Il Giorno dell’oblio
Il Giorno del Ricordo è stato istituito con la legge 92 del 2004 per commemorare «la tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo […] e della più complessa vicenda del confine orientale». A distanza di diciannove anni e con un governo dominato dalle stesse forze politiche che hanno promosso quella legge, credo sia possibile fare il punto su cosa significa e come viene concretamente celebrata questa giornata memoriale. E lo farei partendo proprio dal testo dalla legge, dalle sue parole introduttive, che abbiamo evidenziato poco sopra e che riassumono la volontà del legislatore. Cosa significa concretamente quella frase, quali sono le sue implicazioni logiche e in che modo essa viene realmente interpretata dalle forze di governo, dalle principali istituzioni (prima fra tutte le Presidenza della Repubblica) e dai mass media (in particolare quelli di Stato)? Partiamo da cosa c’è, nel testo della legge, ma abbiamo perso per strada.
«Delle foibe e dell’esodo»
Appare sempre più evidente che la giornata commemorativa è dedicata oggi più alle foibe che all’esodo, ovvero agli esuli e ai loro eredi, le principali vittime di questa storia, che hanno pagato più di altri la sconfitta dell’Italia in una guerra che aveva contribuito a scatenare. Le foibe fanno più audience, suscitano maggiore raccapriccio, sono più facilmente strumentalizzabili, specie se con l’aggiunta di particolari macabri (stupri, fili di ferro, cani neri…) mai realmente confermati dalle fonti, ma ripetuti costantemente in maniera ossessiva tanto da diventare inconfutabili. L’esodo invece rischia di suscitare empatia verso chi lascia le proprie terre per necessità, cozzando quindi con l’altro stereotipo strumentalizzato da quella stessa classe politica che ha voluto il Giorno del Ricordo: quello dei migranti che oggi rischiano la vita in viaggi infernali, ma lo farebbero, secondo una vulgata nazionalista e razzista, solo per il gusto di attentare al nostro benessere e alla presunta purezza della nostra identità.
«Degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo»
Che fine hanno fatto le altre vittime delle foibe e dell’esodo? La legge stessa, pensata per condannare la Resistenza comunista jugoslava, nominava anche le altre vittime, oltre agli italiani. Noi storici sappiamo che le vittime della resa dei conti in Jugoslavia furono decine di migliaia (serbi, croati, sloveni e così via, fino a includere anche circa 3.500-4.000 italiani). Sappiamo anche che fra i 300.000 esuli, circa 50.000 erano sloveni e croati. Eppure la ripetizione ossessiva di slogan come «uccisi solo perché italiani», «pulizia etnica ai danni degli italiani», fino al rocambolesco (e di fatto negazionista dell’Olocausto) «la nostra Shoah», hanno creato un immaginario totalmente antistorico e in contrasto con la stessa legge istitutiva. Siccome un crimine commesso in nome di un’ideologia ampiamente screditata e condannata da tutte le forze politiche non bastava più, si è scelto di «inventarsi» una motivazione anti-italiana, a prescindere dall’evidenza dei fatti e condannando all’oblio le decina di migliaia di altre vittime, solo perché non italiane.
In compenso in quel «tutte» rientra di fatto ogni individuo ucciso dai partigiani jugoslavi durante la Seconda guerra mondiale, al punto che le medaglie commemorative per i parenti delle vittime (previste dalla legge) sono state assegnate anche a militi della Repubblica Sociale Italiana, soldati caduti in combattimento e addirittura criminali di guerra riconosciuti come tali all’epoca dalle stesse autorità italiane. Tutti considerati «martiri» perché uccisi dagli jugoslavi, come se fosse una nota di merito in sé.
