Il governo si toglie il cappello davanti alle imprese

Il governo si toglie il cappello davanti alle imprese

Quando si dice che questo governo non può far peggio del Pd, o che con uno specifico decreto si adottano piccoli miglioramenti rispetto al passato (laddove quei miglioramenti davvero ci fossero) in un determinato ambito, non significa affatto, per conseguenza quasi automatica, che si possono sperare reali miglioramenti delle condizioni delle classi popolari o che quelle condizioni non possano addirittura peggiorare. Figuriamoci se si può parlare, in questi casi, di una qualche inversione di tendenza. Tutta la vicenda del cosiddetto decreto dignità, sta lì a dimostrarlo.

Una cosa dovrebbe apparire immediatamente chiara leggendo il decreto dignità: non è affatto un modo per iniziare “a licenziare il Jobs Act”, come con ovvia enfasi ha affermato il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. A dire il vero, questo decreto è, sul piano del lavoro e della precarietà, un rimedio omeopatico ad una malattia grave. Il modo più chiaro per rendersene conto è di valutare questo decreto mettendolo di fronte alla realtà.

I lavoratori resteranno sotto ricatto

Gli ultimi dati Istat sull’occupazione confermano un quadro di estrema precarietà lavorativa. I lavoratori dipendenti con contratti a termine superano a maggio di quest’anno i 3 milioni, registrando una crescita rispetto ad un anno fa del 16,4%. Ma un segnale più evidente di cosa voglia dire essere un lavoratore a termine lo fornisce la durata dei contratti, messa in luce dal rapporto sulle comunicazioni obbligatorie.

Si legge in quel rapporto che quando un lavoratore si trova di fronte ad un’offerta di lavoro a termine, in 8 casi su 10leggerà sul contratto da firmare una scadenza inferiore ad un anno. Che non gli permetterà di certo di programmare il proprio futuro, mentre all’impresa darà la possibilità di spremere il lavoratore (scusate il politically incorrect. Lo so: si dice, di essere più competitiva). A quel lavoratore non è dato sapere il motivo dell’assunzione a termine. Sarà perché l’impresa ha una nuova importante commessa? Deve sostituire lavoratori in ferie? Sarà per un aumento inaspettato della produzione? Il lavoratore non lo sa, l’azienda sì. Così è avvenuto anche nella stipula dei 340.466 contratti di durata fino a 30 giorni, dei 115.361 contratti di lavoro di 3 giorni, nei 174.330 casi di contratti di un giorno. Sono i numeri riferiti soltanto al primo trimestre di quest’anno, che confermano una tendenza consolidata.

Quel lavoratore continuerà a dover accettare gli stessi contratti senza causale anche dopo l’approvazione del decreto dignità, dal momento che questo decreto non lo prevede per i contratti di durata fino ad un anno. Non lo prevede, quindi, per 8 nuovi contratti su 10. Certo, se quel lavoratore farà il bravo, se saprà reggere i ritmi di lavoro, non si lamenterà troppo (meglio non lamentarsi affatto), non si iscriverà ad un sindacato, magari accetterà con coraggio di fare lavori pericolosi senza quelle fastidiose protezioni che costano troppo, potrà sperare in un rinnovo. Ma probabilmente l’azienda preferirà evitare di inserire la causale, perché – fanno intendere le categorie imprenditoriali – inserendola si rischiano quei fastidiosi contenziosi, orpelli burocratici che spaventano le imprese e non attraggono gli investitori, che hanno bisogno di avere mani libere, anche su come, quando e fino a che limite sfruttare la forza lavoro. Allora l’impresa potrà cercare un altro lavoratore: nuovo contratto, nessuna causale, altro lavoratore costretto a fare il bravo, reggere i ritmi di lavoro, ecc. ecc. Oppure confermerà lo stesso lavoratore, che basterà far rimanere a casa venti giorni e poi riassumerlo con un contratto nuovo. E come prima: nessuna causale, stesso lavoratore costretto a fare il bravo, reggere i ritmi di lavoro, ecc. ecc. Mentre le imprese godranno di nuovi strumenti di riduzione del costo del lavoro.

