutturale principale che impedisce ai palestinesi di accedere a cure mediche adeguate. La limitazione più evidente a cui sono sottoposti riguarda la libertà di movimento.
Quando un determinato trattamento non è disponibile nelle proprie strutture, il Ministero della Salute palestinese trasferisce i pazienti presso altri fornitori di servizi più specializzati fuori dal proprio territorio, dai quali acquista le cure mediche necessarie, in particolare radioterapia e chemioterapia antitumorale. Questa procedura rappresenta una parte importante della copertura sanitaria fornita dall’Autorità Palestinese ai residenti della Cisgiordania e di Gaza, arrivando a rappresentare negli anni scorsi fino il 40% dell’intero bilancio sanitario. Condizione fondamentale perché questo avvenga è il libero accesso a ospedali e a centri medici specializzati, in particolare in Israele, Egitto, Giordania e Gerusalemme est.
La Cisgiordania è costellata da un centinaio di posti di blocco militari fissi, senza contare le centinaia di ostruzioni stradali intenzionali (ammassi di immondizia e detriti, blocchi di cemento, cancelli in ferro, trincee) e gli oltre 60 chilometri di strade che Israele riserva al solo utilizzo dei coloni israeliani. Per potersi muovere in Cisgiordania, inoltre, è necessario ottenere un’autorizzazione dalle autorità militari israeliane: ogni anno circa 200.000 palestinesi richiedono il permesso da Israele per viaggi correlati a ragioni mediche. Di questi, in media 40.000 sono negati.[2] Secondo il medico israeliano Dani Filc, docente alla Ben Gurion University, “l’assistenza sanitaria è strutturata come uno strumento che rafforza l’occupazione in corso.”[3] Lo stesso muro o barriera di separazione, il segno distintivo dell’occupazione israeliana che traccia un confine spurio tra Israele e la Cisgiordania palestinese, è di per sé un ostacolo all’accesso. Esso impedisce la comunicazione e l’interazione tra le persone, creando inoltre un effetto psicologico e traumatico non quantificabile. Il muro isola intere comunità palestinesi, impedendo loro di accedere alle strutture sanitarie disponibili.
Il blocco impenetrabile cui è sottoposta dal 2007 rende la Striscia di Gaza una vera e propria prigione a cielo aperto i cui ospedali, oltre alle distruzioni subite nelle successive aggressioni militari israeliane, sono progressivamente indeboliti dalla carenza di manutenzione, pezzi di ricambio, farmaci e aggiornamento professionale del personale. Di conseguenza, aumenta sempre più il numero di ammalati che devono essere indirizzati a strutture sanitarie specialistiche al di fuori della Striscia.
Il ruolo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
Nel 2006 l’OMS ha iniziato a monitorare e a segnalare alla comunità internazionale le complesse restrizioni burocratiche al movimento dei palestinesi che sono diventate reali ostacoli al diritto alla salute. Dal 2011 ha prodotto rapporti annuali, relazioni mensili e numeri speciali durante i periodi di crisi acuta per fornire le prove della precarietà e imprevedibilità dell’accesso all’assistenza sanitaria, raccomandando azioni che gli attori “portatori di obblighi” internazionali dovrebbero attuare per migliorare la situazione.
Lo scorso novembre l’OMS ha pubblicato il rapporto “Right to health: crossing barriers to access health in the occupied Palestinian territory, 2014–2015”[4] che documenta l’effetto perverso delle barriere fisiche e del sistema dei permessi imposto da Israele. Lo studio raccoglie sia dati quantitativi forniti da fonti palestinesi ufficiali, sia informazioni qualitative da interviste a pazienti e operatori sanitari e da visite sul campo. Per la prima volta è descritto anche l’impatto degli attacchi israeliani contro strutture sanitarie, pazienti e personale sanitario. Viene inoltre analizzata la situazione riguardante le comunità palestinesi nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, dove Israele mantiene la piena l’autorità amministrativa e sulla sicurezza, come stabilito dagli Accordi di Oslo.
“L’accesso è un elemento fondamentale del diritto alla salute”, ha affermato il dottor Gerald Rockenschaub, direttore dell’ufficio dell’OMS in Cisgiordania e a Gaza. “Ogni madre ha il diritto di stare insieme al proprio bambino quando questo è in cura per un tumore. Eppure, i dati indicano l’esistenza di restrizioni sostanziali per migliaia di pazienti, e i loro accompagnatori, che cercano di recarsi nei luoghi di cura a cui sono stati indirizzati”.
