Il lavoro precario fa male anche ai beni culturali

Il turismo produce sempre più ricchezza, ma le ricadute sull’occupazione sono pochissime. Chi lavora nei musei e in altri siti d’interesse è costretto a scioperare contro contratti e compensi indecorosi

Erano un esercito di invisibili fino a qualche tempo fa. Ora una pattuglia qui, un’altra lì, anche i lavoratori precari nel variegato e mortificato ambiente dei beni culturali sono diventati un po’ più visibili. Nessuno però sa quanti siano, l’unica certezza è che sono tanti. Sottoscrivono appelli, protestano organizzano sit-in oppure dialogano con le commissioni parlamentari e con le amministrazioni comunali. Quando possono scioperano. Sono in fermento i lavoratori di due luoghi simbolo dei nostri beni culturali come Pompei e Firenze: nel capoluogo toscano uno sciopero indetto sabato 1 luglio dai dipendenti di Opera, l’azienda che ha in appalto i servizi di alcuni musei, tra i quali le Gallerie degli Uffizi, ha imposto a queste ultime di tener chiusi i battenti per tutto il pomeriggio.

E così questi lavoratori e queste lavoratrici dimostrano che senza di loro molte biblioteche sono costrette a chiudere o a ridurre gli orari, in tanti archivi non c’è nessuno che faccia un inventario o che scenda nei depositi a recuperare faldoni pieni di documenti. E che in tanti musei – statali, civici, diocesani – diverse sale restano inaccessibili o i servizi didattici sono sospesi o si fatica a stendere una gara d’appalto. Che insomma l’intero sistema dei beni culturali si blocca se dovesse incrociare le braccia chi, pur in possesso di elevati titoli di studio, con esperienze in Italia e all’estero, storico dell’arte, archeologo o amministrativo, decidesse di rifiutare contratti indecorosi, finte partite iva o la minaccia di vedersi sostituito da truppe di volontari.

Come tappabuchi

Per cinque giorni, nel dicembre scorso, è rimasto chiuso il museo nazionale della preistoria della Val Camonica, nel bresciano, il principale dei tre siti dove è custodito il patrimonio di incisioni rupestri e di reperti delle antiche popolazioni camune. La notte del 30 novembre 2022 ai dodici dipendenti di una cooperativa che garantivano ai tre siti di funzionare (due musei e un parco grande quasi 15 ettari di proprietà dello stato) arriva l’email di una cooperativa, la Cosmopol di Avellino, che è subentrata alla precedente dopo aver vinto il nuovo bando d’appalto emesso dalla direzione regionale dei musei lombardi, struttura del ministero della cultura. Il messaggio è di poche righe: i dodici lavoratori – per lo più antropologi e archeologi – sarebbero stati riassunti dalla Cosmopol e avrebbero preso servizio l’indomani mattina dopo aver firmato il contratto in un centro commerciale. Paga oraria: 5 euro e 37 centesimi lordi.

Nessuno dei dodici, tutti professionisti con anni di esperienza, ha firmato. Con la precedente cooperativa la paga oraria era di 5,87 euro. Sempre una miseria, però vedersela abbassare ancora ha provocato un sussulto. Per vincere il bando la cooperativa ha offerto un ribasso del 33 per cento, accettato di buon grado dalla direzione regionale dei musei (che ha affidato alla stessa cooperativa undici luoghi d’arte in tutta la Lombardia). Analogo ribasso si è riversato sui compensi. Sono intervenuti i sindacati, è stata avviata una trattativa. La retribuzione è stata portata a 6,25 euro, ancora al di sotto della decenza, comunque meno umiliante della precedente. Purtroppo le buste paga fino a quella del maggio scorso erano ancora inchiodate a 5,37 euro.

