Il fallimento della città privata
Pezzo dopo pezzo, tutta l’architettura che dava una risposta ai bisogni delle fasce popolari è stata demolita. Nel 1998 viene chiuso il capitolo dei contributi Gescal che avevano consentito di finanziare l’edilizia pubblica mentre negli anni ’80 due sentenze della Corte Costituzionale limitarono le possibilità dei comuni a costruire nuovi quartieri popolari.
Nel 2008 la legislazione nazionale ratifica il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale invece delle case pubbliche, e inizia la contesa tra istituti di credito e fondazioni bancarie per inserirsi nel mercato. L’offensiva neoliberista si appropria del mercato dell’edilizia per le famiglie a basso reddito. Per alimentare il fondo sull’housing sociale, oltre a Cassa Depositi e Prestiti, si inseriscono i colossi del credito, dalle Assicurazioni Generali a Unicredit, da Allianz a Intesa San Paolo.
La macchina della privatizzazione del comparto delle case popolari sembra destinata al trionfo. Poi arriva la crisi immobiliare del 2008 e il castello di carte crolla. L’impoverimento del ceto medio e la precarietà del lavoro dei giovani rende pressoché impossibile acquistare casa.
Il tragico bilancio della privatizzazione della città è un numero sempre più grande di famiglie in stato di disagio abitativo, della ricomparsa delle baracche, delle tante occupazioni. Un dato ci dice molto di quanto accaduto. Fino al 1990 venivano costruiti in media 18 mila case popolari all’anno. Negli anni ’90 il valore scende a 10 mila. Nel decennio 2000 – 2010 si è arrivati a poco più di 5 mila. È su questo nodo che dobbiamo ragionare se vogliamo risolvere i problemi della casa. Il fronte progressista si è molto indebolito perché molti hanno creduto alla sirena del “privato” ed oggi faticano ad aggiornare analisi e obiettivi. Sindacati di base e i gruppi di difesa delle fasce deboli hanno avuto il grande merito di resistere alla cultura dominante, ma non hanno avuto la forza di imporre un nuova agenda politica e sociale.
Tre sembrano le strade da seguire per ripartire. Ricostruire pezzo dopo pezzo la legislazione in grado di dare risposte alla società impoverita e all’immigrazione. La seconda è quella della certezza dei finanziamenti. Occorre tornare a finanziamenti certi e duraturi: il segnale potrebbe partire dal far pagare l’Imu alla grande proprietà. Infine, ricostruire il welfare urbano selvaggiamente cancellato. Era una delle più innovative conquiste della piattaforma dello sciopero del 1969 e va ripresa. Il fallimento dell’housing sociale ci offre la grande possibilità di ricostruire una prospettiva sociale. La sinistra deve provarci.
Paolo Berdini
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