Il futuro è la diversità

Nate negli Stati Uniti, le politiche di diversità, equità e inclusione sono ora nel mirino del governo Trump. Ma il cambiamento in corso non si arresterà con i proclami. Scenari e orizzonti, dentro e oltre l’America di oggi

Dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca sono passati solo pochi giorni, ma nessuno si è concluso senza un proclama che mettesse sotto accusa le politiche di diversità, equità e inclusione (in inglese, Diversity, Equity and Inclusion, abbreviato in DEI) come la causa di tutti i mali degli Stati Uniti.

Dagli attacchi più tradizionali – secondo cui le politiche DEI metterebbero in atto una discriminazione – a quelli più creativi nella loro ferocia – come quello che riconduce l’incidente aereo causato da un elicottero governativo che non stava rispettando le regole di ingaggio per le esercitazioni al fatto che nel team dei controllori di volo ci fossero persone con disabilità.

Com’è nel suo stile Trump parla alla pancia dei suoi elettori, e le persone che lo hanno eletto – uomini ma anche donne – vogliono sentirsi diverse, nel senso di essere le uniche a possedere quell’identità nazionale che per anni abbiamo definito un melting pot, e che oggi scopriamo essersi consolidata nel rifiuto dell’altro da sé.

L’America delle opportunità, della possibilità di farsi da soli diventa così una roccaforte difensiva che si trincera intorno a chi è dentro lasciando fuori – con barriere, dazi, muri – chi non è ancora entrato.

E se le azioni di diversità e inclusione hanno rappresentato un facile bersaglio elettorale è anche perché queste politiche – che proprio negli Stati Uniti sono nate, a metà degli anni ’50 e per sostenere l’inserimento lavorativo di quella parte di popolazione che oggi chiameremmo razzializzata, ma che allora usciva da decenni di segregazione razziale – erano già sotto osservazione, percepite dalla maggioranza dominante come una serie di legacci che imponevano di fare i conti con il proprio privilegio.

Erano infatti attaccate dai conservatori, ma anche dagli attivisti, dai movimenti per i diritti che, più a ragione che a torto, si sentivano derubati delle proprie istanze da un mondo corporate – le grandi multinazionali – che usava il vocabolario dell’inclusione per ammantare di buone intenzioni un interesse legato al business.

Diverse voci rimproveravano alle politiche DEI anche di essersi tradotte, soprattutto nel contesto americano, in una serie di codici e linee di condotta prescrittive da applicarsi in modo acritico, con il risultato paradossale di diventare la parodia di se stesse, limitando la capacità di decodificare realtà complesse e riducendo le possibilità di favorire il dialogo tra istanze e bisogni contrapposti in situazioni di criticità.[1]

Attaccate da più fronti, le politiche di diversità, equità e inclusione soffrivano – e soffrono – di una cronica mancanza di investimenti, della difficoltà a definire in modo chiaro obiettivi strategici e della resistenza a intraprendere azioni di cambiamento capaci di mettere in discussione il sistema organizzativo, di individuare dove, come e perché le disuguaglianze e le discriminazioni hanno origine e cosa sia davvero necessario fare per cambiare.

Prima che arrivassero Trump e Musk a urlarlo con forza, era già chiaro – soprattutto a chi credeva che fosse davvero necessario intervenire per creare condizioni di lavoro in cui fosse possibile muoversi senza compromettere la propria salute mentale – che alcune delle azioni che andavano sotto il cappello della Diversity, Equity and Inclusion non avevano un sufficiente impatto strategico, non riuscivano a mettere davvero in discussione il sistema, spesso erano disegnate e portate avanti senza le competenze necessarie, in alcuni casi perdevano di vista il proprio fine ultimo e, di conseguenza, la propria credibilità.

La riflessione sulla capacità di impatto delle strategie DEI, insomma, era già in corso. Oggi diventa soltanto più urgente, in un momento in cui, a discapito dei proclami, le disuguaglianze si acuiscono, le discriminazioni crescono e le persone soffrono.

Il rapporto tra DEI e giustizia sociale ha sempre avuto elementi di ambiguità, proprio perché la DEI, già diversity management (gestione delle diversità), è nata e cresciuta in un contesto di business, in cui è sempre stato molto chiaro che se le imprese abbracciano alcune politiche lo fanno non per ragioni etiche, giuridiche o morali ma perché vi rilevano un elemento di convenienza.

