Il disegno di legge contro le fake news va fermato
Dalle fake news alle fake laws. Si tratta di leggi infarcite di cattive promesse e cariche di emotività emergenziale. Un caso di scuola è rappresentato dalla proposta (Atto Senato 2688, depositato lo scorso 7 febbraio) sottoscritta da diversi parlamentari “trasversali”, sotto la prima firma dell’esponente del gruppo Ala Adele Gambaro: «Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica».
È un testo che oscilla, purtroppo, tra la ridondanza e il rischio di favorire la censura. Infatti, l’articolato si sovrappone a forme di reati – diffamazione, diffusione di notizie false e tendenziose – già ampiamente previste dai codici ma qui impropriamente dilatati. L’eccesso di zelo si trasforma, al di là delle intenzioni, in un bavaglio bello e buono. Che significa, infatti, «destare pubblico allarme»? O «fuorviare settori dell’opinione pubblica»? Attenzione all’eterogenesi dei fini. Per contrastare campagne razziste, il bullismo, l’apologia del fascismo o simili trasgressioni la legislazione vigente è sufficiente. Va applicata, ovviamente. E qui si apre – se mai – l’annoso capitolo che riguarda le autorità vigilanti, cui si dovrebbero riferire oneri e onori del caso. Le logore grida manzoniane non colpiscono, come è noto, la vera criminalità, mentre costituiscono una sorta di intervento preventivo ai danni dei “normali” utenti e navigatori.
Il pasticcio diventa massimo quando si intende regolamentare blog e siti sotto il profilo della responsabilità editoriale. Per non equiparare la rete alle testate giornalistiche, si sostituisce la registrazione presso il Tribunale con la notificazione (sempre al Tribunale) via posta elettronica certificata (Pec). Un contributo al caos, non alla trasparenza.
La questione è delicata, perché ciò che accade nell’universo digitale non è estraneo allo stato di diritto. Tuttavia, va sottolineato che la via da imboccare non è la fotocopia ingiallita delle strutture e dei riti consolidati, bensì la stipula di un impegnativo protocollo di intesa con gli over the top come Facebook. I sovrani degli algoritmi devono stabilire uno specifico «Statuto dell’impresa editoriale», con l’indicazione di chiare aree di competenza e l’esplicitazione dei garanti per ogni paese del rispetto delle leggi nazionali. Multe salate ai proprietari, da ottenersi sulla tassazione e sulla pubblicità. Insomma, l’età digitale è un nuovo mondo, che evoca approcci e culture inediti e creativi. Altrimenti, il mero “proibizionismo” fa solo peggiorare la situazione.
Buona l’idea del testo di una formazione continua e professionale nelle scuole. Anzi. Sta proprio nella costruzione di un clima di opinione maturo ed adeguato la ricetta su cui lavorare. La coscienza digitale è un pezzo decisivo della cittadinanza democratica e solo così si può forse limitare il fenomeno tragico delle “bufale”, o degli atteggiamenti incivili e simbolicamente violenti.
L’iter parlamentare del disegno di legge non è ancora avviato. Un appello va rivolto alle senatrici e ai senatori proponenti. Ci si fermi, per ripensare alla materia in maniera adeguata, raccogliendo il coro critico pressoché unanime che si è sollevato nei giorni passati.
Evgeny Morozov ha scritto sull’Internazionale che «questo significa costruire un mondo in cui Facebook e Google non abbiano tutta questa influenza». E sì, la manipolazione non muore mai. Come l’egemonia.
Vincenzo Vita
22/2/2017 https://ilmanifesto.it
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