L’associazione Mi riconosci? mette in risalto il valore sociale del lavoro nei luoghi dove si fa cultura, e denuncia il velo d’invisibilità e di retorica che lo circonda

Per cinque giorni, comunque, finché è durata la trattativa sindacale, il museo della Val Camonica è rimasto chiuso. Un cartello incollato all’ingresso avvisava i visitatori. D’altronde i funzionari dipendenti dal ministero in servizio presso i tre siti della Val Camonica sono sempre di meno (ora sono nove) e senza i dodici della cooperativa i musei non restano aperti. “Abitiamo tutti in zona, qui siamo nati e questi luoghi e questi beni culturali li sentiamo nostri”, dice una portavoce dei lavoratori precari, che prudenzialmente preferisce l’anonimato. “Ma le condizioni di lavoro sono proibitive e nonostante il fatto che siamo essenziali per la tutela di questo patrimonio, siamo considerati dei tappabuchi”, aggiunge.

Il lavoro precario, come anche quello povero, nei beni culturali è parte del fenomeno che affligge l’intero mercato del lavoro e che ha spinto il Partito democratico di Elly Schlein e altre forze di opposizione a presentare un disegno di legge che fissa a nove euro lordi il salario minimo orario. Tuttavia il precariato di archeologi o bibliotecari aggiunge un tassello dai caratteri propri. “Il 2022 è stato un anno eccezionale per il numero di visitatori di musei, siti monumentali e archeologici, e anche per gli incassi. Tuttavia le ricadute in termini di buona occupazione sono pochissime”, dice Salvo Barrano, a lungo presidente dell’associazione nazionale archeologi (Ana) e ora membro del comitato direttivo.

Nel 2015 è nata l’associazione chiamata Mi riconosci? Fin dal nome scelto, si è voluto rompere il velo d’invisibilità, denunciando la scarsa considerazione per la qualità e la quantità dello studio e dell’impegno necessari per essere buoni archeologi o buoni bibliotecari, e facendo risaltare il valore sociale del lavoro nei luoghi dove si fa cultura, a prescindere dalle ricorrenti retoriche sul loro eccezionale pregio. “Tante volte”, incalza Micaela Procaccia, presidente dell’associazione nazionale archivisti italiani (Anai), “siamo dovuti intervenire per correggere il bando di una pubblica amministrazione che intendeva inventariare il proprio archivio richiedendo competenze molto generiche e offrendo contratti scadenti e compensi indecorosi”.

Nel gennaio scorso l’associazione ha presentato un questionario al quale hanno partecipato quasi 2.400 persone, tutti lavoratori a vario titolo precari. Meglio, lavoratrici, perché sono le donne il 76 per cento. Per la maggior parte, il 63,5 per cento, hanno tra i 26 e i 39 anni, ma tra i 40 e i 60 anni c’è un buon 28 per cento. Il 40 per cento ha una laurea specialistica, una quota a cui vanno aggiunti un 6,3 per cento che ha un dottorato, un 11 per cento che possiede il diploma di una scuola di specializzazione e un altro 11 per cento che ha un master di primo o di secondo livello.

Il varco della legge Ronchey

Alla domanda sulla propria condizione lavorativa il 68 per cento ha risposto di essere dipendente di una cooperativa o di una ditta appaltatrice, e solo meno della metà (42 per cento) con un contratto a tempo indeterminato. Il 26 per cento è a tempo determinato. Il resto copre la triste gamma dei contratti precari: co.co.co, stagionali, tirocinanti, interinali, a progetto, alcuni (il 3,5) sono reclutati dal servizio civile. E c’è anche un 2,6 per cento che lavora in nero.

Il contratto mette solo parzialmente al riparo da retribuzioni indecenti. Appena il 6 per cento è tutelato dagli accordi sottoscritti dai sindacati e da Federculture, l’associazione delle imprese culturali. La quasi totalità, complici le amministrazioni pubbliche che emettono i bandi e che consentono di prevedere figure professionali molto generiche, lavora con contratti cosiddetti multiservizi (mense scolastiche, ditte di pulizia) o del commercio o fiduciari, cioè da vigilanti, o ancora da metalmeccanici o da edili. E così quasi sette su dieci tra storici dell’arte, archeologi, archivisti o bibliotecari guadagnano tra i quattro e gli otto euro netti all’ora.

