Il lavoro nel tritacarne dell’autonomia differenziata
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“Proprio perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l’uguaglianza, la forza della legislazione deve sempre tendere a mantenerla”
Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale
Prima di prendere di petto l’argomento, credo necessario non trascurare alcuni aspetti che danno conto del contesto entro il quale sta compiendosi quello che a tutti gli effetti si profila come uno sgretolamento dello stato unitario nel segno dell’ingiustizia e della disuguaglianza.
I primi decisivi colpi d’ariete sono venuti dalle politiche neo-liberiste, condivise e attuate con perseveranza bipartisan, tanto dalle coalizioni di centrodestra quanto da quelle di centrosinistra che anzi, a ben vedere, riscuotono a questo riguardo un non invidiabile primato cronologico e sistematico.
L’inarrestabile spinta a contrarre il perimetro di intervento dello Stato sulla base del mantra che riconosce nel privato il luogo delle virtù e nel pubblico il ricettacolo di tutti i vizi ha avuto come diretta conseguenza l’inaridimento dei principi di giustizia, di uguaglianza e di solidarietà e dei fondamentali diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro.
Il processo di erosione dell’architrave su cui poggia la Costituzione procede da tempo con gli stivali delle sette leghe ed ha avuto come conseguenza il progressivo impoverimento dei cittadini e del sistema di protezione sociale, bersaglio privilegiato di mercatisti e monetaristi.
Con la modifica del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra nel 2001, si è schiuso l’uovo del serpente covato dalle forze politiche e sociali che puntavano ad una balcanizzazione del paese, essenzialmente fondata sull’idea che le risorse di una determinata regione debbano in parte cospicua rimanere nel territorio ove sono state prodotte.
Fu così che il 28 febbraio 2018 Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sottoscrissero una pre-intesa con il governo Gentiloni per vedersi attribuite ulteriori “forme e condizioni particolari di autonomia”, in attuazione della cosiddetta autonomia differenziata.
Al primo drappello di regioni apripista si sono poi aggiunte nella richiesta di autonomia anche Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche: tutte regioni del Nord e del Centro Italia.
Per quanto si rivolti la frittata e si tenti di fare apparire l’operazione come nient’altro che la realizzazione dell’obiettivo di una maggiore vicinanza dell’amministrazione pubblica ai bisogni dei cittadini, è del tutto evidente che l’intera operazione ha come obiettivo quello di sostituire alla solidarietà e all’universalità dei diritti fondamentali regimi e prerogative diversi e diseguali fra i cittadini della Repubblica: una secessione dei ricchi, come si è detto, ed una vulnerazione profonda dell’unità e dell’identità politica del paese. Già oggi, del resto, è noto come i cittadini delle regioni più deboli godano di un minore livello di servizi pubblici, in quantità e in qualità rispetto agli altri italiani, particolarmente, ma non soltanto, nella sanità e nell’assistenza.
Strada facendo, le materie su cui si dovrebbe esercitare la potestà legislativa differenziata da parte di alcune regioni sono progressivamente aumentate, nell’opacità di un confronto portato avanti nel silenzio, quasi si trattasse di una licitazione privata, nella totale assenza di un dibattito trasparente, considerato che in gioco c’è un caposaldo dell’intera architettura democratica dello Stato in buona parte svuotato delle sue funzioni.
L’articolo 5 della Costituzione che sancisce solennemente che la Repubblica italiana è “una e indivisibile” se ne va in cavalleria: l’Italia dei ricchi (per altro assai differenziata al suo interno) si divora quella dei poveri.
Ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali: questo l’eccezionale ventaglio delle materie su cui si potrà esercitare il festival della disuguaglianza chiamato autonomia differenziata.
Merita inoltre sottolineare che le regioni potranno modificare il concorso degli enti locali alla manovra di finanza pubblica, rimodulando a livello territoriale l’assetto di governance, gli equilibri di finanza pubblica e rafforzando l’autonomia tributaria.
“Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi”
Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’economia
Ora mi soffermerò specificamente su un tema, quello del lavoro, o per meglio dire, dei lavoratori, anch’essi destinati ad essere divisi e stritolati dentro il tritacarne dell’autonomia differenziata.
Anche qui, un breve ma utile passo indietro.
Le organizzazioni padronali hanno sempre lavorato per la divisione dei lavoratori allo scopo di minarne alla radice l’unità di classe.
