Il fantasma del salario minimo nel Recovery plan
In poco più di 24 ore il salario minimo è scomparso dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). La sua apparizione nella bozza del 24 aprile era per la verità passata in sordina, senza lasciare traccia nel dibattito pubblico. Tuttavia, la sua repentina cancellazione dal documento finale approvato il 27 aprile da un Parlamento ridotto ormai a silenzioso sparring partner dell’esecutivo ha alimentato qualche scorribanda social, specie nella ridotta pattuglia della sinistra parlamentare.
Ai lettori più attenti non sarà sfuggito che l’allusione della bozza del 24 aprile a una legge sul salario minimo non prometteva nulla di buono, riducendo l’applicazione della norma solo ai lavoratori e alle lavoratrici non coperti dalla contrattazione collettiva. Una misura che non avrebbe scalfito la persistenza di fasce di lavoro povero che si nascondono anche nei contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Quindi, più che un atto coraggioso capace di scardinare la povertà lavorativa è parso sin da subito un provvedimento volto semmai a gonfiare qualche titolo di giornale, e a mobilitare il coro dei fedelissimi credenti delle virtù taumaturgiche del migliore tra i migliori, Mario Draghi.
Ma un conto è legittimare simbolicamente una questione sentita da fasce crescenti di popolazione, un conto è rimuovere il tema. Insomma, la cancellazione del salario minimo dal testo ufficiale conferma le intenzioni dell’esecutivo, per chi ancora nutrisse dubbi, di muoversi in piena continuità con i governi che si sono succeduti negli ultimi tre decenni. Il mondo di ieri è il mondo di domani, sembrano dirci «i migliori».
Lavoro povero e diseguaglianze
Questo balletto dai tratti grotteschi si inserisce in un paese devastato dalla crisi economica e dalla progressiva crescita delle diseguaglianze di reddito e di ricchezza, sancendo una divaricazione sempre più preoccupante tra paese reale e istituzioni. Nell’anno precedente all’avvento della pandemia l’Inps segnalava che 4,5 milioni di lavoratori e lavoratrici guadagnavano un salario orario inferiore ai 9 euro lordi. L’Istat ci ricordava che sotto la soglia dei fatidici 9 euro si collocavano lavoratori e lavoratrici occupati in vari settori economici, dall’industria metalmeccanica al comparto istruzione, dai servizi ricettivi alla sanità. Dati che si inserivano in una tendenza decennale, registrata dall’Eurostat, di progressivo scivolamento nella povertà di fasce crescenti del mondo del lavoro, indipendentemente dalla condizione occupazionale, siano essi occupati in rapporti di lavoro full-time o part-time.
In questa triste classifica, l’Italia si colloca tra i tre stati (insieme a Spagna, Grecia e Romania) in cui è più alto il rischio di povertà per chi lavora, con valori sempre al di sopra della media europea. Un dato che va letto insieme alla crescente diseguaglianza tra i redditi percepiti dal 20% più ricco e il 20% più povero della popolazione lavorativa. Parola, diseguaglianza, che fa capolino appena sette volte nelle oltre 300 pagine del Pnrr, giusto per sancire la sensibilità del nuovo esecutivo verso la condizione di deprivazione materiale che condanna milioni di persone.
Cifre che restituiscono un quadro drammatico e che si collocano in una stagnazione trentennale dei salari medi e mediani che si è aggravata nel decennio successivo alla grande crisi del 2007/2008. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ilo l’Italia ha conosciuto in questo periodo una contrazione dei salari reali medi (la peggiore performance nelle venti economie avanzate insieme a Regno Unito e Giappone) a fronte di un aumento del 15% in Germania, dell’8 % in Francia.
Dentro questo contesto la pandemia ha agito da acceleratore delle tendenze in atto, esacerbando le fragilità di quelle fasce di lavoratori e lavoratrici più precari, inseriti nei settori economici in cui è più elevato il rischio di povertà lavorativa. Una dinamica che interessa l’insieme dei paesi europei, ma che in Italia assume caratteri ancora più drammatici. La contrazione dell’occupazione ha interessato, infatti, l’insieme delle attività legate alla filiera turistica e ricettiva: dalla ristorazione agli alloggi, dai servizi di cura al lavoro nel campo dello spettacolo e della cultura. Chi ha perso il lavoro era già un lavoratore povero, spesso e volentieri coinvolto in rapporti di lavoro di breve durata, con un’incidenza elevata del part-time involontario. La dimensione settoriale dello shock ha amplificato le note diseguaglianze di genere e generazionali. La pandemia ha infatti aggravato le condizioni di marginalità delle donne e dei giovani, collocati nei settori poveri dell’economia nazionale e privi di strumenti di sostegno universale al reddito e di servizi sociali adeguati.
