Il disprezzo della vita. Le persone diventano “carico residuale”
1. Il governo italiano continua a ignorare gli obblighi di sbarco in un porto sicuro (POS – PLace of safety) dettati dal diritto internazionale a carico degli Stati costieri e cerca di aggirare la normativa europea ed interna, che conferma quegli obblighi. Piantedosi e Salvini minacciano anche i comandanti delle navi che si rifiuteranno di riportare in acque internazionali persone considerate come “carico residuale” e non obbediranno ad un decreto illegittimo, sia nelle premesse che fanno riferimento a Regolamenti europei ormai abrogati, che nel dispositivo, secondo il quale il comandante della nave, dopo la selezione dei naufraghi “vulnerabili”, dovrebbe uscire dal porto e ritornare in acque internazionali. Anche se nessuno Stato, incluso quello di bandiera, ha dato disponibilità per garantire un porto di sbarco sicuro. dopo gli “sbarchi selettivi” effettuati nel porto di Catania.
2. Nei confronti della Geo Barents di MSF, poco prima del suo ingresso nel porto di Catania, è stato notificato un decreto fotocopiato su quello già notificato a Humanity 1, firmato anche dal ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Matteo Salvini, insieme ai colleghi di Interno, Matteo Piantedosi, e Difesa, Guido Crosetto, Al comandante della Geo Barents, si vieta “di sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario ad assicurare le operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti Autorità nazionali”. “A tutte le persone che restano sulla imbarcazione – si fa sapere – sarà comunque assicurata l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”. Un decreto che si è dimostato già inapplicabile perchè le “autorità nazionali” degli Stati di bandiera delle navi delle ONG non hanno segnalato le vulnerabilità dei naufraghi che invece sono state accertate da medici italiani dell’USMAF (sanità marittima) e della CRI.
Intanto le navi umanitarie Rise Above e Ocean Viking di SOS Mediterraneé rimangono al largo delle coste della Sicilia orientale, al limite delle acque teritoriali, con il loro carico di naufraghi stremati da un tempo di attesa che pesa come un ricatto del governo italiano, che cerca di aggirare il Regoamento Dublino III. Ma queste prassi e le posizioni politiche che esprimono, rischiano soltanto di produrre un irrigidimento dei partner europei.
3. E’ stato comunque sconfitto il tentativo del minsitro dell’interno che appena pochi giorni fa dichiarava che avrebbe concesso un porto di sbarco sicuro “solo dopo che i migranti a bordo chiederanno asilo agli stati di bandiera delle imbarcazioni”. Una condizione “imposssibile” che gli Stati di bandiera delle navi soccorritrici hanno respinto con grande nettezza. Persino la Francia che si è dichiarata disponibile ad accogliere una parte dei naufraghi ha affermato l’esigenza che lo sbarco di tutti loro avvenisse nel porto sicuro pià vicino, dunque in Italia. Ma il governo italiano ha preferito raccogliere il plauso di Orban per questa nuova prassi di “difesa dei confini esterni dell’Unione Europea”.
Secondo Crosetto, che difende la linea decisa da Piantedosi e da Salvini,si starebbe rispettando “il trattato di Dublino. Se sei su una nave che batte bandiera tedesca, sei in Germania. Non capisco la meraviglia”. Qui si arriva davvero al travisamento del diritto dell’Unione Europea.
Non ci meravigliamo affatto della disumanità delle scelte di respingimento che il governo cerca di nascondere dietro motivazioni umanitarie, lo sbarco delle persone più vulnerabili, che sono comunque atti doverosi di rispetto del Diritto internazionale e dei Regolamenti europei, di quelli in vigore, e non di quelli abrogati come il Regolamento 1524/2016/CE, impropriamente citato nella premessa del Decreto Piantedosi. Dietro il falso umanitarismo del governo si cela l’elusione del diritto euro-unitario.