«E della più complessa vicenda del confine orientale»
La stessa infelice formulazione di questa frase (più complessa di cosa? Confine orientale per chi?) denota la sua origine: è stata inserita all’ultimo, su richiesta dei rappresentanti dei partiti antifascisti, per poter rendere possibile almeno una contestualizzazione storica della vicenda. Mi pare evidente, tuttavia, che questo sforzo non sia servito a molto. È sotto gli occhi di tutti la crescente isteria nei confronti di qualunque tentativo di contestualizzare il dramma delle foibe nel loro ambito storico e geografico. Potremmo quasi dire che quella «complessa vicenda» inserita nel testo della legge, oggi è «fuorilegge». Oltre alle intimidazioni, minacce, violenze verbali e non solo, mosse dall’estrema destra neofascista, diversi amministratori locali e nazionali hanno riprovato quest’anno a impedire che si parlasse di storia in occasione del Giorno del Ricordo. Agli storici, che già riescono raramente e con estrema difficoltà a intervenire in luoghi pubblici di qualunque genere (dai mass media alle sale comunali) non deve essere consentito accedere alle scuole, ha sostenuto il sottosegretario all’Istruzione: possono farlo solo i rappresentanti delle associazioni degli esuli, portatori di una (legittima) memoria vittimista che non può però avere alcuna funzione educativa se non inserita nel suo contesto storico. La «complessa vicenda» è dunque bandita, i suoi divulgatori criminalizzati e diffamati come «negazionisti», quando non presi a botte alle conferenze, come è avvenuto di recente a Ostia.
«Tutte le vittime delle foibe»
Questa espressione è forse la più grave e pericolosa. Il riferimento specifico alle foibe e non generico a tutte le tragedie di quegli anni esclude esplicitamente il ricordo delle altre vittime (italiane e non) della stessa stagione di violenza: quelle uccise (prima e in numero maggiore) dai fascisti (dal 1920 al 1943) e dai nazisti (e dai loro collaboratori, di tutte le nazionalità, dal 1943 al 1945). Tra gli altri dimenticati, anche i circa 10.000 caduti italiani nella resistenza jugoslava, che rappresentano, solo loro, il doppio delle vittime globali delle foibe, ma combattevano al fianco dei partigiani e contro il nazismo.
Perché questa dimenticanza? Qual è lo scopo della legge e cosa vuol dire celebrare solo le vittime delle foibe, qual è la conseguenza logica, prima ancora che storica o politica, di questa scelta? Faccio tre ipotesi:
1) Lo Stato italiano non celebra le altre vittime perché nega l’esistenza delle stragi precedenti commesse dai fascisti e dai nazisti? In questo caso il nostro paese si qualificherebbe come uno Stato negazionista della realtà storica, ma anche, di fatto, della Shoah, visto che fra le vittime dei nazisti in questo territorio ci sono anche migliaia di ebrei deportati nei campi di sterminio. Siccome però il 27 gennaio vengono commemorati i crimini nazisti, perché non ricordarli anche pochi giorni dopo, il 10 febbraio? Forse perché il paragone renderebbe chiare le vere ragioni politiche e militari delle foibe e finirebbe per ridimensionare drasticamente il loro peso storico, mettendo in evidenza la strumentalizzazione che ne viene fatta?
2) Lo Stato italiano non riconosce le altre vittime perché sono in larga parte (ma non solo, come già precisato) jugoslave, dunque non le ritiene degne di essere nemmeno menzionate? In questo caso sarebbe un paese esplicitamente razzista, direi razzista «a norma di legge», un paese che considera gli slavi una razza inferiore, esattamente come pensavano i nazisti. Tale impostazione sembra confermata dall’uso ossessivo di stereotipi antislavi e antibalcanici, attraverso rappresentazioni grottesche dei partigiani jugoslavi come subumani assetati di sangue, ad esempio nei due film dedicati a questi temi e prodotti o co-prodotti dalla Rai. Insomma: le stragi contro gli slavi non devono essere ricordate, per poter rappresentare le stesse vittime dell’invasione e dei crimini precedenti come carnefici sanguinari, capovolgendo di fatto la realtà.
