Il lavoro? Sempre più irregolare
Affrontare il tema del lavoro irregolare presenta ampi margini di complessità legati sia alla natura del fenomeno, che per definizione si sottrae alle informazioni ufficiali, sia alle variegate modalità con cui si presenta.
Stando alle definizioni ufficiali, utilizzate dall’Istat, le unità di lavoro irregolare sono quelle «relative a prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia lavoristica, fiscale e contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative»[1]. Dal quadro d’insieme, riportato dall’Istituto Nazionale di Statistica e aggiornato fino al 2014, emerge che il contributo al pil del lavoro irregolare ammonta a 77,2 miliardi di euro, corrispondente a circa il 5,3% del valore aggiunto totale. A questi dati corrisponde una stima di 3 milioni 667mila unità di lavoro irregolare, di cui 2 milioni 595mila relative a posizioni di lavoro subordinato e 1 milione e 72mila a lavoro indipendente (o autonomo).
L’irregolarità aumenta rispetto ai primi anni della crisi (2011) di oltre 100 mila unità, effetto probabilmente dovuto alla tendenza delle imprese a ridurre il costo del lavoro al fine di non essere espulse dal mercato e allo stesso tempo alla disponibilità dei lavoratori ad accettare un rapporto di lavoro anche non regolare per evitare una contrazione drastica del reddito dovuta alla disoccupazione. In termini relativi, il tasso di irregolarità, cioè l’incidenza delle unità di lavoro non regolari rispetto al volume complessivo di unità di lavoro, passa dal 14,5% del 2011 al 15,7% del 2014. Guardando alla distribuzione settoriale, è il comparto dei servizi alle persone a registrare un tasso di irregolarità inquietante: 47,4%, seguito con distacco dai livelli registrati in agricoltura (17,5%) e nelle attività legate a commercio, trasporti, magazzinaggio, alloggio e ristorazione (16,5%). Considerando invece i dati annuali rilasciati dall’Ispettorato del Lavoro si nota che nel 2016, il 63% delle aziende ispezionate risulta essere in una qualche situazione di irregolarità.[2]
Sul piano quantitativo, i dati riportati mostrano, nonostante la sottostima endogena, la rilevanza del fenomeno all’interno dell’economia italiana, confermandosi come carattere strutturale della stessa. Tuttavia, è sul piano qualitativo, relativo cioè alle modalità in cui il lavoro nero e le zone grigie di parziale irregolarità si manifestano, che occorre fare luce. Il legame che bisogna tenere presente nel dibattito sul lavoro irregolare non vive esclusivamente sul piano della non conformità alla legge, ma si estrinseca in modo sostanziale nei rapporti di lavoro e nel carico di sfruttamento che questi comportano in svariati contesti. A tal proposito bisogna altresì considerare in che modo gli interventi legislativi che si son succeduti nell’ultimo decennio hanno inciso sul tasso di irregolarità del lavoro, considerando sia quelli mirati all’emersione del fenomeno, cioè alla sua regolarizzazione, sia quelli più strutturali di riforma del mercato del lavoro.
Nella sua accezione più nota il lavoro irregolare si configura come la mancata stipula del contratto di lavoro con la conseguente non dichiarazione degli obblighi contributivi e fiscali. Tuttavia, anche laddove il contratto di lavoro esiste, esistono svariate modalità di parziale irregolarità. All’interno dei rapporti di tipo subordinato, vaste zone grigie sono rappresentate dalla mancata dichiarazione e retribuzione degli straordinari o dai casi in cui questi sono corrisposti in modo forfettario. Sebbene non sia possibile stabilire una relazione di causalità, si tratta di fenomeni che si accompagnano al processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro e in particolar modo all’aumento della quota di lavori a tempo parziale (part-time) che è in molti casi non soltanto involontaria ma soprattutto fittizia, nascondendo cioè un rapporto di lavoro che ha un’intensità pari o molto simile a un lavoro a tempo pieno. Più in generale, come sottolineato da Enrico Pugliese, «nella composizione del lavoro nero sta avendo un peso crescente la quota delle persone il cui lavoro è contrattualizzato in modo atipico, e non ci riferiamo tanto alle nuove forme contrattuali che riguardano il lavoro dipendente a tempo determinato, ma soprattutto all’utilizzo fraudolento e elusivo di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione occasionale e di associazione in partecipazione»[3].
