Il lavoro ingiusto al femminile
Una ricerca promossa dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma, esplora il gender-gap, le condizioni lavorative e le rappresentazioni simboliche dello sfruttamento
Sono ormai tantissimi gli studi e i report pubblicati da enti e istituzioni che evidenziano le crescenti disuguaglianze nel mondo del lavoro. Le scelte politiche ed economiche attuate nel nostro paese negli ultimi decenni hanno determinato un aumento del numero di lavoratori e lavoratrici precarie e un incremento di quello che abbiamo iniziato a chiamare «lavoro povero». Molte persone, nonostante svolgano un’attività retribuita, non riescono ad affrontare con serenità e dignità la propria vita perché i costi di beni e servizi sono aumentati e i salari reali sono diminuiti.
Questo affanno affligge un numero crescente di persone, soprattutto chi svolge lavori poco qualificati o chi è occupato nelle attività di cura più scarsamente retribuite. Ma come ogni altra forma di disuguaglianza, anche questa non si distribuisce in modo omogeneo nella popolazione ma riguarda maggiormente alcuni soggetti, in particolare giovani, immigrati e donne. Anche se il tema della discriminazione su base etnica o di genere è oramai patrimonio comune, ancora troppo poco spesso si va a fondo ad analizzare i rivoli, le declinazioni e le complessità che ci stanno dietro. È un lavoro politico però, che non può essere demandato.
Nel 2020 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, affermava che «il mondo del lavoro è ingiusto con le donne». Difatti, anche se in Italia nel corso degli ultimi sessant’anni molte cose sono cambiate, ci troviamo ancora in una società segnata da profonde disparità. La partecipazione lavorativa delle donne è inferiore a quella degli uomini almeno di diciotto punti percentuali, le donne sono impiegate in settori meno retribuiti e più soggetti a sfruttamento, hanno contratti part-time e guadagnano mediamente meno dei colleghi maschi anche a parità di mansioni e responsabilità. Talvolta il part-time è percepito come un rimedio al gap nella partecipazione lavorativa, ma ciò che rende grave questo fenomeno è che per oltre due terzi delle donne si tratta di una condizione involontaria, e parliamo di una quota superiore di venti punti percentuali rispetto alla media europea. La struttura familiare e i contesti lavorativi sono così intrisi di mentalità patriarcale che si dà per scontato che siano mogli e madri a doversi sacrificare per conciliare lavoro ed esigenze familiari; quindi sono soprattutto le lavoratrici a ridurre o cambiare l’orario di lavoro, interrompere l’attività professionale a seguito della nascita di un figlio, a essere licenziate. La pandemia e la situazione economica attuale ha acuito ulteriormente queste disuguaglianze, impattando ancora di più sulla vita e le scelte di tantissime donne.
Una ricerca promossa dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma, realizzata nei due anni successivi l’inizio della crisi pandemica, è partita da queste constatazioni per esplorare le condizioni lavorative e le rappresentazioni simboliche che le donne hanno del lavoro. Stavolta a parlare non sono stati solo i dati e le statistiche, ma le voci e i racconti di trentaquattro donne di età e professioni differenti che vivono a Roma. Il percorso di ricerca ha esplorato alcuni temi cruciali che riguardano il lavoro retribuito ma anche quello non retribuito domestico e di cura, la conciliazione dei tempi di vita, la genitorialità, l’esperienza dello smart working, la partecipazione ai processi decisionali. Le storie raccontate sono frutto di percorsi soggettivi, ma rappresentano anche l’intersezione di caratteristiche che hanno a che fare con il genere, la provenienza geografica, il tipo di istruzione, l’età e anche la classe sociale di appartenenza, la presenza o meno di reti familiari, la collaborazione dei partner o di altre reti di supporto.
Le donne intervistate mostrano un certo attaccamento al lavoro perché è percepito come il principale pilastro della loro autonomia. L’importanza che viene data all’attività retribuita, tuttavia, non è da ricondurre solamente alla soddisfazione delle esigenze materiali e all’emancipazione dalla sfera domestica, ma anche a una serie di significati simbolici che riguardano la libertà e la costruzione di identità e relazioni sociali. Eppure questa «libertà» mostra molte ambiguità dal momento che le stesse donne raccontano di essere esposte a fenomeni di precarietà e sfruttamento lavorativo. Le difficoltà incontrate all’ingresso nel mondo del lavoro, la scarsa qualità lavorativa, le discriminazioni subite rispetto ai colleghi – non solo in termini retributivi ma anche di opportunità – vengono apertamente raccontate dalle intervistate.