All’indomani della seconda guerra mondiale, con un accordo firmato tra industriali e organizzazioni dei lavoratori nel dicembre del 1945, furono istituite le cosiddette “gabbie salariali”, fondate sulla parametrazione dei salari sulla base del costo della vita nei diversi territori. A parità di lavoro e di mansioni i lavoratori percepivano retribuzioni diverse, con differenziali che potevano aggirarsi fino al 30%.
Il sistema delle gabbie salariali incontrò una progressiva e sempre più forte opposizione di sindacati e lavoratori. L’autunno caldo e le grandi lotte operaie che si svilupparono a partire dal 1969 misero radicalmente in discussione questo modello discriminatorio e un grande sciopero generale travolse le resistenze padronali. Il 18 marzo 1969 i sindacati e Confindustria si accordarono per l’abolizione delle zone salariali e l’unificazione progressiva dei salari che si compì del tutto nel 1972.
Si conquistò così l’unicità del contratto collettivo nazionale di lavoro che ha sempre rappresentato la precondizione dell’unità dei lavoratori che il padronato ha sempre cercato di spezzare.
Nel corso degli anni a seguire, i tentativi di reintrodurre la divisione, formale, sostanziale e non soltanto geografica fra i lavoratori hanno preso le strade più diverse: dal rifiuto dei governi e delle maggioranze parlamentari di applicare il fondamentale divieto di licenziare “senza giusta causa o giustificato motivo” nelle aziende con meno di 16 dipendenti, alla mancata introduzione dell’efficacia “universale” dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ciò che ha consentito la proliferazione dei cosiddetti “contratti pirata” (erano quasi un migliaio alla fine del 2019), sottoscritti da pseudo-sindacati inventati da associazioni imprenditoriali minoritarie al fine di ledere profondamente le condizioni di lavoro, i diritti e il reddito dei lavoratori.
Il 5 agosto 2011, al culmine di una drammatica crisi delle borse europee e di un forte ampliamento del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, il governatore uscente della BCE, Jean Claude Trichet, e quello in pectore, Mario Draghi, scrivevano una lettera riservata al governo italiano, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi, indicando una serie di misure da attuarsi al più presto. All’ottemperanza di tali misure veniva implicitamente condizionato il sostegno della BCE, attuato attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato italiani sul mercato secondario.
La lettera, un vero e proprio “memorandum” – come quello con cui cinque anni più tardi la Bce di Draghi, insieme al Fondo monetario internazionale e all’Unione Europea, mise in ginocchio la Grecia di Tsipras – indicava misure tassative da intraprendersi con decreto-legge, da convertirsi in legge dal Parlamento di lì a pochi mesi: una violazione plateale della sovranità nazionale. E cosa imponeva quel diktat?: piena liberalizzazione dei servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala, riforma dell’intero sistema di contrattazione collettiva, depotenziando il contratto nazionale a vantaggio di accordi aziendali in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro sulle esigenze specifiche di ciascuna impresa, liberalizzazione delle norme che regolano assunzioni e licenziamenti (in sostanza, soppressione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), riduzione della spesa pensionistica e degli stipendi nel pubblico impiego, attuazione di una riforma costituzionale che rendesse stringenti le regole di bilancio, ovvero la “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio.
E’ noto come andò a finire. Nel dicembre dello stesso anno Belusconi si dimise e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, estrasse dal cilindro Mario Monti che divenne presidente del consiglio di un governo bipartisan (da Forza Italia al Pd) che fu il solerte esecutore testamentario del memorandum Draghi –Trichet.
Il colpo d’ariete su salari, stipendi, diritti e welfare, condiviso da centrodestra e centrosinistra, fu di rara potenza e diede un ulteriore impulso a quel processo di precarizzazione e balcanizzazione del lavoro a cui ora l’autonomia differenziata dovrebbe assestare il colpo mortale. La potestà arbitraria delle regioni ridurrà salari, stipendi, assetti previdenziali, ad un caleidoscopio: un’autentica manna per la Confindustria che vedrebbe compiutamente realizzata la scomposizione del sindacato nazionale e la riduzione della contrattazione collettiva ad un simulacro.
Ve ne sarebbe più che a sufficienza per una rivolta, o per una “insurrezione”, per usare la parola d’ordine usata dal collettivo della Gkn che si è impegnato nella direzione esattamente opposta: unire i lavoratori in un percorso di risoggettivazione e di autorganizzazione che sembra essersi perso nelle nebbie di una stagione nella quale il conflitto, la lotta di classe sono praticati solo da chi sta in alto contro chi sta in basso.
Dino Greco
Gia segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia
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