Il lento declino della ricerca

La ricerca è l’attività alla base dell’avanzamento della conoscenza umana, e di conseguenza è un elemento indispensabile di qualsiasi progresso sia mai stato raggiunto intenzionalmente dall’umanità. L’importanza di tale attività è infatti riconosciuta tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana, che all’Art. 9. recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” [1].

E’ quindi sorprendente che l’attività di ricerca in Italia sia trattata ormai da molti anni come una questione ancillare e in larga misura dispensabile; una “cenerentola” perfino rispetto ad altri servizi essenziali che lo Stato fornisce ai cittadini cronicamente sottofinanziati, come la sanità e l’istruzione. In termini numerici, secondo Eurostat [2], l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel 2021 la spesa dell’Italia in Ricerca e Sviluppo è stata inferiore all’1,5% del Prodotto Interno Lordo (PIL), un valore significativamente inferiore rispetto a quello della media degli stati EU (>2,2%), e ancor meno rispetto a quello di paesi come Svezia, Austria, Belgio, Germania e Finlandia, che spendono più del 3% del loro PIL [3]. Portare la spesa per ricerca e sviluppo al 3% del PIL in ogni Paese è uno degli obiettivi dell’Unione Europea sin dal 2003 [4]. L’esiguità della spesa in questo settore è ancora più evidente se si tiene conto del fatto che, dal punto di vista economico l’Italia, insieme a Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Giappone, fa parte del cosiddetto G7, ovvero il gruppo che riunisce i sette Paesi con la maggiore ricchezza nazionale netta. 

L’atteggiamento bipartisan verso la ricerca

È altrettanto sorprendente che l’atteggiamento nei confronti della ricerca sia stato sostanzialmente uniforme da parte dei diversi schieramenti politici che si sono succeduti al governo del Paese negli ultimi 25 anni. Questi schieramenti hanno condiviso grandi proclami sul ruolo essenziale della ricerca come motore per lo sviluppo in campagna elettorale, a cui ha fatto seguito un sostanziale disinteresse per l’argomento una volta eletti. Questo, nei casi più favorevoli; nei casi meno favorevoli, i Governi, soprattutto di centrodestra, si sono accaniti con riforme che avevano come scopo principale quello di ridurre la spesa da destinare a questo settore, mascherandolo, ma neanche troppo, dietro a slogan come “meritocrazia”, “riduzione degli sprechi” e “aumento dell’efficienza”. Un ridimensionamento particolarmente pronunciato del sistema dell’Istruzione e della Ricerca, in termini sia di finanziamenti che di posti di lavoro, è stato prodotto dall’insieme degli atti normativi della Repubblica Italiana, emanati durante il governo Berlusconi IV, che vanno sotto il nome di Riforma Gelmini (L. 240/2010) [5]. Questa riforma, ha determinato un forte aumento  del precariato universitario, con la conseguente limitazione nella libertà di ricerca dei più giovani; della gerarchizzazione; del fenomeno noto come “fuga dei cervelli”, ovvero l’emigrazione di laureati tra i 25 ed i 24 anni, che tra il 2012 ed il 2020 è sestuplicato; del numero di autocitazioni, in misura maggiore rispetto agli altri Paesi del G20, e di ritrattazioni, legate alle frodi scientifiche. Ma l’effetto forse più grave in assoluto è stato che l’introduzione di un sistema di valutazione basato su indici bibliometrici, da parte dell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR), scoraggia inevitabilmente la ricerca più innovativa e quindi più rischiosa, che richiede lunghi periodi di maturazione, e viene penalizzata da queste valutazioni, come già successo in altri paesi. 

Gli effetti nefasti di quella riforma sono tuttora presenti, dal momento che nessuno dei successivi governi di centrodestra e centrosinistra che si sono alternati alla guida del Paese vi ha posto rimedio; anzi, in larga maggioranza, i Governi hanno continuato i tagli (il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) si è progressivamente ristretto di oltre il 20% tra il 2008 ed il 2019 [5]).

Una visione a breve termine

Effettuare un’analisi esaustiva dei motivi alla base di politiche così poco lungimiranti nei confronti della ricerca non è semplice, ma sicuramente queste testimoniano una mancanza di cultura, di consapevolezza, di visione a lungo termine e di interesse nei confronti del benessere della collettività nel suo insieme. Questa visione limitata è stata espressa più volte nel passato, da leader politici e da loro consiglieri, con frasi mirate a sminuire l’importanza della ricerca e a giustificare i tagli ai finanziamenti. Come esempi tra i più memorabili, soprattutto a causa dell’importanza politica delle persone che le hanno espresse, possiamo ricordarne due: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?” (Silvio Berlusconi), e “l’università italiana è irredimibile e deve essere abbandonata al suo destino di squallore; qualsiasi intervento all’interno di essa sarebbe un vano spreco” (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, economisti). A fronte di queste opinioni senza fondamento espresse da persone che hanno avuto ruoli di primo piano nella vita politica italiana ( Berlusconi Presidente del Consiglio per quattro volte, e Francesco Giavazzi consulente dei Governi Monti e Draghi) e da molti loro collaboratori, i dati scientifici mostrano chiaramente che l’impatto globale della ricerca di un paese cresce linearmente con la quantità dei fondi erogati [6]. Di fatto, l’Italia ha una lunga tradizione di eccellenza, ha prodotto importanti scoperte e contributi alla conoscenza umana in molti campi, tra cui scienza, medicina, arte e cultura; in tempi più recenti, la produzione della ricerca italiana è stata in linea con i valori attesi sulla base degli investimenti, e spesso al di sopra di questi [7]. 

