Il femminismo bianco liberale deve tacere sulla condizione delle donne afghane

di Lorenzo Poli

Il 24 settembre 2024, durante un incontro dell’ONU dedicato all’inclusione delle donne nel futuro dell’Afghanistan, ha fatto il giro del mondo il discorso tenuto dalla grande attrice statunitense Meryl Streep.

Nel discorso, tenuto a New York, l’attrice tre volte premio Oscar, ha ricordato la storia dei diritti delle donne afgane: ottennero il diritto di voto nel 1919, ben prima delle donne francesi e di quelle statunitensi, e negli anni Settanta erano loro, in numero maggiore rispetto agli uomini, a ricoprire i ruoli di insegnanti, dottori, avvocati. Poi Streep ha voluto usare una metafora per spiegare come il Paese sia completamente cambiato: “Oggi a Kabul una gatta ha più libertà di una donna: una gatta può sedersi all’aperto e sentire il sole sul suo viso, può rincorrere uno scoiattolo al parco. E lo scoiattolo ha più diritti di una ragazza in Afghanistan oggi perché i parchi pubblici sono stati chiusi alle donne dai talebani”. E ha continuato: “Un uccello può cantare a Kabul, ma una ragazza no, non può farlo in pubblico”.

“Questo – ha dichiarato l’attrice – è una soppressione della legge naturale. Impedendo alle ragazze e alle donne l’accesso all’istruzione e agli impieghi lavorativi, la libertà di espressione e di movimento, i talebani hanno incarcerato metà della loro popolazione e la comunità internazionale ha una speciale responsabilità di intervenire per conto delle donne e delle ragazze”.

Un interessante discorso per i diritti umani delle donne afghane ricco di buoni principi e di realtà attuale che però omette moltissime informazioni e presupposti, tra i quali che il femminismo bianco liberale occidentale è stato uno dei tanti responsabili della condizione attuale delle donne in Afghanistan, oltre ad essere stato la principale giustificazione mediatica della guerra in Afghanistan da parte degli USA.

Meryl Streep ha ragione quando afferma che un secolo fa la condizione delle donne afghane era migliore di oggi. Negli anni Settanta a Kabul, la capitale afghana, era donna il 40% dei medici, il 70% degli insegnanti e il 15% dei deputati. Nel 1940 l’Afghanistan era una terra culturalmente vivace e piena di opportunità con edifici moderni, tecnologia e istruzione che arricchivano un paesaggio arido nel quale le donne indossavano gonne, guidavano, ascoltavano musica liberamente e frequentavano l’università insieme ai maschi.

Il governo socialista di Nur Mohammad Taraki (1978-1979) approvò il diritto di voto alle donne, abolì i matrimoni combinati e introdusse servizi sociali universali. Il 30 settembre 1987 Mohammad Najibullah fu eletto Presidente della Repubblica ed emanò una nuova Costituzione prevedendo multipartitismo, libertà d’espressione e una magistratura indipendente. Le donne in Afghanistan erano libere quando l’Afghanistan era ancora una Repubblica Democratica, ma quando nel 1992 divenne Repubblica Islamica, con l’instaurarsi del regime talebano fu la fine. Oggi dei suoi circa 30 milioni di abitanti solo il 5% delle donne sa leggere e scrivere e, con l’attuale Emirato Islamico dell’Afghanistan la situazione è drammaticamente peggiorata.

Ma chi ha finanziato e sostenuto proprio coloro che hanno portato una regressione dei diritti delle donne in Afghanistan? Proprio gli USA, lo Stato in cui più di tutti il femminismo bianco liberale, rinunciando a qualunque lotta intersezionale, ha cavalcato la questione delle donne afghane fin dagli anni Novanta.

Tutto avvenne quando nel 1979, Zbigniew Brzezinski, consigliere del presidente Carter, aveva ideato il piano di armare e addestrare gli allora chiamati Mujaheddin, che occupavano le zone montuose dell’Afghanistan. L’obiettivo era quello di destabilizzare il governo di sinistra presieduto dal socialista Nur Mohammad Taraki che non era di suo gradimento e in secondo luogo provocare l’Unione Sovietica, farla intervenire in aiuto agli afghani e, in seguito, accusarla di essere uno “Stato invasore”.

Il 4 settembre 1979, Hafizzullah Amin, allora vicepresidente della Repubblica Democratica d’Afghanistan e braccio destro di Taraki, assunse il controllo del governo e pochi giorni dopo annunciò che Taraki era morto per “una malattia misteriosa”. Meno di tre mesi dopo, l’Unione Sovietica, ritenendo Amin un uomo della CIA, invase l’Afghanistan destituendolo e mettendo al suo posto Badrak Karmal. Poco tempo dopo si scoprì che Taraki, una volta fatto prigioniero, venne giustiziato proprio su ordine di Amin.

