Il diversivo e la cambiale ai posteri
Sconfitta europea.
Appena pochi anni fa Giorgia Meloni e gli altri «sovranisti» del suo governo ancora sbandieravano l’incondizionato abbandono dell’euro come ricetta salvifica per l’economia italiana. Oggi si trovano con le ginocchia sui ceci a firmare il nuovo patto di stabilità, una cambiale all’Europa liberista persino più insidiosa delle precedenti.
L’approvata riforma del patto sarà una tenaglia, per l’Italia e per gli altri paesi relativamente deboli dell’Unione.
In primo luogo, la proposta di sostituire le rigide regole numeriche sui conti pubblici con degli «standard» più flessibili, timidamente caldeggiata dalla Commissione, è stata sdegnosamente cestinata dal governo tedesco.
Inoltre, il nuovo patto trascura che, come riconosciuto dalle stesse autorità europee, la crisi dell’eurozona esplose per uno squilibrio non dei conti pubblici ma dei conti esteri. Squilibrio alimentato da una Germania che a colpi di ribassi del costo del lavoro inondava di esportazioni gli altri paesi.
E ancora, nemmeno un cenno è stato dedicato a un fatto ormai riconosciuto da molti ex cardinali dell’ortodossia oggi redenti: si possono imporre anche le regole più draconiane ai paesi membri, ma in ultima istanza la sostenibilità del debito dipende dalle decisioni della Bce sui tassi d’interesse.
In sostanza il nuovo accordo insiste su un duplice obiettivo, di schiacciare sia il debito pubblico che la spesa pubblica. Viene così dimenticata la lezione della grande crisi del 2008, che si propagò dall’economia americana al mondo intero a causa di un problema di spesa e di debito eccessivi da parte del settore privato, non certo del pubblico.
Lungi dal garantire la sostenibilità dei bilanci ed evitare future crisi, anche il nuovo sistema di regole sembra dunque «stupido», come Romano Prodi osò definire il patto quando era presidente della Commissione Ue.
In realtà questo famigerato aggettivo è sempre stato un po’ fuorviante. Una razionalità capitalistica queste regole ce l’hanno ed è oggi persino più evidente che in passato: si tratta di affamare la «bestia» dello Stato, come senza tanto ritegno usano dire i liberisti più agguerriti.
Ossia, si punta a comprimere sempre più le risorse destinate alla produzione pubblica di beni e servizi in modo da lasciare campo libero ai privati. Lo scandalo di una sanità ormai surrettiziamente privatizzata nei suoi gangli fondamentali è solo il più vistoso fra tanti.
Meloni e Giorgetti vorrebbero almeno capitolare con un cenno di dignità residua, quando rimarcano che per tre anni l’Unione chiuderà un occhio sulla spesa causata dall’aumento dei tassi d’interesse. Ma c’è un inconveniente che non è stato finora notato. In termini reali l’onere degli interessi si annuncia ben più gravoso nella fase successiva, quando nelle intenzioni degli architetti europei si sarà ripristinato il pieno controllo dei prezzi, con i tassi al netto dell’inflazione che quindi torneranno ampiamente positivi. Come a dire, il governo di destra la sfanga e lascia la patata bollente ai successivi.
L’unica novità che Meloni e i suoi possono davvero rivendicare è l’eccezione della spesa militare, che almeno nella fase transitoria – e forse anche dopo – non entrerà nei vincoli del patto. Grazie all’impegno della destra italiana, insomma, le nuove regole delineano il profilo di un’Europa privatizzatrice e anche guerrafondaia. Che si tratti di un gagliardetto o di un’onta vergognosa si lascia ai lettori giudicare.
Per celare la genuflessione sul patto di stabilità, ieri la maggioranza ha pure congegnato un discreto diversivo parlamentare. L’aula ha infatti confermato il veto italiano all’approvazione del Mes, il cosiddetto meccanismo di stabilità europeo.
La notizia non è cattiva. Come riconosciuto anche da Bankitalia, a dispetto del suo nome il Mes potrebbe in realtà destabilizzare vari assetti finanziari dell’Unione, al punto che proprio gli europeisti farebbero bene a guardarlo con sospetto. Il problema è che anche qui la strategia diplomatica non ha brillato.
L’Italia è ormai l’ultimo paese che si oppone a questo meccanismo. Appena i vincoli del patto di stabilità inizieranno a mordere, sarà anche più difficile mantenere il veto sul Mes.
Oggi si respira, domani si affoga.
Emiliano Brancaccio
24/12/2023 http://www.rifondazione.it/
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