Di Maio toglie il cappello davanti al padrone

Sul punto riduzione del costo del lavoro, infatti, è tempestivamente intervenuto il ministro pentastellato, Di Maio. Dal momento che già dalle prime bozze del decreto le imprese avevano alzato un pochino la voce (nonostante per loro col decreto dignità cambi davvero poco, soprattutto sul piano del comando nel ciclo produttivo) il governo, di tutta risposta e a capo chino, non solo ha approvato un decreto depotenziato rispetto alla pur timida bozza iniziale, ma con Di Maio ha voluto subito tranquillizzare le imprese e lo ha fatto da destra, parlando di prossimi interventi per la riduzione del costo del lavoro.

Che è il tema che più sta a cuore alle imprese e sul quale, mai stanche, battono le associazioni imprenditoriali, considerandolo un architrave della competitività. Ma la riduzione del costo del lavoro si traduce, praticamente sempre, in riduzione dei salari reali. Soprattutto quando l’annuncio, come in questo caso, viene fatto per raccogliere i favori delle categorie imprenditoriali. La conseguenza ovvia, è la scelta imprenditoriale di non puntare sugli investimenti potendo contare sulla svalutazione competitiva del lavoro, come dimostra l’impoverimento produttivo che ha assunto in Italia un carattere strutturale.

Senza contare, poi, che il decreto dignità dovrà passare per l’approvazione del Parlamento, dove già si prevedono modifiche peggiorative di un provvedimento che, come abbiamo visto, è già poco ben poco dignitoso per le classi lavoratrici. Si ipotizzano interventi per ridurre il già minimo impatto delle causali sui rinnovi di contratto e pee reintrodurre i voucher. Insomma, misure che favoriranno ulteriormente le categorie imprenditoriali, che guarda caso su questi temi battono la grancassa.

Le decisioni restano in mano all’impresa

Ora, stando così le cose, tutta la restante parte sul precariato contenuta nel decreto dignità – quale la riduzione delle proroghe fino ad un massimo di 24 mesi anziché 36 ed in numero di 4 e non più 5 – risulta più che altro un modo per dare al provvedimento la parvenza dell’organicità, necessaria in chiave simbolica. Poi, però, se si entra nella materialità delle cose, fatta di lavoratori precari inseriti nel ciclo produttivo, di catene di montaggio, di commesse al supermercato, di braccianti nei campi, di fattorini che trasportano un pacco di Amazon o un pasto caldo, si nota che aver ripristinato l’obbligo della causale solo per i rinnovi contrattuali non rafforzerà la capacità contrattuale dei lavoratori, soprattutto dentro un quadro di impoverimento produttivo e competitività basata sui bassi salari che di precarietà si alimenta, perché la flessibilità rimane completamente nelle disponibilità d’impresa.

È l’impresa che continuerà a decidere se rinnovare o no un contratto, quale tipologia applicare (che rimangono le stesse, nessuna esclusa), i motivi dell’eventuale rinnovo che difficilmente gli verranno contestati, permanendo tutte le basi di ricattabilità del lavoratore. Su questo punto, un intervento utile sarebbe stato quello previsto nel dossier Workers act di Sbilanciamoci!, che prevede, “una volta che i (pochi) contratti temporanei fossero ricondotti alla fisiologia”, di “istituire una strumentazione, anche processuale, realmente efficace nel sanzionare gli abusi, riconoscendo un ruolo attivo alle organizzazioni sindacali” mediante “l’utilizzo di strumenti processuali modellati sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro (art. 28, l. n. 300/1970) per contrastare il ricorso illegittimo al lavoro temporaneo. Tale soluzione avrebbe il duplice positivo effetto di sconfiggere la solitudine di ogni lavoratore precario, esposto al ricatto del mancato rinnovo, e di responsabilizzare a pieno le organizzazioni rappresentative dei lavoratori in ordine alla piaga del precariato”.