Il 32 per cento, invece, ha la partita iva (più di sei su dieci) oppure effettua prestazioni occasionali (circa quattro su dieci), ma appena il 24 per cento, pur figurando tutti come liberi professionisti, può stabilire un compenso e quante siano le ore di lavoro. E la retribuzione? Anche in questo caso il 40,2 per cento dichiara di guadagnare tra i quattro e gli otto euro netti all’ora.

Il fenomeno del precariato è drammaticamente cresciuto negli ultimi decenni. Secondo gli attivisti di Mi riconosci? tra le cause c’è la legge promossa dall’allora ministro Alberto Ronchey nel 1993 che avrebbe aperto il varco all’esternalizzazione di molti servizi. Non solo quelli aggiuntivi (bookshop, caffè, guardaroba, allestimento di mostre), anche alcuni essenziali. In occasione dei trent’anni dal varo di quella legge, nel gennaio scorso l’associazione ha organizzato una manifestazione davanti al Colosseo.

Nel frattempo il blocco delle assunzioni, i concorsi a lungo rinviati e l’incalzare dei pensionamenti hanno svuotato soprintendenze e luoghi della cultura. Gli organici del ministero, pur ridotti negli anni, sono carenti per oltre il 40 per cento e la media d’età dei dipendenti sfiora i 60 anni. Si è appena svolta la prima prova di un concorso per 518 posti, indetto dal ministero della cultura per arruolare archeologi, architetti, storici dell’arte e soprattutto bibliotecari e archivisti, tuttavia le immissioni di nuovo personale avvengono con il contagocce e con tempi troppo lenti rispetto a quelli dei pensionamenti.

In alcune regioni la situazione è comatosa. In Calabria sono previsti in organico 19 funzionari presso la soprintendenza archivistica e bibliografica: ce n’è uno solo. Ventotto sono le unità in servizio presso la soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Reggio Calabria e Vibo Valentia, quando dovrebbero essere 102. “Nel giugno 2022”, racconta Rosanna Carrieri, storica dell’arte e attivista di Mi riconosci?, “è stato sottoscritto un accordo tra la direzione regionale musei della Calabria e l’azienda Promozione Italia per impegnare 250 volontari del servizio civile: è gravissimo che si usi il volontariato per mansioni che spettano a professionisti e che vanno retribuite”.

Il lavoro precario, povero e sfruttato dilaga, nonostante chi lo svolge si assuma elevate responsabilità nella tutela del patrimonio culturale. Ester Lunardon, 31 anni, lavora dal 2017 come archeologa. È stata prima dipendente di cooperative e ora ha la partita iva, non per sua scelta. Ha il compito di vigilare che nel cantiere di un’opera edile, pubblica o privata, se spunta un reperto occorre fermarsi e segnalare alla soprintendenza. Poiché questa è cronicamente sotto organico, sulle spalle di Lunardon grava un pesante onere, sebbene imposto dalla legge: quello di esigere che si rallenti o si riveda il lavoro che chi la retribuisce ha invece interesse a svolgere in tempi stretti.

Un mondo senza rappresentanza

“Molti miei colleghi hanno abbandonato l’archeologia, uno fa il pasticciere, un altro il capotreno. E anch’io sono tentata di mollare. Se piove o se mi ammalo io non lavoro e non guadagno”, dice Lunardon.

“È un mondo del lavoro senza rappresentanza, diviso contrattualmente in tanti comparti, dal commercio alla vigilanza, e che il sindacato non riesce a intercettare”, ammette Claudio Meloni, a lungo responsabile beni culturali della Cgil, appena andato in pensione. “Ma una responsabilità enorme”, aggiunge, “ricade sulle amministrazioni pubbliche che lasciano proliferare questi contratti e che impongono a migliaia di persone di svolgere lo stesso lavoro dei loro dipendenti a condizioni peggiori. Abbiamo chiesto almeno un censimento del fenomeno; non ci si riesce perché nei bilanci del ministero il costo dei lavoratori precari va sotto altre voci, come la fornitura di servizi”.