Nonostante la scarsità dei finanziamenti sia il problema principale della ricerca italiana, questa è penalizzata anche da altri problemi strutturali, come le modalità con cui i finanziamenti vengono erogati, ovvero l’assenza pressoché totale di finanziamenti strutturali e l’imprevedibilità dei bandi, che rendono estremamente difficile la programmazione delle attività, se non a brevissimo termine, e la forte burocratizzazione, che sottrae tempo prezioso all’attività di ricerca. Un altro grosso problema è che una quota importante dei finanziamenti non viene assegnata a seguito della revisione tra pari, che consiste nella valutazione dei progetti presentati da parte di colleghi esperti nel settore specifico del progetto e che non si trovino in situazioni di conflitto di interesse nei confronti del progetto e del proponente, che è il metodo standard adottato a livello internazionale, ma assegnati dall’alto, dai decisori politici o da persone nominate da questi, sulla base di logiche spesso arbitrarie, come nel caso dell’Istituto Italiano di Tecnologia, istituito nel 2003 con una dotazione economica notevolmente superiore a quello delle altre istituzioni finanziate dallo Stato, in merito al quale si rimanda alla dettagliata analisi effettuata dalla Senatrice Elena Cattaneo [8], e delle risorse del PNRR, che sono state assegnate secondo progetti predefiniti e non sulla base di proposte nate dalla rete scientifica.

Quello di cui c’è bisogno

Quello di cui il mondo della ricerca italiana ha bisogno per essere rilanciato, sono finanziamenti adeguati, strutturali, per svolgere le attività minime necessarie, di progetti selezionati sulla base della revisione tra pari, nonché l’impulso di un finanziamento straordinario, come auspicato anche dal Premio Nobel Giorgio Parisi che aveva chiesto pubblicamente un miliardo per il sistema di ricerca pubblico. E’ inoltre necessario effettuare un’inversione di tendenza netta rispetto a quanto introdotto dalla Riforma Gelmini, offrendo un maggior numero di posti a tempo indeterminato per giovani ricercatori, dotandoli dei mezzi per lavorare autonomamente, in modo da ridurre la loro dipendenza dal personale più anziano. Infine, è necessario aumentare la trasparenza nelle procedure di selezione e di valutazione del personale e dei progetti, introducendo criteri di valutazione ed organizzazione condivisi con tutto il personale che lavora nel mondo della ricerca, che più di chiunque altro è a conoscenza dei punti di forza e di debolezza della propria Istituzione, anziché calarli dall’alto a seguito di consultazione con cosiddetti esperti che spesso si rivelano essere dotati più di pregiudizi che di competenze. In assenza di queste misure, nonostante la resistenza che ha mostrato finora nei confronti di riforme disastrose e tagli ai finanziamenti, c’è il serio rischio che la ricerca italiana viva un periodo di declino, dal quale sarebbe estremamente difficile risalire: perfino una forte tradizione non può durare per sempre se è trascurata troppo a lungo.

Il Governo Meloni attualmente in carica, sta mantenendo, anche sul piano dell’attenzione al mondo della ricerca, le peggiori aspettative. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 7 agosto 2023 prevede che il Ministero dell’Università e della Ricerca realizzi un risparmio di spesa pari a 57,5 MLN di Euro tra il 2024 ed il 2026, che si sommano ai tagli di 31,5 MLN di Euro già previsti per il 2023-2025 dal DPCM del 4 novembre del 2022, per un totale di 89 MLN di Euro tra il 2023 ed il 2026.

L’unica speranza di riuscire a contrastare l’azione del governo in carica ed ottenere i finanziamenti e le riforme di cui ci sarebbe davvero bisogno è quella di convincere il personale coinvolto nella ricerca a mettersi in gioco personalmente, ad intraprendere delle lotte, all’interno e all’esterno delle proprie istituzioni, per far sì che la ricerca torni ad avere un ruolo centrale nell’agenda politica del Paese. Un compito che, chiaramente, nessuna delle forze politiche che al momento siedono in Parlamento ha la capacità o voglia di svolgere.

Fonti Bibliografiche:

[1] Costituzione della Repubblica Italiana (https://www.quirinale.it/page/costituzione)

[2] Eurostat (https://it.wikipedia.org/wiki/Eurostat

[3] https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/12/03/a-proposito-di-innovazione-quanto-spende-litalia-in-ricerca-e-sviluppo/?refresh_ce=1

[4] https://ec.europa.eu/invest-in-research/action/history_en.htm

[5] https://www.roars.it/il-falso-miracolo-delluniversita-italiana-dopo-un-quindicennio-di-riforme/

[6] Pan R, Kaski K, Fortunato S. World citation and collaboration networks: uncovering the role of geography in science. Sci Rep 2, 902 (2012). https://doi.org/10.1038/srep00902

[7] Uncertain times for Italian science. Nature Mater 3, 575 (2004). https://doi.org/10.1038/nmat1217

[8] https://www.roars.it/caso-iit-la-senatrice-cattaneo-scrive-al-direttore-del-secolo-xix/


Veronica Morea

17/11/2023 https://www.sulatesta.net

È Primo Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ha conseguito la Laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, la Laurea in Farmacia ed il Dottorato di Ricerca in Scienze Farmaceutiche presso l’Università “Sapienza” di Roma. Prima di diventare Ricercatore CNR ha lavorato per più di tre anni presso il Medical Research Council di Cambridge (UK). Dal xxx è iscritta alla CGIL, e dal xxx è RSU. Dal xxx è iscritta a Rifondazione Comunista.

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