Come ricorda Gianfranco Schiavone, “Il diritto dell’Unione Europea in materia di accesso alla procedura di asilo è disciplinato in primo luogo dalla Direttiva 2013/32/Ue, detta “direttiva procedure”; e “si applica a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri” (articolo 3 paragrafo 1 della Direttiva 2013/32/UE sulle procedure). La domanda di protezione internazionale non può essere impedita a chiunque giunge in frontiera e non può essere rivolta al comandante della nave, in quanto è “una richiesta di protezione rivolta a uno Stato membro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide” (art. 2 lettera b). L’intero Regolamento Dublino III, per come è stato applicato nel corso degli anni, si basa sulla competenza primaria dello Stato di sbarco, considerato come paese di primo ingresso, per ricevere le richieste di protezione internazionale. Per colpire le attivita’ di ricerca e salvataggio delle Ong non si possono introdurre regole tanto discrezionali e palesenente discriminatorie nei confronti di potenziali richiedenti asilo, selezionati sulla base delle apparenti condizioni fisiche, o peggio secondo lo Stato di provenienza, ma solo nel caso di soccorsi operati dalle ONG che si vogliono colpire.
4. In ogni caso le Linee guida delle Nazioni Unite (UNHCR) sui soccorsi in mare dimostrano la infondatezza della più recente tesi del Viminale che per aggirare il Regolamento Dublino III , ha proposto di fare presentare le richieste di asilo a bordo delle navi, come se i naufraghi fossero già nel territorio dello Stato di bandiera della stessa nave. Naturalmente tutto questo varrebbe solo per le navi delle Ong. Cosi lo Stato italiano si rende responsabile, oltre che di palesi discriminazioni, di ritardi ed omissioni che per i naufraghi soccorsi da oltre una settimana a bordo dalle navi umanitarie hanno comportato sofferenze aggravate dalle condizioni meteo, dopo gli orrori subiti in Libia. Non si può neppure affermare che le stesse Line guida UNHCR non sarebbero vincolanti per il governo italiano, che dunque potrebbe considerare come paese di primo ingresso lo Stato di bandiera della nave soccorritrice, perchè quelle Linee Guida fanno riferimento alle fonti normative internazionali, anche nella diverse applicazioni giurisprudenziali, che non possono essere derogate da decisioni di natura politica o amministrativa dei ministri, come divieti di ingresso nelle acque territoriali, oppure ordini di lasciare il porto sicuro senza avere prima sbarcato tutti i naufraghi. Diverse decisioni della giurisprudenza italiana hanno fatto riferimento alle Linee guida UNHCR che non possono essere smentite da decisioni discrezionali a forte contenuto simbolico e propagandistico adottate da singoli ministri. Nel pocesso Rackete anche dalla Procura si era fatto riferimento a importanti documenti internazionali, anche se privi di una valenza normativa diretta.
Si erano così richiamate le Raccomandazioni emanate dalla Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa nel 2019 che “sebbene il coordinamento delle operazioni spetti agli RCC [ossia i Rescue Coordination Centers facenti capo agli Stati] anche i capitani delle navi hanno un ruolo cruciale durante le fasi decisionali dell’intera operazione di salvataggio: sono loro, infatti, ad avere una visione d’insieme della situazione a bordo, incluse le condizioni delle persone soccorse, nonché dei fattori esterni, quali in particolare le condizioni metereologiche e la capacità dell’imbarcazione di portare a termine l’operazione in sicurezza. Essi godono pertanto di un margine di discrezionalità nel prendere qualunque decisione che, secondo il loro apprezzamento professionale, risulta necessaria alla tutela della vita mana. Le stesse linee guida dell’IMO [ossia l’International Maritime Organisation, n.d.a.] prescrivono al comandante di sorvegliare affinché le persone non vengano sbarcate in luoghi dove la loro incolumità possa essere nuovamente minacciata. È per questo che si raccomanda agli Stati non solo di istruire i comandanti al fine di consentire il raggiungimento di un porto sicuro (…) ma anche di rispettare la loro eventuale decisione di non condurre i migranti in Libia o in ogni altro luogo insicuro”. Esattamente l’opposto di quello che, sulla base degli accordi stipulati con il governo provvisorio di Tripoli, pretende dalle ONG l’attuale governo italiano.