Gabriele Magnolfi, 34 anni, lavora nelle biblioteche comunali di Prato. Insieme a un’altra trentina di colleghi è un dipendente di Coopculture. Lavorano nelle biblioteche anche una decina di impiegati comunali, la gran parte dei quali proviene da uffici d’altro genere. Magnolfi gestisce le collezioni librarie, si occupa degli acquisti e degli scarti, organizza la didattica dei bambini e mantiene i rapporti con le scuole. Dopo diversi anni come volontario del servizio civile, ora è assunto a tempo indeterminato. Però è inquadrato come operatore sociale e ha una paga oraria di poco superiore agli 8,30 euro lordi. “Faccio un lavoro che mi piace, dalla biblioteca si instaura un rapporto con la città in tutte le sue componenti, dal centro alle periferie”, dice Magnolfi, “ma abbiamo scarsi margini di autonomia, il nostro lavoro è sempre in bilico e i compensi sono bassissimi. Io resisto, mentre molti miei colleghi hanno lasciato la biblioteca per tentare la via dell’insegnamento. O hanno cambiato completamente lavoro”.

Alcune amministrazioni, come il comune di Verona per i musei civici o quello di Oristano per le biblioteche, hanno deliberato che nei bandi s’imporrà l’adozione del contratto di Federculture. Dal canto suo il ministero ha annunciato che sarà istituita una piattaforma pubblica, chiamata Ad Arte, che gestirà la vendita dei biglietti online di 43 musei e siti archeologici statali dotati di autonomia (dagli Uffizi a Capodimonte, da Pompei al Colosseo), sostituendo i concessionari privati.

Desta clamore il caso di Firenze, con il quale si tocca da vicino quanto sia difficile ripristinare corretti rapporti di lavoro quando il precariato, anche nei beni culturali, è sfruttato oltre ogni limite. Il comune ha deciso che le biblioteche comunali e l’archivio storico siano gestite da personale interno, e ha bandito dei concorsi. La scelta è stata accolta con favore dal centinaio di bibliotecari e archivisti che da anni, alcuni addirittura da venti, svolgono quel servizio in condizioni di precariato. E che nella primavera del 2020 avevano fondato l’associazione dei “Biblioarchiprecari”, promuovendo manifestazioni di protesta.

Poi, però, è arrivata la doccia fredda. I lavoratori precari denunciano il fatto che il comune intende sì, come si dice, internalizzare i servizi, tuttavia escludendo chi da tempo contribuisce a mandarli avanti. Ci trattano “come qualcosa da rottamare”, si legge in un comunicato. Dal comune si replica che “nell’ambito delle procedure concorsuali, nel rispetto delle norme, potranno essere valorizzate le esperienze svolte, con assegnazione di punteggi specifici oltre a quelli delle prove”.

Basterà questa rassicurazione? Per il momento non sembra, visto che il 16 giugno si è svolto uno sciopero che ha preceduto di qualche settimana quello del 1 luglio indetto dai lavoratori degli Uffizi e di altri istituti fiorentini come il Bargello e l’Opificio delle pietre dure. La protesta di questi ultimi lavoratori riguarda il bando emesso lo scorso maggio dalla direzione degli Uffizi per rinnovare l’appalto di alcuni servizi (biglietteria, assistenza alle visite, didattica). Il bando, accusano Cgil, Uil e Rsu, prevede sia una riduzione dei posti di lavoro, sia peggiori condizioni salariali. “Siamo stufi di lottare per un salario dignitoso”, si legge in un comunicato sindacale, “mentre intorno, in una delle città più visitate al mondo, il turismo produce quotidianamente una ricchezza enorme”.

Francesco Erbani

4/7/2023 https://www.internazionale.it/

Immagine: Nel parco archeologico di Pompei, Napoli, maggio 2023. (Silvia Bazzicalupo, Anadolu Agency/Getty Images)

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