Con l’aiuto degli Stati Uniti, i Mujaheddin crearono problemi al governo di Kabul, che dovette chiedere aiuto al governo sovietico. Successe che l’Unione Sovietica dovette rimanere lì per ben 10 anni (la famosa “occupazione sovietica dell’Afghanistan”), durante i quali la CIA finanziò circa 2 miliardi di dollari in aiuti, armi e supporto logistico ai Mujaheddin, compresi i missili Stinger con cui potevano abbattere aerei ed elicotteri sovietici. La CIA fornì tra i 500 e i 1.500 Stinger ai Mujaheddin in funzione anti-sovietica, abbattendo centinaia di velivoli russi, inclusi molti Mil Mi-24 Hind, prima che le truppe sovietiche si ritirassero dall’Afghanistan nel 1989.

Questa è la vera origine di quelli che The Indipendent nel 1993 chiamava “Freedom Fighters”, ovvero “combattenti per la libertà” quando in realtà si trattava di Mujahedin: combattenti anti-sovietici di stampo islamista di cui faceva parte anche Osama Bin Laden.

Fu in quel contesto che nel 1988 Osama Bin Laden, il cittadino saudita che divenne il talebano preferito dagli Stati Uniti, fondò Al Qaeda, l’organizzazione terroristica fondamentalista che ricevette aiuti, sotto forma di forniture, dagli Stati Uniti attraverso il Pakistan per continuare la loro guerra contro “i comunisti”.

Kabul era sostenuta dall’URSS ma nel 1989 Gorbaciov decise di porre fine agli aiuti militari e nel paese scoppiò una guerra civile, sfruttata dal miglior gruppo armato, i talebani, finanziati dall’Occidente. Nel 1996 i talebani iniziarono il loro dominio e ancora una volta gli Stati Uniti portarono avanti quel conflitto per scopi imperialistici: Washington puntava sulle riserve di petrolio e di gas che circondano il Mar Caspio, ma per trasportare la materia prima in Occidente bisognava per forza passava attraverso la Russia, l’Iran o l’Afghanistan. Quest’ultimo fu la ragione nascosta del piano: gli USA sostennero i talebani in funzione anti-sovietica e poi nel 1994 scommisero su di loro per “stabilizzare” il Paese al fine di costruire l’oleodotto.

Fu così che gli Stati Uniti divennero il principale sponsor di quelli che erano tra i più grandi violatori dei diritti umani.

Nel 2000 viene pubblicato “Una guerra empia. La CIA e l’estremismo islamico”, il libro-inchiesta del giornalista John Cooley in cui si descrive alla perfezione come gli Stati Uniti, per opporsi all’influenza sovietica sull’Afghanistan nel 1979, decisero di stringere un’alleanza con i terroristi islamici che di fatto – spiega Cooley – permetterà alla CIA di pianificare la “guerra santa” in Afghanistan con l’addestramento, il finanziamento e l’armamento di 250.000 mercenari islamici da ogni parte del mondo grazie anche all’aiuto di Arabia Saudita, servizi segreti pakistani e la Cina. Nel libro si danno benissimo i mezzi per capire come gli USA abbiamo collaborato negli anni alla destabilizzazione dell’Afghanistan e alla diffusione del terrorismo islamico (che ha portato anche ad una regressione dei diritti civili delle donne acquisiti molti anni prima) prima dello scoppio della guerra nel 2001.

Però, nonostante i Talebani avessero forza militare e aiuti importanti, non riuscirono a ottenere il sostegno popolare e nemmeno a conquistare l’intero paese, quindi non riuscirono a portare a termine l’intento USA di costruire il famoso oleodotto. Gli Stati Uniti incoraggiarono il dialogo tra tutte le parti, non aspettandosi che i talebani sarebbero stati i primi a violare i loro patti.

I Talebani entrarono in trattative con l’Alleanza del Nord per formare un governo di coalizione che fallì nel luglio 2001. Gli Stati Uniti si sentirono traditi e iniziarono a retrocede, pensando che di loro non si potevano più fidare. Gli Stati Uniti iniziarono a bombardare e, alla fine di giugno 2001, dichiararono guerra ai Talebani. Tre mesi prima dei presunti attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, c’erano voci di alleanze tra Bush, l’India e altre nazioni per distruggerli.

Osama Bin Laden per rabbia, o su istruzioni di fornire la “scusa perfetta” per i piani di guerra di Bush, si sfoga con gli attacchi dell’11 settembre. Washington invade l’Afghanistan, contiene i talebani e ritorna la speranza dell’oleodotto e del petrolio afgano per l’Occidente.