5. Dietro le contraddizioni del decreto Piantedosi che limita la sosta nei porti italiani allo sbarco delle persone “vulnerabili” traspare l’inrtento di riprendere la criminalizzazione dei soccorsi umanitari, per bloccare le navi delle ONG sotto un cumulo di notizie di reato formate dagli organi di polizia. Secondo il ministro Tajani, “gli Stati devono farsi carico delle navi che portano la loro bandiera”, che non sarebbe un problema di singoli Paesi, ma di “rispetto delle regole generali”. “Siamo d’accordo con il ministro Piantedosi: la priorità è accogliere i fragili, i malati, le donne, i bambini, le donne incinte”. Ma “la responsabilità è dei comandanti. Non possiamo agire sugli Stati, ma su di loro sì. Con l’intervento della magistratura laddove si configurasse un reato in acque italiane”. Ecco pronta la minaccia di azione penale contro i comandanti delle navi umanitarie che non lasciano il porto dove hanno sbarcato i migranti vulnerabili, portando di nuovo in acque internazionali il “carico residuo” di naufraghi che non sono stati “selezionati” per lo sbarco. La minaccia di azioni penali traspare fin dalle prime dichiarazioni del governo che rimandano a tesi accusatorie sconfitte nei Tribunali. Sotto questo profilo dal Viminale era arrivato un avvertimento preciso quando si era contestato che “le operazioni della norvegese Ocean Viking e della tedesca Sos Humanity erano state svolte “in piena autonomia e in modo sistematico, senza ricevere indicazioni dall’Autorità statale responsabile di quell’area Sar, Libia e Malta, che è stata informata solo a operazioni avvenute”, e anche l’Italia sarebbe stata informata “solo a operazioni effettuate“. Dichiarazioni smentite dalla documentazione e dalle testimonianze provenienti dalle ONG, che ad ogni evento SAR avvertono tempestivamente tutte le autorità statali competenti per interventi di salvataggio, che poi di fatto vengono delegati alle navi civili, se non si concludono invece con respingimenti per procura, con la regia di Frontexi e con l’intervento dei guardiacoste libici. Nel dibattito politico, che si sforza di capovolgere la stessa portata dei fatti ed il ruolo gerarchico delle norme, si ritrovano argomentazioni già utilizzate dalle forze di polizia ai tempi del governo giallo-verde, per sollecitare l’intervento della magistratura penale, che poi ha archiviato, in quasi tutti i casi, i procedimenti avviati a carico di comandanti e capo-missione delle ONG. I comandanti delle navi non possono comunque essere esecutori e dunque responsabili di misure di respingimento che competono esclusivamente alla giurisdizione delle autorità statali nel rispetto delle forme e dei presupposti di legge.
6- Il comandante di Humanity1 nella giornata di domenica 6 novembre ha quindi deciso di non uscire dal porto di Catania senza avere sbarcato tutti i naufraghi. “Intorno alle 11,30 ci è stato chiesto di lasciare il porto di Catania con 35 sopravvissuti a bordo. Il capitano ha rifiutato questo ordine”, secondi quanto riferito dalla stessa ONG, “La legge marittima lo obbliga a portare in un luogo sicuro tutti coloro che sono stati salvati da un’emergenza in mare”. Si è appreso nella stessa giornata che il team di avvocati della ONG tedesca proporrà, nei confronti del governo italiano, un’ azione cautelare d’urgenza davanti al Tribunale amministrativo del Lazio Ed al momento, nei confronti delle autorità che impongono l’esecuzione di respingimenti collettivi di naufraghi trattenuti a bordo delle navi umanitarie, non sarebbero neppure da escludere esposti alla magistratura italiana, che sta indagando soltanto sui presunti scafisti che si potrebbero nascondere tra i naufraghi già sbarcati a terra.
