Il Libano nell’occhio del ciclone

Pubblichiamo questo articolo a poche ore dalla tragedia che ha colpito Beirut nel pomeriggio di martedì 4 agosto. Avevamo chiesto a Ziad Abdelsamad di esprimerci il suo punto di vista sulla situazione politica, economica e sociale in Libano, dove, da circa un anno, si sta vivendo la più grave crisi dopo la fine, nel 1990, della sanguinosa guerra civile durata 15 anni. Antesignano delle “guerre per procura”, questo martoriato paese è, ancora una volta, vittima dei giochi di potenze straniere ma anche delle sue contraddizioni interne. L’articolo di Ziad Abdelsamad è tragicamente rivelatore dei nessi esistenti tra un sistema basato sul malaffare all’ombra di interessi e conflitti internazionali e la catastrofe di Beirut. I media parlano di incuria dei responsabili del porto nella custodia dell’enorme quantità di nitrato di ammonio. E nulla più facile che pensare all’indolenza di gente araba e per di più levantina. Invece, questo articolo ci fa capire che l’incuria, la cattiva gestione sono sempre funzionali a interessi precisi: dalla piccola corruzione alle grandi speculazioni e alle convenienze politiche. Quand’anche non si trattasse di un incidente, ma di un attentato – come Trump si è precipitato a sostenere – ciò non cambia la sostanza di un popolo sottomesso e ridotto alla miseria da rapaci interessi interni ed esterni. Nulla può rendere meglio la drammaticità politica di quanto successo a Beirut, di questo twitt dell’autore dell’articolo, postato a caldo due ore dopo lo scoppio: «Bisogna impedire al Primo Ministro Hassan Diab di parlare ai Libanesi alle 9.30. La TV deve smettere di trasmettere le sue parole. Non ha il diritto di parlare con noi perché è una marionetta nelle mani corrotte che condividono le magagne di uno stato che sta collassando e che sono responsabili di questo disastro.»

Ziad Abdelsamad, oltre a dirigere l’ANND (Arab NGO Network for Development), è un esponente della società civile libanese e uno dei principali attori della “Rivoluzione del 17 Ottobre 2019”.

La crisi libanese è diventata sempre più connessa e persino dipendente dall’impasse regionale, in particolare a seguito del coinvolgimento di Hezbollah nella guerra siriana e in tutta la regione, dall’Iraq allo Yemen. Nella regione si sono verificate importanti trasformazioni geopolitiche, che potrebbero cambiare la mappa delle sfere di influenza disegnata dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e consolidata dopo la guerra fredda. L’influenza e gli interessi degli Stati Uniti stanno iniziando ad affrontare una sfida da parte di Russia e Cina, che si sono schierate con l’Iran e il suo alleato siriano. L’installazione di basi militari russe sulle coste siriane del Mediterraneo e il tentativo della Cina di accedere al Mare attraverso il Libano ne sono testimonianza, per non parlare dell’occupazione israeliana e delle politiche del suo governo, nonché del nuovo ruolo della Turchia.

Le compagnie cinesi, per esempio, si sono offerte di costruire impianti di gassificazione e centrali elettriche in due punti della costa libanese (Silaata e Zahrani), impianti che richiedono la costruzione e l’equipaggiamento di porti marittimi che potrebbero costituire una testa di ponte cinese sul Mediterraneo. Recentemente, Cina e Iran hanno annunciato un accordo della durata di 25 anni del valore di 400 miliardi di dollari (280 per petrolio e gas e 120 per investimenti in infrastrutture). Ciò permetterà alla Cina di usare il territorio iraniano per installare basi militari e servirsi dei porti del Golfo per le loro navi da guerra. La Russia ha anche accettato di schierare missili terra-aria (SS400) in Iran, in cambio dell’uso dello spazio aereo e dei porti iraniani. Tutto ciò aggiunge una dimensione di sicurezza militare alle trasformazioni in atto.

Gli Stati Uniti hanno reagito, da un lato, imponendo sanzioni a Iran, Siria e Hezbollah libanesi (con il Caesar act[1] entrato in vigore nel mese di giugno) e, dall’altro, intensificando gli attacchi politici attraverso l’Iraq e il Libano e gli attacchi militari in Yemen e Libia contro l’alleanza cinese-russo-iraniana. E mentre gli iraniani restano in attesa delle imminenti elezioni presidenziali degli Stati Uniti, sperando in un cambiamento nella politica estera, il principale candidato alla presidenza, Joe Biden, sembra essere ancora più inflessibile nei confronti di Iran, Cina e Russia.

