Il lavoro schiavizzato e malpagato uccide una madre.

La morte di Paola, bracciante pugliese di 49 anni, tre figli, è orrenda per molti motivi. Per come è avvenuta, al termine di una vita fatta di alzatacce notturne, lunghi trasferimenti in autobus e ancora più lunghi turni di lavoro sotto il sole, in aggiunta alle fatiche domestiche in una famiglia di cinque persone.

Ma soprattutto per l’indifferenza con cui la magistratura locale ha considerato “normale” che si possa e quindi debba morire di fatica. Un “nulla osta” dato per telefono, senza ordinare autopsia e referto medico. Meno di quanto si fa per un incidente stradale. Il menefreghismo degli apparati dello Stato arriva a chiudere il cerchio dello schiavismo vigente nei rapporti di lavoro, così come vuole la filosofia del Jobs Act. L’impresa ha sempre ragione. Il lavoratore lavora e deve stare zitto. Se muore mentre lavora non ci interessa neanche sapere perché. Se le fosse caduto addosso il tetto o un macchinario, forse sarebbe intervenuto contestando qualche mancanza rispetto alla legge. Se scoppia il cuore o arriva un ictus, tutto ok.

Due elementi emergono con prepotenza da questa vicenda. Paola lavorava per 27 euro al giorno, la metà della paga contrattuale. Riteneva questa remunerazione da elemosina comunque indispensabile per tirare avanti la faiglia. A qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo in termini di fatica. E’ la condizione dei disperati, dei disposti a tutto per sopravvivere. Anche se si rischia la morte tanto quanto attraversare il Mediterraneo su un gommone.

Quando la disperazione è a questo punto, qualsiasi salario diventa accettabile. L’alternativa è la fame o l’emigrazione. Se si vive la povertà in solitudine, se si cerca di nasconderla dietro la porta di casa, se si cerca di risolvere individualmente il problema della sopravvivenza, se non ci si collega ed organizza con gli altri che vivono l’identica condizione, si finisce così, stremati e disperati. Spremuti come un limone e seppelliti in fretta.

Il secondo elemento è la protervia dello Stato che asseconda fedelmente l’ingordigia del profitto. E minore è quel profitto – in agricoltura si vive la concorrenza dei paesi mediterranei, ancora più poveri e quindi capaci di offrice merci a prezzi stracciati – più rabbiosa la spremitura del lavoro. La miseria dell’impresa infierisce sulla miseria di chi lavora, in una gara senza fine a chi morirà un attimo più tardi.

La tragedia della condizione meridionale – quella che Renzi, con invidiabile cinismo aveva appena definito “piagnistei” – è tutta plasticamente rinchiusa in questa storia esemplare. E una madre che si ammazza di fatica, in questa filosofia e in questo Stato, non merita né un referto medico né una lacrima.

E’ una filosofia omicida e chi se ne fa promotore lo sa perfettamente. E’ ora di capirlo anche da parte nostra.

5/8/2015 www.contropiano.org

L’articolo di cronaca, qui di seguito, è ripreso da il manifesto.

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San Giorgio Jonico, bracciante stroncata dal caldo e dalla fatica durante la raccolta

Gianluca Coviello

Si muore nelle cam­pa­gne. Come se fosse nor­male, ine­vi­ta­bile, il giu­sto pegno da pagare per avere i pomo­dori o l’uva in tavola. Si muore nel silen­zio, senza scal­pore. L’ultima a cadere sotto il sole è stata Paola, 49 anni. È diven­tata un fan­ta­sma, per set­ti­mane la noti­zia non è tra­pe­lata. Il cuore della brac­ciante di San Gior­gio Jonico si è fer­mato la mat­tina del 13 luglio, sotto un ten­done per l’acinellatura dell’uva, nelle cam­pa­gne di Andria, in con­trada Zagaria.

A dif­fon­dere la noti­zia è stata ieri la Flai Cgil Puglia ren­dendo pub­blica una sto­ria che mostra più di qual­che lato oscuro. «Quel giorno — ha dichia­rato Pep­pino Deleo­nar­dis, segre­ta­rio gene­rale Flai Cgil Puglia — Paola è uscita da casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare a lavoro ed è tor­nata in una cassa da morto». È stata sepolta il giorno dopo, sem­bra senza autop­sia e con il nul­lao­sta “tele­fo­nico” dato dal magi­strato di turno. Il pm non si è recato sul posto per­ché, rife­ri­sce la poli­zia di Andria, il parere del medico legale è che si sia trat­tato di una «morte natu­rale, forse un malore per il caldo ecces­sivo». Non ce l’ha fatta a sop­por­tare il caldo di quel ten­done che, nei giorni peg­giori, può supe­rare i 40 gradi.

«Paola era uscita fuori dal ten­done — rac­conta Deleo­nar­dis — poco prima di acca­sciarsi al suolo. Soli­ta­mente, l’acinellatura è tra i lavori pagati meno in agri­col­tura: 27–30 euro a gior­nata, nono­stante i con­tratti pro­vin­ciali sta­bi­li­scano un sala­rio di 52». Secondo la rico­stru­zione del sin­da­cato, Paola sarebbe stata tra­spor­tata diret­ta­mente al cimi­tero di Andria senza l’intervento del 118. In assenza di un referto e soprat­tutto di una autop­sia, è dif­fi­cile rico­struire il reale motivo del decesso. La morte della donna, però, riac­cende ine­vi­ta­bil­mente i riflet­tori su un set­tore, quello agri­colo, carat­te­riz­zato da sfrut­ta­mento ai limiti della schiavitù.

Paola, denun­cia il sin­da­cato, è morta nell’assordante silen­zio delle cam­pa­gne pugliesi. «Lo stesso silen­zio, spesso vicino all’omertà, che cir­conda le oltre 40mila donne ita­liane vit­time del capo­ra­lato pugliese, spesso camuf­fato da agen­zie di viaggi o da lavoro inte­ri­nale — sostiene sem­pre Deleo­nar­dis. Donne tra­spor­tate con gli auto­bus su e giù per tutta la Regione, dalla pro­vin­cia di Taranto alle cam­pa­gne del nord della Puglia».

Dieci giorni fa era toc­cato a Maha­mat per­dere la vita per poche decine di euro nei campi pugliesi. È morto alle 14, pre­su­mi­bil­mente dopo 9 ore di lavoro sfian­cante. Forse anche a cot­timo, 3,5 euro a cas­sone. Senza assun­zione. «L’infortunio mor­tale di Maga­mat — ricorda la Flai Cgil — è avve­nuto nell’azienda Mariano in pro­vin­cia di Lecce, già oggetto del Pro­cesso Saber che vede impu­tati varie aziende per ridu­zione in schia­vitù e capo­ra­lato». Paola, invece, quel giorno stava lavo­rando presso l’azienda Orto­frutta Meri­dio­nale della fami­glia Ter­rone, che ha 250 dipen­denti e un fat­tu­rato che tocca i 12 milioni di euro.

Maha­mat, suda­nese. Paola, ita­liana. Acco­mu­nati da una morte simile e dal biso­gno. A Paola quei soldi ser­vi­vano per cre­scere i figli. Pur di non per­dere quel lavoro, che svol­geva da 15 anni, aveva rinun­ciato a qual­siasi azione legale con­tro chi non le pagava i con­tri­buti. Per lei nean­che il “lusso” dell’assegno di disoc­cu­pa­zione qua­lora non avesse tro­vato occu­pa­zione per un periodo. Maha­mat e Paola. Gli ultimi che pagano per tutti.

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