L’intimazione a lasciare il porto, implicita nel decreto Piantedosi, non appena completata la selezione dei più vulnerabili, per “trasportare” in acque internazionali il “carico residuo” di persone, adesso reiterata nei confronti della Geo Barents di MSF, con una scadenza finale per le ore 12 di lunedì 7 novembre, appare in violazione del divieto di respingimenti collettivi, ribadito, oltre che dall’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il respingimento collettivo, vietato dalla Cedu e dalla Carta dei diritti fondamentali Ue (art.19), si può configurare anche quando le autorità dello Stato costiero, ingiungono al comandante della nave soccorritrice di uscire dal porto e di lasciare le acque territoriali, in modo che le persone rimaste a bordo della nave, che in porto si trovano sotto la giurisdizione dello Stato costiero, perdono oltre al diritto si accesso alla procedura per il riconoscimento di uno status di protezione, anche il diritto di impugnare il respingimento, senza la possibilità di in ricorso effettivo . In ogni caso in base alle norme sulle procedure Ue, e secondo il Regolamento Dublino 3, il comandante non e’ autorizzato a ricevere domande di asilo, soprattutto quando gli Stati di bandiera non manifestano alcuna disponibilità a prendere in considerazione le richieste di asilo provenienti dalla nave. Tutti i naufraghi che fanno ingresso in un porto di uno Stato costiero hanno diritto a non subire respingimenti collettivi, indipendentemente dalle loro condizioni di vulberabilità e dalla eventuale proposizione di una richiesta di asilo, che potranno presentare soltanto una volta giunti a terra.
7. Nella sentenza di condanna dell’Italia sul caso Hirsi la Corte europea dei diritti dell’Uomo si riconosce che l”attuazione di misure di allontanamento forzato in acque internazionali, per impedire l”ingresso nel territorio, costituisce un atto di esercizio della giurisdizione statale che va sottomesso al divieto di espulsioni collettive affermato dall”art. 4 del Protocollo n. 4 allegato alla CEDU Mentre in acque internazionali, come nel caso Hirsi, preval 5la giurisdizione dello Stato di bandiera, nei limiti dei poteri di coordinamento delle autorità marittime in occasione di atività di ricerca e salvataggio (SAR) -perchè le zone SAR sono soltanto zone di competenza e di ripartizione di responsabilità tra gli Stati- nelle acque territoriali e nei porti interni prevale comunque la giurisdizione nazionale, ed a questo principio è ispirato l’intero Piano SAR nazionale, approvato nel 2020.
La decisione sul caso Hirsi ha una valenza molto ampia che non si limita al respingimento collettivo effettuato dalle autorità italiane, in acque internazionali , il 6/7 maggio del 2009, né può ritenersi una sentenza storicamente datata, come se la situazione esistente al tempo della dittatura di Gheddafi, nei confronti dei migranti in transito in Libia, fosse oggi migliorata. Il divieto di respingimenti collettivi vale in ogni caso, anche tra paesi dell’Unione Europea, lo afferma ancora una volta la Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Sharifi, laddove si rimanga soggetti ad una giurisdizione statale, quale che sia il paese nel quale si viene respinti, a garanzia di tutti i migranti e non solo dei potenziali richiedenti asilo.
8. Il diritto nazionale sancisce che le operazioni di soccorso si devono concludere con il trasferimento dei naufraghi in un centro di accoglienza. Le persone intercettate in mare, oppure, dopo lo svolgimento delle atività di soccorso, non sono entrate o soggiornanti irregolarmente nel territorio italiano, non sono “clandestini”, ma sono persone soccorse rispetto alle quali si deve applicare l’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, secondo cui “Lo straniero …giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”. Si tratta del cd. approccio Hotspot imposto dall’Unione europea.