Tuttavia, anche se la finalità è orientata al business – allargare il mercato, creare ambienti di lavoro in cui le persone vogliano continuare a lavorare – non significa che l’impatto non possa essere, e non sia stato nel tempo, positivo per le persone interessate, con imprese pioniere che hanno esteso e riconosciuto diritti prima che questi fossero tali dal punto di vista legale (si pensi al riconoscimento di tutte le famiglie per l’accesso a piani di welfare o benefit aziendali, all’estensione dei congedi di paternità e in alcuni casi parentali oltre i limiti previsti dalla legge, alla previsione di forme di inserimento lavorativo mirate e di qualità per le persone con disabilità, al riconoscimento di festività religiose al di là dei limiti del Concordato).

Un chiaro esempio di come il potere economico consenta una certa discrezionalità e un buon margine di sperimentazione, che permette di rispondere alle pressioni dei consum-attori in modo più rapido e puntuale di quanto non faccia la legislazione. E non bisogna dimenticare, in questo processo, il contributo che alcune imprese hanno dato nella ridefinizione dell’immaginario collettivo, con alcuni spot diventati giustamente famosi presso un pubblico molto ampio.[2]

Infine, se la frammentazione identitaria è forse uno dei limiti dell’attuale sviluppo delle strategie DEI – pensare ai bisogni dei vari gruppi a rischio emarginazione come se fossero separati, ognuno alla ricerca della soddisfazione delle proprie istanze – le imprese più virtuose adottano già un approccio che, se non si può dire intersezionale – perché nel concetto di intersezionalità c’è una forte critica al sistema  di potere che necessariamente si perde nei contesti organizzativi orientati alla produzione e al business – certamente può dirsi olistico, nel senso di attento a variabili che vanno oltre la gestione delle specificità delle persone (in capo alle funzioni delle Risorse umane) per sottoporre ad analisi e critica il funzionamento dell’organizzazione.

In questo contesto, quindi, rimane ampio spazio per le politiche organizzative di diversità, equità e inclusione che non sono destinate a scomparire, bensì a evolvere verso una maggiore complessità. Ci saranno, ci sono già, alcune organizzazioni che le abbandoneranno, ma altre avranno il coraggio spingersi oltre nella loro implementazione.

Saranno organizzazioni che guarderanno al processo, all’impatto e al cambiamento più che alla singola azione; che lavoreranno affinché tutte le persone siano coinvolte nel percorso, cosicché le affirmative actions – che è vero che sono discriminazioni positive, giustificate giuridicamente dall’obiettivo di superare discriminazioni de facto – possano essere finalmente accantonate a favore di un modo di lavorare che tenga conto delle specificità di ciascuna persona.

In queste organizzazioni diventerà meno importante concentrarsi su parole chiave e più rilevante aprire spazi di confronto, in cui portare avanti dialoghi anche difficili, ma che permettano di affrontare il conflitto e promuovere il cambiamento. Sarà importante ripartire dai bisogni delle persone nelle organizzazioni, sviluppare metodi per ascoltarli e trovare punti di equilibrio per creare contesti in cui sia meglio lavorare per tutte, tutti e tuttɜ.

Il coinvolgimento di tutti gli attori rilevanti, le alleanze e le reti, torneranno al centro delle iniziative DEI, e sia le persone che le organizzazioni saranno chiamate a collaborare per dare concretezza al valore dell’inclusione, nella consapevolezza che discriminare, escludere, emarginare ha un costo umano, sociale ed economico troppo alto.

I cambiamenti culturali sono lenti, faticosi, fatti di errori e inciampi. Non vanno al passo delle mode, non si arrestano per un proclama. In questi anni sempre più persone sono state capaci di esprimere i propri bisogni e le imprese più attente si sono impegnate a cercare soluzioni per accoglierli. Alcune cose hanno funzionato meglio, altre meno. È un processo in divenire, che non è destinato ad arrestarsi.

Note

[1] Si veda, su questo, il racconto esemplare nel film American Fiction.

[2] Fra i tanti, il famoso #Like a girl della Always e l’altrettanto noto della Guiness.

Barbara De Micheli

18/2/2025 http://www.ingenere.it

Imamgine: Credits Unsplash/Jakayla Toney

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