Ma un intervento di questo tipo prevede un approccio davvero orientato alla tutela dei lavoratori, e non interclassistache si risolve inevitabilmente a favore di chi è più forte, cioè l’impresa rispetto al lavoratore che continuerà a mantenere la stessa debolezza di fronte alle scelte dell’azienda. Quest’ultima continuerà a poter gestire il ciclo produttivo quale funzione dipendente esclusivamente dal profitto, che continuerà a poter essere ricercato anche all’estero.

Un’arma spuntata contro le delocalizzazioni

Già, perché anche rispetto al contrasto delle delocalizzazioni il decreto del governo risulta un’arma spuntata. Non solo il vincolo a mantenere l’attività produttiva per la quale si è ricevuto il finanziamento è di soli 5 anni, francamente irrisorio, ma il decreto fa riferimento ad aiuti di Stato, “Fatti salvi i vincoli derivanti dai trattati internazionali”. Ma quei trattati internazionali, con riferimento all’UE, gli aiuti di Stato non li consentono. In più, risulta esclusa tutta una serie di forme di finanziamento, come ad esempio le esenzioni fiscali. Per capirci, può essere utile un esempio recentissimo di delocalizzazione: quella della Honeywell di Atessa, che ha spostato l’intera produzione in Slovacchia, lasciando a casa quasi 500 lavoratori.

In questo caso lo Stato ha mostrato alta generosità nei confronti della multinazionale, che ha beneficiato: di oltre 4,5 miliardi di lire nel 1999 grazie ai benefici della Legge 64 del 1986; di una serie di finanziamenti con la famosa Legg488, per un ammontare complessivo di circa 4,5 milioni di euro; 1,8 milioni di euro per credito d’imposta sfruttando la Legge 388; qualcosa come un miliardo di euro di esenzioni fiscali, beneficiate dal 1992 al 2002. Anche con il decreto dignità la Honeywell avrebbe delocalizzato senza rimetterci un solo centesimo, tra aiuti per finanziamenti produttivi ricevuti oltre cinque anni prima e aiuti, come le esenzioni fiscali, che non rientrano tra le fattispecie del decreto.

Il decreto non tenta nemmeno di garantire una continuità produttiva imponendo alle imprese che vorranno andare all’estero almeno l’impegno a trovare compratori per mantenere una continuità produttiva, come avviene in Francia con la legge Florance, che certo non si può dire opprimente rispetto alle imprese. Non si sta parlando di collettivizzazione dei mezzi di produzione, ma di semplici norme che almeno facciano apparire questa martoriata Repubblica fondata sul lavoro, anziché sul profitto d’impresa.

Insomma, viene mantenuto il principio della assoluta libertà d’impresa che può svolgersi (in contrasto con la Costituzione) anche in opposizione al principio di utilità sociale, purché si paghi. Vuoi licenziare tanti lavoratori e delocalizzare? Basta pagare una sanzione. Vuoi licenziare un lavoratore? Basta pagare un risarcimento.

Il jobs act rinnovato, Poletti reintegrato

E infatti, sul lato individuale il decreto dignità non ripristina l’articolo 18 nella formulazione originaria, cioè con la reintegra: si limita ad aumentare il risarcimento minimo e massimo, di cui potranno godere, però, perlopiù i lavoratori con molti anni di anzianità lavorativa. Infatti, Dal momento che il risarcimento si calcola in due mensilità per ogni anno di servizio, per avere un risarcimento superiore alle 24 mensilità fino ad oggi previsto, il lavoratore ingiustamente licenziato deve aver lavorato in quell’azienda più di 12 anni.

Altro che “licenziare il Jobs act”! Le basi su cui si fondano il Jobs act e il decreto Poletti rimangono tutte, praticamente inalterate rispetto alla determinazione dei rapporti di produzione. Ricordiamolo: l’impianto di fondo di quei due provvedimenti è la generalizzazione della precarietà e solo in questi termini può dirsi siano provvedimenti riusciti.