9. In ogni caso va garantito il diritto all’informazione sulle procedure di protezione ed alla comprensione linguistica che non si può garantire a bordo di una nave in navigazione. Ne discende anche per tutti i naufraghi il diritto di chiedere asilo dopo la conclusione delle operazioni di salvataggio. Anche i migranti giunti a Catania, e non selezionati come vulnerabili e dunque “meritevoli” di sbarcare a terra, a partire dal momento dall’ingresso della nave in un porto italiano, in base alla normativa europea, sono soggetti alla giurisdizione italiana e devono avere possibilità adeguate di presentare un ricorso effettivo davanti ad un”autorità giudiziaria avverso il provvedimento di respingimento, che deve avere carattere individuale. Si ricorda al riguardo quanto disposto, oltre che dagli articoli 5 e 13 della CEDU, dall”art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell”Unione Europea, che garantisce il diritto ad un rimedio efficace e ad un giusto processo.
10. Al di là della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell”uomo e delle posizioni della Corte Europea di Strasburgo, le violazioni da parte dell”Italia delle regole procedurali stabilite nelle procedure di allontanamento forzato a garanzia dei migranti, seppure in condizione di irregolarità, possono assumere rilievo davanti alla Corte di Giustizia dell”Unione Europea ( o davanti al giudice nazionale ove si proponga alla Corte di Lussemburgo una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto eurounitario).
Il Codice frontiere Schengen, istituito con il Regolamento (UE) 2016/399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016 prevede all’art.14 che “Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata”. Le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. L’asserito”ingresso” dei naufraghi nel paese di bandiera della nave soccorritrice, al momento del salvataggio in acque internazionali è smentito dalla piena giurisdizione che assume lo Stato costiero quando dentro un porto opera “gli sbarchi selettivi”, in base a proprio personale medico, con il concorso delle autorità marittime e di polizia, e sulla base di decreti adottati da ministri del governo in carica. Ed è allora che qualunque ordine di lasciare il porto per “trasportare” in acque internazionali i naufraghi che non sono apparsi ad una prima visita a bordo in condizioni fisiche deteriorate, si configura come un ordine di collaborare ad un respingimento collettivo al quale il comandante della nave umanitaria può rifiutarsi di obbedire.
11. Con sentenza del 13 ottobre 2021 il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di un rimorchiatore batente bandiera italiana per aver eseguito un respingimento di cittadini stranieri verso la Libia. Nel caso Vos Thalassa la Corte di Cassazione ha confermato che la Libia non può garantire porti sicuri di sbarco. Dunque nessun comandante di nave può essere obbligato a riportare in Libia, o di riconsegnare ai libici naufraghi raccolti in acque internazionali. Per queste stesse motivazioni, considerato che Malta è responsabile di respingimenti collettivi illegali e non ha ratificato gli annessi alla Convenzione di Amburgo SAR del 1979, tra i quali anche quello (MSC 167/78) citato in premessa nel Decreto Piantedosi , per chi viene soccorso nel Mediterraneo centrale l’unica possibilità di sbarco in un porto sicuro rimane lo sbarco nel porto più vicino in Italia, perchè le operazioni di soccorso e sbarco si devono concludere “nel tempo ragionevolmente più breve.”