In tutti questi anni – ad esclusione dei movimenti pacifisti, anticoloniali, di sinistra e il black feminism anche statunitensi che hanno denunciato fortemente le mire imperialistiche degli USA – quali parole hanno speso sulla situazione le femministe bianche liberali occidentali dall’alto dei loro salotti borghesi? Nessuna parola.

Hanno iniziato a parlarne quando lo scandalo era già in atto e la situazione irreversibile, senza ovviamente fare i dovuti distinguo storici su chi fossero quei “talebani” che hanno portato all’oppressione di genere in Afghanistan.

Nel marzo 1999 Marvis Leno, una ricca esponente della vita mondana di Hollywood e moglie della superstar dell’intrattenimento serale Jay Leno, organizzò una raccolta fondi a cui erano invitati i suoi amici ricchi e famosi. L’evento era a beneficio della campagna della fondazione Feminist majority e aveva l’obiettivo di “mettere fine all’apartheid di genere in Afghanistan”, evidenziando così le barbare condizioni delle donne che vivevano sotto il dominio dei taliban.

In breve tempo attrici come Susan Sarandon e Meryl Streep aderirono alla campagna, facendone un tema caldo. L’amministrazione di George W. Bush, sempre alla ricerca di giustificazioni per la guerra, trovò nella campagna di Feminist majority proprio quello che voleva. Dopo gli attacchi dell’11 settembre alla Torri Gemelle, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno lanciato la “guerra al terrorismo islamico” con un’invasione dell’Afghanistan in quanto si pensava che alcuni terroristi di Al-Qaeda fossero rintanati in quelle terre. Questa ipotesi non aveva nessuna giustificazione valida in quanto non c’era nessun cittadino afghano coinvolto nell’attentato di New York, mentre i Talebani non avrebbero potuto dare aiuto a Bin Laden in quanto quest’ultimo era fuggito in Pakistan.

Le solite bugie di guerra hanno dato adito ad altre giustificazioni come “la liberazione delle donne afghane dal burqa”. Una retorica ridicola, vuota ed ipocrita se pensiamo che la situazione delle donne afghane era peggiorata da quando i talebani, finanziati dagli USA, avevano preso potere territoriale in tutta la zona. Un ottimo motivo fu quello di lanciare un’invasione militare che ben presto si tramutò in occupazione militare, orchestrando una campagna mediatica volta alla sensibilizzazione degli animi degli utenti occidentali. Laura Bush, in diversi discorsi radiofonici, sostenne che l’invasione americana avrebbe aiutato le donne afghane a liberarsi dall’oppressione dei talebani, affermando: “Le persone civili di tutto il mondo parlano con orrore, non solo perché i nostri cuori si spezzano per le donne e i bambini in Afghanistan, ma anche perché in Afghanistan vediamo il mondo che i terroristi vorrebbero imporci.”

La difficile situazione delle donne sotto il regime talebano e le rivendicazione salvifiche del femminismo bianco liberale in Occidente hanno fornito agli Stati Uniti una giustificazione morale ordinata per la loro invasione dell’Afghanistan. Un argomento di discussione cavalcato dalla stessa Laura Bush: “La lotta al terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne”, ha detto Bush dopo l’invasione del 2001, aggiungendo che grazie all’America, le donne “non sono più imprigionate nelle loro case”.

Due mesi dopo l’invasione, il 17 novembre 2001, Laura Bush celebrava l’apparente progresso degli Stati Uniti verso l’emancipazione delle donne dell’Afghanistan:

“A causa dei nostri recenti successi militari, in gran parte dell’Afghanistan le donne non sono più imprigionate nelle loro case. Possono ascoltare musica e insegnare alle loro figlie senza paura di essere punite. Tuttavia, i terroristi che hanno contribuito a governare quel paese ora tramano e pianificano in molti paesi e devono essere fermati. La lotta al terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne”.

Un’assurdità in termini logici e realistici, ma una genialata in termini propagandistici. Il 20 novembre le leader di Feminist majority – tra cui Ellie Smeal, l’ex direttrice dell’Organizzazione nazionale per le donne – partecipavano a eventi al Dipartimento di Stato e incontravano funzionari dell’amministrazione. Il numero della primavera 2002 della rivista Ms. definì l’invasione militare USA  addirittura una “coalizione della speranza”.

Tra gli esempi più rilevanti ci fu l’allora senatrice Hillary Clinton, altra femminista bianca liberale che votò entusiasticamente a favore della guerra, definendola il “ripristino della speranza”. Anche la rappresentante dello stato di New York, Carolyn Maloney, la quale, indossando un burqa blu alla camera degli Stati Uniti, fece alcune appassionate dichiarazioni su quanto fosse “claustrofobico” quell’indumento.