In questa realtà regionale e internazionale, il Libano si trova di fronte a una crisi complessa e multidimensionale. Il Paese ha dovuto affrontare il collasso finanziario e monetario causato da una significativa riduzione di valuta estera in un’economia che è al 70% basata sul dollaro. Il settore bancario è sostanzialmente in una situazione di fallimento non dichiarato; il debito pubblico ha superato il 170% del PIL, in un momento in cui l’erario statale, la bilancia dei pagamenti commerciali e il bilancio generale dello Stato soffrono di un grave deficit.

Questa situazione è anche il riflesso di una crisi economica profonda, causata soprattutto dalla disintegrazione dell’economia reale e dal passaggio a un sistema basato sulla rendita, dipendente dai settori bancario, finanziario e immobiliare, nonché dal turismo e da altri servizi. Questa crisi economica ha al suo centro una profonda crisi politica: quella della natura e della struttura del regime, che si concretizza in organi di controllo statale inefficaci, Parlamento compreso. La natura consociativa del governo ha trasformato il Consiglio dei ministri in un mini-parlamento in cui sono rappresentati tutti i blocchi. La formula si è diffusa a tutte le istituzioni statali, giudiziarie, amministrative e finanziarie, snaturandole e consentendo l’assunzione di prestiti e spesa senza controllo. Tra il 2005 e il 2015, per esempio, il bilancio statale è stato congelato e mai discusso in Parlamento.

La Rivoluzione del 17 ottobre 2019 è stata provocata dalla crisi finanziaria e dal generale deterioramento delle condizioni economiche e sociali che minaccia seriamente il sostentamento della popolazione in Libano. Si sono verificate chiusure di negozi, licenziamenti di lavoratori e riduzione dei salari. L’inflazione ha portato a un frenetico aumento dei prezzi, spingendo il 50% della popolazione nella povertà e facendo aumentare la disoccupazione a oltre il 25%. Aggravando ulteriormente alcuni aspetti dello squilibrio strutturale dell’economia libanese precedente alla crisi, il settore informale ha raggiunto il 55% della forza lavoro e il tasso di disoccupazione tra i laureati il 36% nel 2018-2019.

La crisi finanziaria è deflagrata nell’agosto del 2019. I prezzi della valuta nazionale hanno iniziato a essere manipolati e le banche hanno imposto restrizioni alle transazioni finanziarie, una tendenza che si è intensificata dopo il 17 ottobre. La Rivoluzione ha chiesto le dimissioni del governo e la nomina di figure indipendenti con l’obiettivo di rafforzare l’indipendenza della magistratura e la messa in stato d’accusa di coloro che hanno sprecato denaro pubblico e causato questa crisi. Ha richiesto l’adozione di misure per recuperare le risorse pubbliche e private saccheggiate, l’organizzazione di elezioni parlamentari anticipate basate su una nuova legge elettorale e l’elezione di un nuovo Presidente. Ha anche chiesto la creazione di uno Stato laico e l’abolizione del consociativismo comunitaristico, in attuazione degli Accordi di Ta’if[2].

In seguito alle dimissioni del governo, le forze politiche al potere hanno iniziato una controrivoluzione, attuando una feroce repressione contro gli attivisti con tutti i mezzi disponibili, incluso l’uso di milizie irregolari (affiliate ai loro partiti) per attaccare i manifestanti nelle loro aree di influenza politica e confessionale, in un Paese in cui i sistemi politici e amministrativi si basano sulla condivisione del potere da parte delle diverse confessioni. Le misure para-militari applicate hanno incluso l’arresto e l’intimidazione di attivisti e giornalisti in violazione della legge, nonché l’infiltrazione di agenti provocatori nelle manifestazioni con l’obiettivo di causare disordini.

Queste pratiche hanno permesso alle autorità di soffocare le voci della Rivoluzione e di nominare un governo fantoccio i cui membri sono solo in apparenza indipendenti, ma in realtà sono leali a coloro che li hanno nominati. Inoltre, il voto di fiducia al governo è stato incostituzionale, poiché solo alcuni parlamentari vi hanno potuto partecipare poiché tutte le vie di accesso al Parlamento erano state bloccate. La seduta è iniziata in assenza del quorum, in palese violazione della Costituzione e il governo ha conquistato la fiducia con una esigua maggioranza. Ha chiesto 100 giorni per attuare le riforme necessarie per superare la crisi. Peraltro, il Libano è stato “chiuso” immediatamente dopo a causa della pandemia di Covid-19 che ha travolto il mondo e portato cambiamenti significativi nelle relazioni internazionali, poiché Europa e America hanno interrotto l’attività internazionale per qualche tempo. In Libano, come in altri Paesi, la pandemia ha rappresentato un salvagente per il regime, che l’ha utilizzata per rafforzare le tendenze autoritarie, reprimere le proteste e trasformare un’emergenza sanitaria in uno stato di emergenza politica per limitare le libertà.