3) Lo Stato italiano non celebra le altre vittime perché riconosce il giusto diritto di chi le ha uccise, si identifica con quella parte? Se infatti il nostro paese non ritiene le stragi, le fucilazioni di ostaggi, perfino i campi di concentramento un crimine da ricordare, è forse perché le ritiene «vittime collaterali» di una guerra giusta? Se mi identifico con l’ideologia, gli scopi, gli intenti di una parte in guerra, ne giustifico anche le uccisioni, posso arrivare perfino ad accettare qualunque metodo utilizzato, perfino veri e propri crimini di guerra, perché ritengo comunque troppo importante l’obiettivo. Si direbbe in questo caso, molto cinicamente, che il fine giustifica i mezzi. Ciò significa dunque che il nostro paese si identifica con i responsabili di quelle uccisioni, ritenendo giusto il loro operato e «sacrificabili» le loro vittime? Stiamo parlando della dittatura fascista e della sua politica violenta e imperialista, ma anche dell’ideologia nazista con le sue pratiche genocidiarie. Ne condividiamo talmente i fini da evitare di menzionare le loro vittime inermi negli anni della Seconda guerra mondiale?
Vorrei essere smentito, ma non mi pare ci siano altre ragioni logiche per non ricordare le altre vittime di violenze sul confine orientale, oltre a quelle delle foibe. In sostanza il testo della legge, escludendo esplicitamente le altre vittime, rende il nostro paese negazionista, razzista o nazista, o tutte e tre le cose insieme. Chi celebra il Giorno del Ricordo così com’è previsto oggi dalla legge, in maniera consapevole o meno, sta, di fatto – conequenzialmente – condividendo questi principi.
Ricordare cosa?
Dunque, ricapitolando: dal testo della legge che istituisce il Giorno del Ricordo sono stati sapientemente espunti gli elementi più problematici, quelli che rendevano il quadro complesso e comprensibile. Le altre vittime di violenze in quegli stessi anni in quegli stessi luoghi, uccisi dai fascisti e dai nazisti, non sono nemmeno nominate dalla legge; le altre vittime non italiane delle foibe, ambiguamente citate, non sono mai state celebrate, rappresentando la vicenda con caratteri puramente etno-nazionali; gli esuli, con il loro grande portato di sofferenza, finiscono sempre più in secondo piano; infine il contesto storico (che pure in qualche modo appariva nel testo della legge) è non solo oggi del tutto escluso, ma viene addirittura criminalizzato, minacciato e ora anche aggredito fisicamente chi cerca di ricordarlo.
Cosa rimane quindi, dopo diciannove anni di Giorno del Ricordo? Una celebrazione in cui le uniche vittime «accettabili» sono quelle uccise dagli jugoslavi alla fine di un lungo percorso di violenze (che non deve essere ricordato, a costo di vivere sotto ricatto continuo), ma solo se italiane e anche se fasciste, filonaziste o addirittura responsabili di crimini di guerra. Insomma, celebrato in questa forma e con queste modalità (e in parte secondo il dettato della legge stessa), il Giorno del Ricordo finisce necessariamente per essere una commemorazione fascista, nella quale si celebra quella ideologia, i suoi obiettivi e i suoi martiri.
Come molti altri studiosi, non credo che si debbano ignorare le vicende storiche accadute sul nostro confine orientale nella prima metà del Novecento. Anzi, raccontate correttamente, includendo tutte le fasi di violenza e tutte le vittime, esse potrebbero avere un’importante funzione educativa. Ma si tratta di modificare urgentemente il testo della legge, la quale, come si è visto, è intrinsecamente revisionista e in contrasto con i valori della democrazia e della Costituzione repubblicana. In maniera più o meno consapevole, chi commemora oggi quella giornata – per ignoranza o convinzione – finisce per celebrare il fascismo, contribuendo quindi a creare un terreno fertile alla fine repentina della democrazia che abbiamo così faticosamente riconquistato ottant’anni fa. Chi è complice è colpevole, allora come oggi. Rifiutarsi di onorare quella legge, pretendere di modificarla, è una scelta democratica, urgente e necessaria, ora più che mai.
Eric Gobetti è uno studioso di fascismo, Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore di due documentari (Partizani e Sarajevo Rewind), esperto in divulgazione storica e politiche della memoria, ha collaborato più volte con il canale televisivo Rai Storia.
28/2/2023
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!