Da eroi a invisibili
La repentina scomparsa del salario minimo dalla bozza del Pnrr è un’ulteriore dimostrazione che la retorica sulla centralità dei lavoratori e delle lavoratrici essenziali veicolata dai media durante la prima ondata del virus sia stata piano piano dismessa a favore di un ritorno alla vecchia normalità.
Da eroi a invisibili, il passo è brevissimo. Dopo qualche retorico richiamo alla generosità dei lavoratori e delle lavoratrici essenziali nei primissimi mesi della pandemia, dalla scorsa estate il discorso pubblico si è progressivamente spostato sui privilegi di alcune categorie di lavoratori e sulla solita divaricazione tra i cosiddetti «garantiti» e «non garantiti». Il ritornello si è fatto via via più insistente, sino a dare spazio ad attacchi a testa bassa contro i lavoratori e le lavoratrici del pubblico impiego, rei di vantare un salario a fronte di un crollo dei profitti dei ceti medi autonomi. Da più parti si è invocata la richiesta di una tassa di solidarietà per chi nella pandemia ha mantenuto intatto il suo salario, ovviamente senza intaccare i lauti profitti delle imprese che si sono avvantaggiate nello stesso periodo e senza mettere in minimo conto la possibilità di tassare rendite e patrimoni. Proposte che si inserivano in un quadro segnato dalle continue richieste di Confindustria di procedere a uno sblocco dei licenziamenti, per garantire alle imprese la possibilità di ridurre i costi e tornare a far lievitare i profitti.
In questo clima da caccia alle streghe contro il mondo del lavoro, i lavoratori essenziali sono finiti nell’invisibilità. Infermieri, riders, braccianti, lavoratori della logistica, cassiere dei supermercati, operatrici di pulizia negli ospedali, educatori ed educatrici sociali sono stati via via chiusi in un angolo. Da quella strettoia hanno tentato di uscire in una settimana di fuoco, l’ultima di marzo di quest’anno, che si è aperta con il primo sciopero italiano dei lavoratori e delle lavoratrici della filiera di Amazon, è proseguita con la mobilitazione dei riders in molte città italiane e si è conclusa con lo sciopero nazionale del comparto trasporti e logistica. Mobilitazioni che hanno rivendicato con forza salari dignitosi, un tempo di lavoro congruo con la salute psico-fisica e la garanzia dei diritti sociali elementari (dalle ferie alla malattia, dalla tredicesima al Tfr). Scioperi che hanno invitato i media e la politica a prendere nota di un mondo del lavoro che continua a sacrificarsi nell’ombra per tenere insieme il paese, che consente alla società italiana di andare avanti nelle settimane terribili della pandemia e che è costretto a scendere in piazza, a rinunciare ai magri salari per mostrare la propria esistenza. Gli eroi che devono scioperare per dire alla politica: ci siamo, siamo qui, continuiamo a vivere di salari da fame, senza tutele e senza diritti, siamo quelli che chiamavate lavoratori essenziali, vi ricordate?! A gridare con la disperazione soffocata in gola: essenziali sono i salari, essenziali sono i diritti. Un paradosso, se non fossimo nel paese in cui si succedono classi dirigenti che hanno distrutto quel che resta della civiltà del lavoro, finendo per ridurre il salario minimo a un gioco di specchi nelle bozze del Pnrr.
La cura del salario per salvare il paese
E se il Pnrr ha sancito il ritorno alla normalità, espellendo la questione salariale dai radar dell’agenda di governo, non resta che chiedersi quanto sia invece necessario ripartire proprio da lì per garantire uno spazio di rappresentanza a una maggioranza senza voce. Cominciando da una domanda elementare: cosa hanno in comune i facchini della logistica con le operatrici dei centri di residenza per anziani, le cassiere dei supermercati con i lavoratori e le lavoratrici esternalizzati dei centri di prenotazione ospedaliera, le educatrici sociali con gli operatori delle pulizie negli ospedali, le colf e le badanti con i custodi dei centri commerciali? Hanno in comune che sono lavoratori e lavoratrici essenziali per la produzione e riproduzione della società, eppure sono poveri. Molti di loro sono inquadrati nel contratto Multiservizi, che prevede paghe orarie che non superano i 7 euro lordi (parliamo delle operatrici delle pulizie, dei lavoratori agli sportelli degli ospedali, ma è un contatto che si sta estendendo a macchia di leopardo anche nel settore della cultura), altri rientrano in contratti come quello dei Servizi Fiduciari che prevede paghe orarie di 5 euro lordi (è il caso dei vigilantes nei centri commerciali, dei custodi nei musei o ancora degli steward negli stadi), altri ancora operano au dela du contract, ovvero fuori da schemi contrattuali, in quella zona grigia tra sfruttamento e lavoro nero.