Il periodo di 100 giorni richiesto dal governo per attuare le sue promesse è passato senza alcun risultato degno di nota. Per contro, il Libano ha sostanzialmente bloccato la restituzione dei prestiti esteri e nazionali, sapendo che la maggior parte del debito interno era detenuto da banche libanesi che hanno anticipato la mossa vendendolo – sul mercato internazionale a fondi speculativi, in particolareFalcon Funds) – al 70% del suo valore per proteggere il proprio capitale, trasferito a banche fuori dal Libano. Va detto che esiste una sostanziale sovrapposizione tra il settore bancario e la classe politica dominante. Secondo un rapporto degli esperti dell’Università Americana di Beirut, per esempio, i politici libanesi possiedono il 30% delle azioni bancarie del Paese.

I negoziati con il Fondo Monetario Internazionale sono quindi diventati un passaggio obbligato per ricevere aiuti o prestiti da parte della comunità internazionale. Fin dal 2017 il FMI ha proposto una serie di “riforme” necessarie e la stessa Conferenza dei Donatori CEDRE (Conférence Economique pour le Développement, par les Réformes et avec les Entreprises) tenutasi a Parigi nel 2018 aveva proposto un pacchetto di riforme finanziarie, economiche e amministrative come condizione per ottenere finanziamenti per salvare il Paese.

Tuttavia, a causa del sistema basato sulle quote per confessioni religiose e fazioni, a beneficio di coloro che detengono il potere e dei loro sodali, l’amministrazione politica libanese ha rifiutato di attuare ogni riforma o misura per fermare gli sprechi nel settore pubblico.

Un’area chiave è la riforma del settore elettrico, a partire dalla creazione di centrali elettriche che consentirebbero di risparmiare 1,5-2 miliardi di dollari sprecati ogni anno. Vi è inoltre una crescente necessità di controllare i valichi di frontiera legali e illegali e fermare l’evasione fiscale e doganale nonchè il contrabbando, che costa al Libano circa 4 miliardi di dollari all’anno. Altre riforme richieste includono la ristrutturazione della pubblica amministrazione, che assorbe il 30% del budget annuale a causa della nomina politica degli impiegati, e del rigonfiamento degli stipendi e delle indennità degli alti funzionari pubblici (il 7% dei dipendenti pubblici incassa il 50% degli stipendi, e a volte questi sono pari a 50 volte i salari dei dipendenti ordinari). Inoltre è necessario fermare gli sprechi nei servizi pubblici derivanti dagli affidamenti diretti, in violazione dei principi internazionali in materia di appalti pubblici.

Raccomandazioni di esperti libanesi si sono concentrate sulla necessità di aumentare le tasse che colpiscono i ricchi attraverso le imposte sul reddito, quelle sulle società e sulle successioni immobiliari e di adeguare l’imposta sul valore aggiunto per incidere innanzitutto sui consumi di lusso (le entrate fiscali derivanti dalle imposte sul valore aggiunto costituiscono circa il 70% delle entrate fiscali totali, il che indica la mancanza di equità nel sistema fiscale libanese).

Il Libano non riceverà il sostegno della comunità internazionale se non attuerà seriamente le riforme richieste. Tuttavia, invece di un vero dialogo sociale partecipativo, il governo ha iniziato un conflitto – con le banche, le forze politiche che le sostengono e la Banca centrale – sulla determinazione delle perdite e, quindi, delle responsabilità. Nel suo piano di risanamento, il governo ha invitato il settore bancario a ricapitalizzare, utilizzando gli enormi profitti derivanti da tassi di interesse gonfiati a spese delle finanze pubbliche e ad esentare lo Stato dalla restituzione di una parte significativa del suo debito. Le banche, dal canto loro, con il sostegno della Banca centrale e della classe politica, vogliono che lo Stato sostenga la maggior parte delle perdite e venda i suoi asset per garantire la liquidità necessaria per far ripartire l’economia. Tra queste due opposte posizioni vi è una crescente richiesta di istituire un fondo di recupero in cui far confluire tutte gli asset statali, proprietà, istituzioni e strutture e, attraverso un contratto SWAP, convertire gli asset in denaro nelle banche.

