Il legame nascosto tra lavorare troppo e salute mentale
Winston Churchill è stato molte cose: statista, soldato, scrittore. È stato uno dei primi leader mondiali a lanciare l’allarme contro la minaccia nazista negli anni trenta, ed è poi entrato nell’immaginario globale per la sua lotta in prima linea contro le potenze dell’asse nella seconda guerra mondiale. Mentre era primo ministro del Regno Unito durante la guerra, mantenne un’agenda d’impegni molto faticosa, spesso trascorrendo 18 ore al giorno a lavorare. Durante il suo mandato, inoltre, scrisse un libro dopo l’altro. Alla fine della sua vita ne aveva terminati 43, riempiendo 72 volumi.
Ma Churchill soffriva anche di una depressione paralizzante, che lui chiamava il suo “cane nero” e che lo affliggeva costantemente. Sembra quasi impensabile che potesse essere così produttivo in uno stato così cupo da fargli dire una volta, rivolto al suo medico: “Non mi piace stare sulla fiancata di una nave e guardare in basso verso nell’acqua. Un gesto di un secondo metterebbe fine a tutto”.
Alcuni sostengono che la depressione di Churchill fosse bipolare e che fossero le fasi di mania a permettergli di lavorare così tanto. Ma alcuni biografi spiegano le cose in modo diverso: lo stacanovismo di Churchill non era slegato dalle sue sofferenze, ma era causato da esse. Si distraeva con il lavoro. Se quest’interpretazione vi appare forzata, sappiate che oggi i ricercatori hanno scoperto che lo stacanovismo è una dipendenza comune, che nasce in risposta a un disagio. E, come molte dipendenze, peggiora la situazione che vorrebbe alleviare.
Un percorso comune
Negli Stati Uniti decine di milioni di persone – addirittura il 10 per cento del totale – soffrono di una dipendenza da sostanze a un certo punto della loro vita. Sappiamo bene come le dipendenze possano insinuarsi in noi. In molti casi l’uso di una sostanza, somministrata in maniera controllata per alleviare il dolore di una malattia, si trasforma in un disturbo da abuso. A volte l’uso comincia con la terapia indicata da un professionista, solo che quando il trattamento viene sospeso, il consumo della sostanza prosegue. Quest’ultimo è un percorso comune verso la dipendenza da oppioidi.
Ma tante persone si curano da sole fin dall’inizio. Nel 2018 i ricercatori hanno analizzato un decennio di dati e hanno scritto sulla rivista Depression and Anxiety che, in base alla loro analisi della letteratura scientifica esistente, il 24 per cento delle persone con un disturbo d’ansia e quasi il 22 per cento delle persone con un disturbo dell’umore (come la depressione grave o il disturbo bipolare) si “cura” da sola usando alcol o droghe. Chi ricorre a questa “automedicazione” ha molte più probabilità di sviluppare una dipendenza da sostanze. I dati epidemiologici, per esempio, hanno rivelato che le persone che si “autocuravano” contro l’ansia usando l’alcol avevano una possibilità più di sei volte maggiore di sviluppare una dipendenza persistente dall’alcol rispetto a coloro che non lo facevano.
Ci sono prove inconfutabili che alcune persone “curino” i loro problemi emotivi anche con il lavoro. Questo può portare a una sorta di dipendenza. Molti studi hanno dimostrato una forte relazione tra lo stacanovismo e i sintomi di disturbi psichiatrici, come ansia e depressione, ed è stato comunemente ipotizzato che il lavoro compulsivo porti a questi disturbi. Ma alcuni psicologi hanno recentemente sostenuto la tesi della causalità inversa, ovvero che le persone in realtà “curino” la depressione e l’ansia con un eccesso di lavoro. Come hanno scritto gli autori di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica Plos One, “lo stacanovismo (in alcuni casi) si sviluppa come tentativo di ridurre i sentimenti di ansia e depressione”.
Le persone alle prese con lo stacanovismo possono facilmente negare che si tratti di un problema e quindi non vedere i problemi che stanno cercando di curare
Lo studio del 2016 ha ricevuto grande attenzione per la sua qualità e senza dubbio stimolerà altri test su questa ipotesi nei prossimi anni. Se i risultati saranno validi, e sospetto che lo saranno, la relazione causale potrebbe parzialmente spiegare perché così tante persone hanno aumentato le ore di lavoro durante la pandemia. Per molti mesi, durante i primi lockdown, le persone hanno dovuto affrontare noia, solitudine e ansia; alla fine del maggio 2020, i dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti hanno mostrato che quasi un quarto degli adulti americani aveva riferito sintomi di depressione (nel 2019 erano stati il 6,5 per cento). Forse una parte dei lavoratori si è “automedicata” raddoppiando la propria quantità di lavoro, per sentirsi impegnata e produttiva.