Le più recenti riforme attuate in Italia (la legge Fornero del 2021, il Jobs Act del 2016), in linea con le trasformazioni avvenute sin dagli anni Novanta in un’ottica di deregolamentazione e neo-liberalizzazione del mercato del lavoro, hanno reso sempre più precarie e instabili le carriere di tante persone, acuendo i divari di genere. Il moltiplicarsi di forme contrattuali atipiche, ma anche l’abbassamento dei salari reali, costringe molte donne, soprattutto le più giovani, a svolgere doppi lavori. A questo si aggiunge il progressivo indebolimento dei servizi e della spesa pubblica e una diffusa asimmetria nella distribuzione dei carichi familiari. Nonostante le intervistate abbiano consapevolezza di questi meccanismi, difficilmente mettono in discussione la scelta di lavorare.
Alcune intervistate evidenziano un disallineamento tra aspettative e realtà all’interno di una società che incita a formarsi per la realizzazione professionale ma che al contempo mortifica il lavoro, riducendo o eliminando i principali diritti sociali ed economici. Anche chi si ritiene soddisfatta della propria attività lavorativa, critica fortemente le modalità con cui deve svolgerla, come la scarsa retribuzione e le poche garanzie. Spesso viene delineata un’organizzazione del lavoro ostile alle donne, caratterizzata da una strutturazione di genere della gerarchia lavorativa e da una cultura androcentrica che premia maggiormente gli uomini e squalifica le donne.
Anche il tema della maternità è segnato da discriminazioni. Molte donne dichiarano di essersi sentite in una posizione di maggior ricattabilità perché percepite come meno produttive. Molte, in sede di colloquio, hanno dovuto dichiarare la loro intenzione nell’avere o non avere dei figli. Sappiamo, infatti, che moltissime donne sono costrette a ridurre l’orario oppure sono obbligate a dimettersi. A tutto questo si aggiunge la doppia presenza casa-lavoro e l’imperativo a impegnarsi per il lavoro riproduttivo che, come afferma Silvia Federici, produce «il più prezioso prodotto che appare sul mercato capitalistico: la forza lavoro».
Le intervistate elaborano riflessioni molto interessanti sul tempo liberato e sulle trasformazioni del lavoro, oltre che sui rischi derivanti dalla diffusione dello smart working in assenza di una sua regolamentazione. Come messo in evidenza anche da molte autrici, lo smart working rischia di diventare uno strumento di maggior (auto)sfruttamento e controllo, che costringe a tempi di lavoro più lunghi non retribuiti e incastra in tempi che confondono lavoro produttivo e riproduttivo.
Più complesso appare il quadro con riferimento alla capacità di rivendicazione collettiva rispetto alle questioni di genere e, più in generale, dei diritti sociali, economici e lavorativi. Nonostante la diffusa consapevolezza delle discriminazioni subite in ambito lavorativo e nonostante il desiderio di una trasformazione culturale e sociale, manca il senso di «potere» inteso più strettamente come «poter fare qualcosa». Anche se alcune donne partecipano attivamente nella sfera pubblica e politica, nella maggior parte dei casi prevale un disimpegno politico, una rassegnazione e una sfiducia sia verso la classe politica sia verso le mobilitazioni dal basso. Pur rivendicando l’importanza di reti di solidarietà, la maggior parte di queste donne cerca una salvezza solitaria. Prevale un adattamento e un riflusso nel privato piuttosto che tentativi di mettere in pratica qualche forma di organizzazione e resistenza. Tali tendenze non stupiscono se lette alla luce di quel più ampio processo di depoliticizzazione della società e indebolimento delle azioni collettive, ma degli agenti di rappresentanza e dei corpi intermedi. Appaiono, quindi, deboli gli strumenti politici e non è chiaro il «come fare» per costruire una riflessione comune a cui faccia seguito un’azione collettiva per la trasformazione dello stato di cose.
Questi sono alcuni dei temi che sono emersi dalla ricerca e che ci sembrano utili per mantenere vivo il dibattito sulle disuguaglianze sociali e di genere derivanti da condizioni strutturali che vengono ignorate se non addirittura alimentate da molte scelte politiche. Ci troviamo in un’epoca pervasa da narrazioni di destra, conservatrici, discriminanti e eteronormate, che provano ad annullare le conquiste fatte finora e a reprimere le lotte attuali. È una fase di precarietà di massa, dove le persone escluse dal mercato del lavoro vengono descritte come parassite e improduttive. È necessario articolare proposte di cambiamento concrete in grado di raccogliere l’insoddisfazione e dare espressione a questa consapevolezza, che comunque rimane alta anche tra chi è poco coinvolta in processi partecipativi. È il momento di mobilitarci per rivendicare i diritti lavorativi, economici e sociali, superare l’approccio patriarcale dominante e attaccare il sistema capitalistico che estrae valore dalle vite delle persone.
Chiara Davoli è attivista e sociologa. Ha un assegno di ricerca presso l’Università di Siena ed è co-autrice insieme a Valeria Tarditi di Lavoro Diseguale. Voci. esperienze ed immaginari delle donne (Castelvecchi, 2023).
8/4/2023 https://jacobinitalia.it
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