Si aggiungono poi i casi sempre più frequenti in cui i lavoratori vengono assunti in violazione dei contratti collettivi nazionali attraverso il sistema delle cooperative aggiudicatarie dei servizi funzionali all’attività d’impresa. Fenomeni che si espandono a vista d’occhio al pari della rilevanza di questi settori nell’economia, principalmente la logistica e la grande distribuzione, ma anche i servizi pubblici esternalizzati, e che trovano una sponda favorevole proprio nelle riforme del mercato del lavoro. In questo caso, ad esempio, la depenalizzazione del reato di somministrazione fraudolenta di lavoratori, introdotta dal Jobs Act, permette alle imprese di servirsi di cooperative o aziende fittizie per gestire la propria manodopera – assunta da queste ultime con contratti capestro e senza diritti – rischiando soltanto una sanzione amministrativa e non più l’obbligo di assumere direttamente il lavoratore. Il passaggio da reato penale a mera sanzione amministrativa riduce l’effetto deterrente della norma rendendo più conveniente eludere la normativa. Lo confermano gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, secondo i quali rispetto al 2015 vi è stato un incremento di circa il 39% di irregolarità legate alla somministrazione illecita di manodopera e all’applicazione della disciplina del distacco transnazionale dei lavoratori [4]. In particolare, da questi dati emerge che gli illeciti legati ad esternalizzazioni fittizie aumentano del 276% nei servizi legati alle imprese e del 116% in quelli riconducibili al settore della logistica.
Fino ad arrivare alle forme più estreme di questo sistema, come nel caso del caporalato, che ormai riguarda non soltanto le campagne ma sempre più i settori appena enunciati.
Ed è a partire da esempi come questi che l’attenzione andrebbe rivolta non soltanto ai meccanismi che rivelano fattispecie di irregolarità ma anche a come questi siano la rappresentazione plastica del fenomeno di sfruttamento dei lavoratori. Altre modalità vanno ricondotte non soltanto in termini formali rispetto al diritto del lavoro, ma anche rispetto ad altre fonti normative, ad esempio la Costituzione. In alcuni casi ad esempio il diritto del lavoro ammette pratiche in pieno contrasto con la carta costituzionale, in barba al principio della gerarchia delle norme. L’esempio più paradigmatico è quello dei buoni lavoro (o voucher), strumento introdotto nel diritto del lavoro italiano per promuovere l’emersione dei lavori occasionali in agricoltura o per il lavoro domestico, ma il cui uso nel tempo è stato liberalizzato a tutti i settori economici [5]. Sul piano formale, l’Inps ha più volte ribadito [6] che lo strumento dei voucher non è risultato essere efficace contro il lavoro irregolare, essendo stata la sua diffusione più ampia nelle regioni in cui il lavoro sommerso è relativamente più contenuto rispetto alla media nazionale. Allo stesso tempo, l’utilizzo dei voucher è maggiore lì dove la dinamica dei contratti di lavoro è più intensa, a dimostrazione che il lavoro accessorio segue l’andamento del mercato. Come sottolinea l’Inps nella stessa pubblicazione, questa diffusione pare aver accresciuto le zone grigie. Tuttavia, i buoni lavoro rappresentano uno strumento anticostituzionale in quanto non prevedono remunerazione per tutti i diritti sociali e assistenziali costituzionalmente garantiti, dalle ferie alla malattia. Allo stesso tempo, la paga oraria uguale per ogni tipo di attività confligge con l’art. 36 della Costituzione.
Per alcune fattispecie la presunzione stessa di irregolarità non è univoca e spesso viene confermata di caso in caso in sede giurisprudenziale. Un caso tra tutti è rappresentato dalle situazioni in cui il contratto di lavoro applicato non è quello del settore più vicino alle attività svolte dal lavoratore. Il diritto italiano prevede che la scelta della categoria del contratto da applicare spetti all’imprenditore il quale ha come riferimento l’attività principale d’impresa. La linea di demarcazione tra regolarità e irregolarità si fa più sottile.
Altre forme di irregolarità, che caratterizzano soprattutto il lavoro delle giovani generazioni, attengono alla sfera dei contratti di inserimento al lavoro e formazione, come gli stage e i tirocini, ampiamente utilizzati dalle imprese, nonché strumento privilegiato da queste ultime nei rapporti stipulati attraverso il programma Garanzia Giovani (54% sul totale dei rapporti avviati tra il 2014 e il 2015 come riportato nel rapporto di monitoraggio della Corte dei Conti Europea[7]). Ancora una volta, l’utilizzo dei tirocini o degli stage è funzionale all’abbattimento quasi totale del costo del lavoro: attraverso questi strumenti le imprese mascherano veri e propri rapporti di lavoro invocando la natura formativa della relazione, spesso invece assente.