Insomma, tutto il quadro normativo favorevole alle imprese, che viene fuori da anni di governi di centrodestra e centrosinistra è del tutto confermato e lascia praticamente mano libera su ogni fronte all’impresa. Insieme a tutte le forme di contratto precario, infatti, rimane perfettamente in piedi il contratto a tutele crescenti, l’articolo 18 nel decreto dignità non è nemmeno menzionato, le clausole che permettono al datore di lavoro ampia possibilità di decisione unilaterale circa la flessibilità sul part-time restano tutte, il controllo a distanza dei lavoratori non è messo in discussione. E il datore di lavoro continua a poter contare anche su altri strumenti normativi come il famigeratoarticolo 8 della manovra di ferragosto voluto dal governo Berlusconi in alleanza con Lega, che permette alle aziende di derogare in peius i contratti collettivi e le leggi.

Altro che passi avanti

A questo punto, chiunque provi a considerare con cognizione di causa ed in maniera complessiva il decreto dignità, almeno per quanto riguarda la materia lavoro, non può parlare di passi avanti, nonostante il trentennale degrado del lavoro portato avanti da governi tecnici e politici, di centrodestra e di centrosinistra e che ha visto nel Pd uno tra i più determinati e convinti esecutori di quel degrado.

Un’inversione di tendenza si misura con lo spostamento dei rapporti di forza. E questi non si modificano soltanto non peggiorando le cose o apportando piccole migliorie specifiche e puntuali. Anche star fermi, nelle attuali condizioni, significa spostare il peso dei rapporti di lavoro a favore delle imprese, perché, ad esempio, mentre si mantengono le attuali condizioni, la frammentazione dei lavoratori aumenta, indebolendoli progressivamente come classe.

Certo, i rapporti di forza si spostano non sul terreno legislativo, ma questo è pur sempre un terreno che influenza i rapporti esistenti, contribuendo quantomeno ad accelerare, rallentare, forzare o mitigare delle condizioni. E se guardiamo complessivamente a come questo governo è intervenuto sul lavoro precario, si nota che, lungi dal contrastare la precarietà, ha creato un’illusione. Mentre getta fumo negli occhi degli strati più deboli del mondo del lavoro, tra l’altro avendo gioco facile visti i risultati degli ultimi governi, il governo M5S-Lega cerca di saldare intorno a sé un consenso che gli permetterà con più facilità di portare avanti ulteriori attacchi alle classi popolari, intervento sulle pensioni (altro fumo negli occhi), sul fisco con la flat tax (accelerando la redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto), favorendo le classi privilegiate.

Il ruolo insostituibile delle lotte dei lavoratori

Ora, questo non vuol dire che bisogna fingere di non vedere che una soluzione può apparire, presa di per sé, immediatamente migliorativa rispetto a quelle adottate in materia di lavoro dai ultimi precedenti governi. Prevedere le causali al rinnovo appare come un aspetto immediatamente migliorato rispetto alla loro eliminazione completa; così come la limitazione dei rinnovi per un massimo di 24 mesi appare un miglioramento rispetto ai precedenti 36 mesi. Ma occorre tenere conto, oltre quanto detto esaminando il decreto dignità, di due questioni rispetto al procedere delle istanze dei lavoratori: primo, se il governo Pd dava corpo a politiche di destra contando sull’assenza di opposizione sociale per il fatto di essere considerato un partito di sinistra, il governo M5S-Lega porta avanti politiche di destra contando di inibire l’opposizione sociale gettando fumo negli occhi con palliativi considerati di sinistra.

La conseguenza di quella inibizione – ed è il secondo punto – è il rischio di trascurare il “ruolo insostituibile delle lotte rivendicative dei lavoratori” che sono, anche rispetto al procedere delle riforme sociali, un fattore “di stimolo incessante” (per usare le parole di Bruno Trentin). Le conseguenze le conosciamo, avendole viste nel corso dell’approvazione del Jobs act, quando le lotte rivendicative furono assenti, se non limitatissime o condotte con colpevole ritardo.

Inutile, quindi, pensare di incalzare l’esecutivo, o i partiti politici che lo compongono, sul programma di governo, su quello elettorale o su dichiarazioni spurie di questo o quel leader. Non si farebbe altro che rincorrere la loro agenda politica, invece di sviluppare analisi, proposta, rivendicazioni e lotte di classe, che hanno necessariamente bisogno di piena autonomia.

Carmine Tomeo

7/7/2018 www.lacittafutura.it

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