Secondo il rapporto, l’86% dei 162.300 trasferimenti decisi dal Ministero della Sanità palestinese nel 2014 e nel 2015 è stato verso centri medici specialistici palestinesi, la maggior parte dei quali, tuttavia, si trova a Gerusalemme Est. Questo fatto li rende praticamente inaccessibili alla maggior parte della popolazione palestinese della Cisgiordania e soprattutto di Gaza a causa delle restrizioni alle autorizzazioni, difficilissime da ottenere, necessarie per entrare a Gerusalemme Est. E ciò nonostante questa parte della città continui a essere considerata dalla comunità internazionale, inclusi gli Stati Uniti, grande alleato di Israele, come territorio palestinese occupato.
Il restante 14% dei trasferimenti è stato verso ospedali israeliani, o in Giordania e in Egitto, dove l’ingresso dipende dalle condizioni imposte dai rispettivi governi. Pochi pazienti di Gaza sono stati in grado di uscire attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto nel 2014 e nel 2015 a causa della politica di chiusura adottata da quel Paese. Nell’area C della Cisgiordania, sotto il pieno controllo israeliano, oltre 180.000 palestinesi, soprattutto comunità pastorizie beduine, soffrono di difficoltà di accesso alle cure mediche a causa degli ostacoli posti dalle autorità israeliane a costruire strutture sanitarie. I Beduini hanno vissuto su quella terra per secoli, ma lo stato di Israele non riconosce le loro proprietà nelle aree nel Negev e li costringe a trasferirsi nelle città lasciandoli privi di elettricità, acqua e fognature.
Il travaglio degli ammalati in cerca di cure[5]
Le barriere all’accesso continuano a rimodellare il sistema sanitario palestinese. Anche quando non è in corso un’incursione militare, l’occupazione è intrinsecamente soffocante. La salute non si misura soltanto con statistiche di mortalità o tassi di incidenza e prevalenza delle malattie. Un sistema sanitario nazionale è fortemente influenzato dal clima politico che lo circonda: medicina e politica vanno di pari passo. Nel 2015, per la prima volta, più pazienti sono stati indirizzati a strutture sanitarie private e non profit all’interno della Cisgiordania (47%) rispetto agli ospedali di Gerusalemme Est (43%), a causa della crescita locale di centri medici privati come alternative più accessibili. I pazienti provenienti da Gaza, invece, non hanno beneficiato allo stesso modo dello sviluppo locale del loro sistema sanitario semidistrutto e reso inefficace dalle aggressioni israeliane e il costante isolamento dovuto al blocco.
I pazienti richiedenti autorizzazioni per attraversare il valico check point di Erez, che da Gaza immette in Israele, sono più che raddoppiati dal 2012, raggiungendo il numero di 21.899 nel 2015, ma i tassi di approvazione dei permessi sono costantemente scesi: 92,5% nel 2012, 88,7% nel 2013, 82,4% nel 2014 e 77,5% nel 2015. Al contrario, nello stesso periodo è stato notato un miglioramento dell’accesso per i pazienti della Cisgiordania, maggiore per i pazienti che per gli accompagnatori, dovuto in parte a procedure di sicurezza più agevolate per i viaggiatori più anziani. Gli ammalati bisognosi di cure specialistiche non disponibili in loco che intendono lasciare la Striscia di Gaza sono convocati dai servizi di sicurezza israeliani, il Shin Bet, e vengono sottoposti a interrogatori. Molti rinunciano al trattamento per paura che Hamas li accusi di collaborazione con Israele. I servizi di sicurezza israeliani possono negare i permessi di viaggio, senza dare spiegazioni, per “ragioni di sicurezza”. Il rifiuto e i ritardi nel rispondere alle domande di permessi sanitari sono notevolmente aumentati per i pazienti di Gaza che, soprattutto negli ultimi anni, hanno dovuto affrontare strette procedure di sicurezza.