Nel momento in cui i naufraghi salgono a bordo delle navi soccorritrici non fanno ingresso nel teritorio dello Stato di bandera della nave, come sostiene il nuovo governo italiano, perchè la nave è solo un place of safety temporaneo per il tempo necessario per raggiungere un porto di sbarco sicuro. Ed è a quel punto che si conclude l’attività di soccorso. Quanto stanno spacciando come diritto internazionale i politici di destra ed i media loro vicini, sulla competenza primaria dello Stato di bandiera, che dovrebbe fornire anche il porto di sbarco, crea un baratro tra l’Italia e l’Unione Europea, e potrebbe avere gravi ripercussioni su tutti i dossier aperti con Bruxelles. Mentre si pensa al possibile esercizio dell’azione penale contro i comandanti delle navi umanitarie, si nascondono le gravissime responsabilità istituzionali che condannano centinaia di persone all’abbandono in mare e poi negano il porto di sbarco sicuro, lasciando i naufraghi nel limbo di un respingimento verso il nulla. Si deve paraltro ricordare che anche i precedenti governi con la ministro Lamorgese al Viminale, avevano negato per periodi altrettanto lunghi il porto di sbarco, ma poi lo avevano sempre concesso, utilizzando lo strumento dei fermi amministrativi per contrastare la presenza delle ONG nel Mediterraneo centrale. Ora si va molto oltre e si sfrutta la dequalificazione degli eventi di soccorso (SAR) in eventi di immigrazione irregolare (law enforcement), già addotta dai governi precedenti, per potere respingere almeno una parte dei naufraghi, selezionati come uomini adulti, certamente maggiorenni e in via presuntiva in buone condizioni fisiche, per affermare la responsabilità dello Stato di bandiera della nave umanitaria soccorritrice per la indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS-Place of safety). A differenza di quanto invece si continua a fare nel casi di soccorsi operati da navi commerciali alle quali si indica immediatamente il porto di sbarco anche nel nostro paese. Si ritiene in questo modo di “difendere” i confini esterni dell’Unione europea, e quelli italiani dalle attività di “trasporto di migranti irregolari” operate dalle ONG, senza ricordare all’opinione pubblica che le navi umanitarie contribuiscono al soccorso di appena il 10/15 per cento circa dei migranti che fanno ingresso via mare nel nostro paese, molti dei quali soccorsi in acque internazionali da mezzi della Guardia costiera e della Marina militare. E soprattutto senza ricordare le numerose archiviazioni che hanno chiuso i procedimenti penali aperti contro le ONG.
L’art.94 della Convenzione ONU di Montego Bay (UNCLOS) è chiarissimo e non prevede per lo stato di bandiera della nave soccorritrice alcun obbligo di indicare un porto di sbarco. Si prevede infatti tra gli “obblighi dello Stato di bandiera” che “ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera”. La competenza dello Stato di bandiera si limita dunque alle questioni che riguardano i certificati e le dotazioni delle navi, e ancora requisiti tecnici, i contratti e la tutela dei lavoratori del mare che vi sono imbarcati. In questo senso anche una decisione della Corte di giustizia Ue del primo agosto scorso. In base agli articoli 10 e 117 della Costituzione, atti dei ministri e leggi dello Stato non possono derogare queste disposizioni del diritto internazionale anche per l’espresso richiamo che ne fa il Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014, direttamente vincolante per le autorità italiane”.
12. Nel caso Open Arms del 2019 il Tribunale amministrativo del Lazio in accoglimento del ricorso presentato dalla Ong spagnola, rilevando una violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso e riconoscendo una situazione di “eccezionale gravità e urgenza”,disponeva la sospensione del divieto di ingresso della stessa nave nelle acque territoriali italiane. Da quella pronuncia cautelare del Tar Lazio che il governo dell’epoca, malgrado gli annunci, nemmeno impugnò, scaturì il processo Open Arms nei confronti dell’attuale ministro delle infrastrutture Matteo Salvini. Oggi le nuove prassi inaugurate dal Viminale, che non negano l’ingresso nelle acque territoriali, ma stabiliscono un limite per la sosta in porto dopo lo sbarco delle persone più vulnerabili, condannando quelli che si lasciano sulle navi ad un limbo infinito, saranno bloccate di nuovo dalla giurisprudenza amministrativa. Se si attiveranno inziative di carattere penale nei confronti dei comandanti delle navi umanitarie che si rifiutano di lasciare il porto di Catania, non mancheranno indagini difensive e l’esercjzio quotidano del giornalismo d’inchiesta, per accertare le responsabilita di chi doveva provvedere alla conclusione delle attività di soccorso con lo sbarco in un porto sicuro, come si è verificato in altri procedimenti intentati contro comandanti e capomissione delle ONG, conclusi con provvedimenti di archiviazione.
Fulvio Vassallo Paleologo
7/11/2022 https://www.a-dif.org
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