Il tema degli stage e tirocini rimanda inevitabilmente a considerazioni legate al lavoro gratuito o pressoché tale, anch’esso sempre più diffuso. Se, da un alto, il lavoro gratuito nella forma del volontariato assume una forma già regolamentata, dall’altro quel che si osserva sempre più spesso è un uso distorto del volontariato stesso. Sempre col fine di ridurre i costi, i lavoratori vengono assunti sotto la definizione formale di volontari di un’associazione o cooperativa, quando nella realtà sono dei lavoratori dipendenti a tutti gli effetti. In questi casi, la remunerazione, di per sé esigua, si configura nella migliore delle ipotesi come un rimborso spese, eludendo ogni vincolo normativo.
Appare evidente quindi che il lavoro irregolare in Italia rimane una questione strutturale che investe trasversalmente il mondo del lavoro e non è neutrale rispetto alle modifiche normative, sia in positivo che in negativo: legalizzare forme di irregolarità che non lo erano abbatte il fenomeno dal punto di vista quantitativo senza però migliorare le condizioni di chi subisce quel processo. Nel caso inverso, invece, la riduzione dei dispositivi di deterrenza non fa che aumentare l’incentivo a ricorrere a forme irregolari sulla base di un mero calcolo economicistico, come nel caso della depenalizzazione della somministrazione fraudolenta di lavoratori discussa in precedenza. Infine, quel che bisogna tenere presente nella valutazione sistemica del fenomeno è che esso è legato non soltanto alla normativa ma al modo in cui essa accompagna le trasformazioni che investono il sistema economico e i processi produttivi nel suo complesso, come nel caso appunto della frantumazione produttiva incarnata dai processi di esternalizzazione. Il diritto del lavoro infatti non è neutrale ma interviene nella regolazione dei rapporti di forza interni alla produzione, tra imprese e lavoratori, riequilibrandoli o inasprendoli. Attualmente, esso tende a rafforzare l’interesse delle imprese la cui strategia competitiva è basata sulla compressione dei costi e sempre più spesso sul contenimento del costo del lavoro, da raggiungere, prima di tutto, attraverso la frantumazione dei processi e delle filiere produttive e in seconda battuta facendo leva sul potere di ricatto padronale su una forza lavoro disgregata. In questo senso, anche il lavoro irregolare – formale o sostanziale – rientra pienamente nel meccanismo di estrazione di (plus)valore a vantaggio della profittabilità aziendale.
NOTE
1. L’economia non osservata nei conti nazionali, Istat 2016.
2. Rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale 2016, Ispettorato Nazionale del Lavoro.
3 E. Pugliese, «Il lavoro nero», in «Il lavoro che cambia», rapporto presentato a Roma il 2 febbraio 2009 presso la Sala della Lupa a Montecitorio su iniziativa del Cnel in collaborazione con la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, goo.gl/FFAyVe.
4 Il distacco dei lavoratori si configura quando un datore di lavoro mette temporaneamente a disposizione di un altro soggetto uno o più lavoratori per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, concordata e disciplinata da un contratto concluso tra le due parti. Si parla di distacco transnazionale nei casi in cui le due imprese coinvolte abbiano sede in due paesi diversi, n.d.r.
5. Il sistema dei voucher, dopo essere stato abolito per disinnescare il referendum abrogativo promosso dalla CGIL, è stato riproposto con alcune modifiche dal Governo. Rimane esteso a tutte le imprese con meno di cinque dipendenti a tempo indeterminato (circa il 90% delle imprese italiane) che possono utilizzare voucher fino a 5000 euro l’anno. Inoltre, viene ridotto il limite di reddito percepibile da ciascun lavoratore da 7.000 a 2.500 euro. Tuttavia questi limiti non aggrediscono i rischi di lavoro sommerso celato dai voucher. Infatti, secondo la nuova normativa (da confermare col voto del Senato), i datori di lavoro hanno l’obbligo di iscrivere, presso l’Inps, la prestazione un’ora prima del suo inizio, ma hanno tempo tre giorni per annullarla. Ciò implica che un committente non ricevendo controlli può cancellare la prestazione e pagare in nero i lavoratori. Per un approfondimento si veda “Nuovi voucher, stessi abusi: li userà il 90% delle aziende” di Carlo di Foggia e Marta Fana http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/nuovi-voucher-stessi-abusi-li-usera-il-90-delle-aziende/
6. WorkINPS Papers: Il Lavoro Accessorio dal 2008 al 2015 – profili dei lavoratori e dei committenti https://www.inps.it/docallegati/InpsComunica/…/WorkINPS_Papers_3_ottobre.pdf
7. Corte dei conti europea, «Disoccupazione giovanile: le politiche dell’Ue hanno migliorato la situazione? Una valutazione della Garanzia per i giovani e dell’Iniziativa a favore dell’occupazione giovanile», Relazione speciale n. 5/2017, goo.gl/z0P3z1.
Marta Fana
22/6/2017 da MicroMega
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