In queste oscillazioni del regime è palpabile l’assenza dei cittadini e dei settori sociali vulnerabili, compresi i poveri e le classi medie ma anche la maggior parte della comunità imprenditoriale estranea ai circoli di potere e di denaro ai vertici della finanza e della gerarchia politica.

In questo impasse interno relativo a una soluzione politica globale, allo stallo regionale e al deterioramento della situazione con l’avanzata della Russia e della Cina, il Patriarca maronita ha chiesto la neutralità del Libano. In senso stretto significa che il Libano dovrebbe ritirarsi da tutti i conflitti regionali; quindi Hezbollah dovrebbe ritirarsi dalla Siria e da altri Paesi e dovrebbe abbandonare il progetto iraniano nella regione. L’altro campo dovrebbe rinunciare al suo sostegno alle politiche del Golfo e degli Stati Uniti e adottare una politica di neutralità positiva nelle relazioni internazionali. La posizione sul conflitto arabo-israeliano e il rifiuto degli insediamenti non sono in discussione, così come l’appartenenza alla Lega Araba e alla comunità internazionale attraverso le Nazioni Unite, con il rispetto dei loro atti istitutivi e dei loro principi. Tuttavia, l’appello del Patriarca riguarda più il diritto internazionale nel suo approccio alla neutralità che la trasformazione e le scelte politiche interne. Esso giunge in un momento di intensificazione del conflitto internazionale nella regione ed è limitato alle soluzioni di politica estera, indipendentemente dalle questioni sopra menzionate.

Qualsiasi soluzione all’attuale crisi dovrebbe essere improntata alle fondamentali rivendicazioni della Rivoluzione del 17 ottobre, al ristabilimento dell’autorità attraverso le dimissioni del governo e alla formazione di un governo con poteri legislativi per attuare le necessarie riforme economiche e finanziarie per sopravvivere alla crisi. Dovrebbe inoltre mirare a rafforzare l’indipendenza della magistratura per consentire l’accertamento della responsabilità della corruzione e applicare misure per recuperare il denaro saccheggiato. Si dovrebbe formare una commissione elettorale indipendente, adottare una nuova legge elettorale ed eleggere un nuovo Presidente della Repubblica.

In questo contesto, la Rivoluzione del 17 ottobre ha reclamato: i) l’istituzione di uno Stato laico, indipendente, con piena sovranità sulle sue decisioni interne e sulla politica estera, compreso il ritiro da ogni asse regionale; ii) il controllo su una politica estera equilibrata che rispetti i propri interessi nazionali; iii) il riconoscimento allo Stato soltanto della rappresentanza del popolo libanese e del diritto esclusivo di possedere armi e decidere la guerra e la pace.

Il Libano può superare questa situazione, che senza dubbio non è temporanea e ha portato a una crisi esistenziale multidimensionale che richiede un approccio globale e soggettivo e i cui oneri dovrebbero essere distribuiti sulle varie componenti della società in modo equo?


[1] Il Caesar Syria Civilian Protection Act, ormai noto come Caesar Act, è l’ultimo dei provvedimenti con cui gli Stati Uniti hanno inflitto sanzioni alla Siria. Questa volta, ipocritamente, le sanzioni vengono comminate per proteggere i cittadini siriani dagli abusi del loro governo. Infatti il nome dato alla legge richiama il Rapporto Caesar (2014) consegnato dalla Francia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e contenente la documentazione fotografica di torture ed esecuzioni di massa perpetrate dal regime siriano.

Le foto erano state scattate da un ex fotografo della polizia siriana, il cui pseudonimo è, appunto, Caesar [NdR].

[2] Gli Accordi negoziati nel 1989 a Ta’if (Arabia Saudita) tra le diverse fazioni libanesi per mettere fine alla lunga guerra civile, prevedevano, tra l’atro, il superamento del sistema consociativo di tipo comunitaristico – basato sulla spartizione dei ruoli istituzionali tra le diverse religioni e confessioni – in vigore in Libano fin dalla Costituzione del 1926. In realtà questa parte degli Accordi di Ta’if, insieme a quella che prevedeva il disarmo delle milizie confessionali, non è stata mai attuata [NdR].

5/8/2020 https://transform-italia.it

Immagine: Randa Mirza, fotografa e videomaker libanese, rivolge la sua attenzione ai contesti urbani e sociali, ai conflitti e alle situazioni di cambiamento, alle questioni di genere, per comprendere la complessità della realtà, legata ai luoghi, alla storia, alla politica. Le foto usate qui fanno parte della serie Stanze abbandonate. Frammenti.

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