Bisogna quindi fare i conti con questa realtà dai contorni durissimi, che rende oggi più che mai necessario stabilire un salario minimo orario che sposti in alto il pavimento delle tutele salariali. Una legge che non ostacoli l’autorità dei sindacati nel contrattare i minimi salariali, ma che disponga una soglia sotto la quale nessun lavoratore e nessuna lavoratrice può essere povero. Una soglia che consenta di superare il ricorso a contratti collettivi al ribasso e di fornire alle stesse organizzazioni sindacali una base di sostegno contro il ricorso al dumping salariale. La presenza di un pavimento di tutela contro il rischio povertà consentirebbe inoltre ai sindacati di contrastare lo schiacciamento verso il basso dei salari medi, contando su un ancoraggio minimo sotto il quale non è consentito spingere al ribasso le retribuzioni. Uno scenario confermato da stime recenti dell’organizzazione Internazionale del lavoro (Ilo) sull’impatto del salario minimo sui paesi sprovvisti di strumenti legislativi a sostegno dei contratti collettivi. Nel suo Rapporto Globale sui salari del 2021, l’Ilo stima una riduzione del coefficiente di Gini (indice che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito) dovuto all’introduzione del salario minimo legale. Sempre l’Ilo fa notare che il salario minimo migliorerebbe la condizione reddituale del 25% della popolazione lavorativa.
E se le evidenze empiriche mostrano la necessità di una misura di giustizia sociale che sollevi milioni di persone da una condizione di indigenza e di ricatto, l’introduzione di un salario minimo legale ha alla base anche ragioni di carattere strettamente politico. La pandemia ha mostrato che l’Italia più di altri paesi europei ha subito una riduzione della spesa sociale, che si è tradotta in una crescente difficoltà a far fronte ai bisogni sociali imposti dalla crisi sanitaria ed economica. Negli ultimi decenni i governi hanno tagliato fondi alla sanità, ai servizi educativi, alla scuola e alla ricerca pubblica, esponendo il paese a vivere in preda all’incertezza e all’angoscia. Mai come oggi abbiamo la percezione della necessità di riparare ai guasti prodotti sull’intera infrastruttura sociale del paese, quella che si regge sul lavoro di milioni di lavoratori e lavoratrici essenziali. La privatizzazione dei servizi sanitari, la riduzione del perimetro delle prestazioni sociali a livello territoriale, la crisi delle strutture socio-educative ci consegnano un quadro segnato dal rapporto strettissimo tra svalutazione del lavoro e riduzione dei diritti sociali, tra compressione dei salari e delle tutele e debolezza dei servizi pubblici. Insomma, quello che abbiamo davanti è l’abbandono di ciò che alcuni hanno chiamato economia fondamentale, ovvero quell’insieme di beni pubblici di cui un paese moderno e civile ha bisogno per andare avanti, per credere ancora nella democrazia. Quell’economia fondamentale che viene ignorata dal governo in carica, relegata a elemento accessorio da integrare nel disegno mercantilista previsto dal Pnrr. Il Piano che negando la centralità della questione salariale ha deciso di andare avanti tornando indietro, preferendo la via della restaurazione a quella della ricostruzione. La via della competizione e della concorrenza a quella della cura e della cooperazione. Una furia passatista che va affrontata a viso aperto, ristabilendo il nesso che lega la ricostruzione dell’infrastruttura sociale alla valorizzazione di chi vi opera. Tenendo insieme la crescita dei salari e delle tutele con l’obiettivo dell’internalizzazione e dell’ampliamento dei servizi pubblici fondamentali.
Per arrivare a questo servirà sostenere le lotte di libertà dei lavoratori e delle lavoratrici, di chi anche quando rivendica per sé migliori condizioni di lavoro lo fa per tutti noi, come ci ricorda quel bellissimo slogan dei riders. Non per noi, ma per tutti e tutte, appunto.
Buon primo maggio!
Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana diBasta Salari da Fame (Laterza). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.
1/5/2021 https://jacobinitalia.it
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