Peccato che tutta questa salvezza verso le donne afghane non è mai avvenuta. Nel 2007, secondo gli studi delle giornaliste Elizabeth Gettelman Galicia e Lana Šlezic condotti da Mazar-e-Sharif, a nord, a Kandahar, a sud, la condizione delle donne afghane era peggiorata rispetto a dieci anni prima: il burka era diventato più comune, una “straordinaria maggioranza” di donne afgane subiva violenze domestiche e i delitti d’onore erano in aumento. L’assistenza sanitaria era così logora che ogni 28 minuti una madre moriva di parto, il secondo tasso di mortalità materna più alto al mondo. Le ragazze frequentavano la scuola con la metà dei ragazzi e nel 2006 almeno 40 insegnanti sono state uccise dai talebani. In sostanza l’occupazione militare americana non solo non ha giovato alle donne, ma non ha migliorato per nulla la loro situazione.

La liberazione delle donne afghane, propagandata dall’Alleanza Atlantica, non si è vista perché non solo non hanno mai voluto “esportare la democrazia”, ma non hanno mai avuto intenzione di crearla, una democrazia in Afghanistan.

Sia all’interno sia all’esterno del governo degli Stati Uniti, le donne del femminismo bianco liberale – oltre ad aver offerto una giustificazione mediatica di guerra – avevano deciso che la guerra NATO e l’occupazione militare USA avessero un ruolo salvifico e fossero essenziali per liberare le donne afgane. La loro logica si basa sull’assunto secondo cui la necessità di un intervento militare fosse “universalmente” una buona cosa e che lo stesso valesse anche per le donne afgane, senza chiedere loro il permesso.

Come diceva Ahmad Shah Massud, se volete aiutare le donne afghane non venite a parlare del burqa, ma date alle donne lavoro e istruzione che le cose, pian piano, cambieranno. Questo non è mai stato fatto, anzi l’occupazione militare USA e NATO ha contribuito a peggiorare la situazione.

Come scrisse l’opinionista pakistana Rafia Zakaria: “Le femministe afgane non hanno mai chiesto l’aiuto di Meryl Streep, figuriamoci gli attacchi aerei statunitensi. La convinzione che le donne bianche sapessero cosa fosse meglio per le donne afgane va oltre Hollywood e il desiderio di mettersi in mostra politicamente. Le centinaia di milioni in aiuti allo sviluppo che gli Stati Uniti hanno riversato nel loro complesso industriale-salvifico si basavano sul presupposto delle femministe della seconda ondata che la liberazione delle donne sarebbe stata la conseguenza automatica della partecipazione femminile a un’economia capitalista. (…) Il femminismo bianco è un femminismo calato dall’alto, e non tratta con sufficienza solo le donne afgane: le nere, le latine, le asiatiche e altre donne non bianche hanno difficoltà a entrare nei circoli dove si prendono le decisioni politiche perché le loro esperienze femministe – sopravvivere come madri single, lavorare in fabbrica o sopportare anni di discriminazione razziale – sono considerate irrilevanti. I ruoli preminenti vanno a donne bianche d’élite che hanno fatto carriera, ed escludono quelle stesse donne che in teoria vorrebbero aiutare.”[1]

Quando l’amministrazione Biden ha deciso nel 2021 il disastroso ritiro americano dall’Afghanistan, molti degli aspiranti salvatori bianchi delle donne afgane hanno affermato, con la stessa ostinata e deliberata cecità che li ha portati a sostenere l’imperialismo statunitense, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto mantenere i loro militari nel Paese per proteggere le donne afgane. Rafia Zakaria scriveva: “Il miglior risultato sarebbe che le femministe bianche che hanno contribuito alla distruzione di un paese rinunciassero per sempre a questa letale intromissione”.

Oggi, se le donne afghane sono in una condizione di oppressione e repressione da parte del fondamentalismo religioso è solo per colpa dell’Occidente, per averle date in pasto alla narrazione bellica occidentale e per non aver denunciato la “sdemocraticizzazione” dell’Afghanistan a partire dai mujaheddin.

Oggi le femministe bianche liberali, come unica operazione umanitaria e di giustizia – al posto di fare rivendicazione a nome delle donne afghane dall’alto dei loro privilegi di classe e dei loro salotti, dovrebbero solo tacere sulla condizione delle donne afghane. Un silenzio che servirebbe a non creare altri danni rispetto a quelli che sono già stati fatti. Un silenzio che è rispetto e giustizia.

[1]Il ruolo del femminismo bianco nell’invasione dell’Afghanistan

2/10/2024 https://www.invictapalestina.org

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