I pazienti che necessitano di cure mediche specializzate sono già in una posizione vulnerabile, fisicamente e psicologicamente. Le prove raccolte nel rapporto dell’OMS dimostrano che a Gaza il trattamento dei permessi di viaggio per i pazienti trasferiti ad altri ospedali specializzati può comportare procedure molto lunghe, interminabili controlli, interviste di agenti di sicurezza, e il rifiuto di rilasciare i permessi al familiare accompagnatore o richieste di sostituirlo con un altro[6]. I pazienti sono informati solo la sera prima del viaggio, a volte nello stesso giorno, cosa inutilmente stressante. Il paziente, che può essere in attesa di radioterapia per un cancro, di chirurgia per un’articolazione fratturata, o della diagnosi di una malattia cardiaca, o essere un bambino con una condizione metabolica in pericolo di vita, può perdere il suo appuntamento con l’ospedale e quindi vedere vanificare la possibilità di cura. Nel peggiore dei casi, gli è negato il permesso. Nei due anni in esame, quasi 1.800 pazienti si sono visti negare l’autorizzazione di accedere alle cure al di fuori di Gaza e oltre 8.000 pazienti non hanno ottenuto risposta in tempo per riuscire rispettare l’appuntamento avuto dall’ospedale.
Nella Cisgiordania, si stima che, dei 35.000 pazienti che hanno richiesto permessi nel 2014 e il 2015, a circa uno su cinque è stato negato o non è stata data una risposta. I casi di studio esaminati mostrano come le decisioni riguardo ai permessi siano percepite come arbitrarie: l’autorizzazione può essere negata una volta per motivi di sicurezza inspiegabili ma approvata un’altra, con un andamento assolutamente imprevedibile. I giovani adulti, di età compresa tra 18 e 40 anni, sono il gruppo di età con le maggiori probabilità di essere sottoposto a interrogatorio di sicurezza e con le minori probabilità di approvazione, soprattutto i maschi. Ulteriori casi sono stati pubblicati su riviste accademiche riguardo, per esempio, le difficoltà di accesso alle cure d’emergenza,[7] gli ostacoli posti alla formazione degli studenti di medicina,[8] il ruolo della geopolitica in tutto ciò.[9]
Conclusione
Il rapporto dell’OMS termina affermando: “A causa delle restrizioni al movimento imposte da Israele un gran numero di palestinesi non ha accesso diretto all’assistenza sanitaria specializzata di cui ha bisogno, anche presso gli ospedali palestinesi a Gerusalemme Est che hanno servito la popolazione per mezzo secolo.”
“Si tratta della libertà di movimento al suo livello più elementare”, ha dichiarato il coordinatore delle Nazioni Unite per gli aiuti umanitari Mr Piper, “il diritto di accesso, letteralmente, a servizi salva-vita per voi, per un genitore anziano, per un neonato. L’idea stessa che una barriera, un muro, una guardia di sicurezza, un burocrate possano interporsi tra noi e tali servizi essenziali dovrebbe riempirci tutti di un senso collettivo di sgomento.”
“Assicurare il diritto all’assistenza sanitaria è un obbligo giuridico per gli Stati membri delle Nazioni Unite, protetto dalla legislazione internazionale umanitaria e dei diritti umani. Israele, come potenza occupante, è il primo responsabile delle politiche che compromettono l’accesso ad adeguate cure mediche, del regime di permessi e degli ostacoli fisici che rendono il viaggio verso gli ospedali un grave problema per molti palestinesi.”
- Consent and Advise. Haaretz, 29.01.2009.
- Huge Disparities Between Israeli, Palestinian Health-care Systems, Says Rights Group. Haaretz, 11.01.2015.
- Health Under Occupation: Constraints on access to healthcare in the Palestinian Territories. Mondoweiss, 14.08.2015.
- WHO releases latest health access report for the occupied Palestinian territory. WHO, 29.11.2016
- Fatenah. Video animato prodotto dalla OMS che descrive la lotta quotidiana di una giovane di Gaza malata di cancro per la sopravvivenza.
- Press Releases. Palestinian Child Denied Access to Hospital by Israeli Authorities Dies. Mezan.org, 22.01.2017
- Rytter M, Kjældgaard A, Brønnum-Hansen H, Helweg-Larsen K. Effects of armed conflict on access to emergency health care in Palestinian West Bank: systematic collection of data in emergency departments. British Medical Journal 2006;332:1122–4.
- Shahawy S, Diamond M. Attitudes of Palestinian medical students on the geopolitical barriers to accessing hospitals for clinical training: a qualitative study. Conflict and Health 2016; 10:5 DOI 10.1186/s13031-016-0067-8.
- Smith R. Healthcare under siege: Geopolitics of medical service provision in the Gaza Strip. Social Science & Medicine 146 2015; 332e340.
25/1/2017 www.saluteinternazionale.info
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