Le persone alle prese con lo stacanovismo possono facilmente negare che si tratti di un problema e quindi non vedere i problemi soggiacenti che stanno auto-medicando. Come può il lavoro essere negativo? Come mi ha detto Anna Lembke, una psichiatra di Stanford, autrice di L’era della dopamina. Come mantenere l’equilibrio nella società del “tutto e subito”, in una recente intervista per il podcast How to build a happy life “anche comportamenti che in passato erano sani e adattivi – comportamenti che noi generalmente, per cultura, considereremmo sani e vantaggiosi – oggi diventano una droga, il che li rende più potenti, più accessibili, più nuovi, più onnipresenti”. Se siete persone che si chiudono nel bagno di casa per controllare le email di lavoro sul telefono, sta parlando di voi.
Inoltre, quando parliamo di lavoro, le persone premiano i comportamenti che creano dipendenza. Nessuno dice: “Accipicchia, hai bevuto una bottiglia di gin in una notte? Sei proprio un bevitore straordinario”. Ma se lavorate 16 ore al giorno probabilmente otterrete una promozione.
Nonostante le decantate virtù di un lavoro svolto al massimo, i costi supereranno quasi certamente i benefici, come di solito accade nelle dipendenze da “automedicazione”. Il burnout (esaurimento), la depressione, lo stress lavorativo e il conflitto tra lavoro e vita privata peggioreranno, non miglioreranno. Inoltre, come mi ha detto Lembke, lo stacanovismo può portare a dipendenze secondarie, come quella da droghe, alcol o pornografia, che le persone usano per “automedicare” i problemi causati dalla dipendenza primaria, spesso con conseguenze personali catastrofiche.
Per trovare soluzioni alla dipendenza da lavoro, ho intervistato la mia collega di Harvard, Ashley Whillans, autrice di Time smart: how to reclaim your time and live a happier life (Tempo intelligente: come riprenderti il tuo tempo e vivere una vita più felice), per un altro episodio di How to build a happy life. Whillans mi ha detto che, tra le soluzioni individuali allo stacanovismo, ci sono una maggiore consapevolezza di come si usa il proprio tempo e un cambiamento di mentalità, che non dia maggiore valore al lavoro rispetto al tempo libero. Mi ha consigliato tre pratiche.
Fate una verifica di come avete usato utilizzato il tempo
Per qualche giorno, annotate con cura le vostre attività principali – lavoro, tempo libero, commissioni – oltre che il tempo trascorso in ognuna di esse e come vi siete sentiti. Annotate le attività che vi generano l’umore più positivo e che hanno per voi più significato. Questo vi darà due informazioni: quanto state lavorando (per rendervi impossibile negare la realtà) e cosa vi piace fare quando non lavorate (per rendere più allettante la guarigione).
Programmate i vostri tempi morti
Gli stacanovisti tendono a minimizzare il valore delle attività extralavorative, definendole come “piacevoli”, e annegandole quindi nel lavoro. È così che la quattordicesima ora di lavoro, che raramente è produttiva, sostituisce un’ora che avreste potuto trascorrere con i vostri figli. Ritagliate del tempo nella vostra giornata per le attività non lavorative, proprio come fate per le riunioni.
Programmate il vostro tempo libero
Non lasciate troppo liberi i tempi morti. Il tempo non strutturato è un invito a tornare al lavoro o a dedicarsi ad attività passive che non favoriscono il benessere, come passare in rassegna i vostri social network o guardare la televisione. Probabilmente avete una lista di cose da fare organizzata in ordine di priorità. Fate lo stesso con il vostro tempo libero, pianificando i passatempi attivi che più apprezzate. Se vi fa piacere telefonare a un amico, non lasciate che questo accada quando, casualmente, avete del tempo, ma programmatelo e rispettate il programma.
Queste indicazioni hanno cambiato la mia vita. Affronto le mie passeggiate, i momenti di preghiera e le sedute in palestra come se fossero incontri con il presidente. E quando non ho nulla in programma, il mio piano consiste letteralmente nel non fare nulla, senza cedere alle distrazioni.
Affrontare una dipendenza da lavoro può fare davvero la differenza nella nostra vita. Ci permette di dedicare del tempo alla famiglia e agli amici. Permette di dedicarci a passatempi non lavorativi che non sono utili, ma solo divertenti. Ci permette di prenderci più cura di noi stessi, per esempio facendo esercizio fisico. È stato dimostrato che tutte queste cose aumentano la felicità o riducono l’infelicità.
Ma affrontare il problema dello stacanovismo non permette comunque di risolvere il problema di fondo che il lavorare così intensamente avrebbe dovuto curare. Forse anche voi siete stati visitati dal cane nero di Churchill. O forse il vostro cane nero ha una diversa forma: un matrimonio problematico, un cronico senso d’inadeguatezza, forse perfino il disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (adhd) o il disturbo ossessivo-compulsivo, tutti fenomeni che sono stati collegati al superlavoro. Smettere di usare il lavoro per distrarsi è un’opportunità per affrontare i propri problemi, magari con l’aiuto di qualcuno, e risolvere così il problema che ci ha spinti a lavorare troppo.
Affrontare il cane può sembrare più spaventoso che rivolgersi semplicemente ai vecchi accalappiacani: il vostro capo, i vostri colleghi, la vostra carriera. Ma alla fine potreste trovare il modo di liberarvi definitivamente di quel cane.
12/2/2023 https://www.internazionale.it/
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sullo statunitense The Atlantic.
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