Il nuovo corporativismo della Cisl
Il secondo sindacato italiano sceglie di stringere un patto con la destra di Meloni in una linea filo-governativa sancita dalla nuova legge sulla partecipazione di lavoratori e lavoratrici alla vita d’impresa. Legge che recupera anche l’ideologia produttiva del nazionalismo italiano e che oggi appare un mezzo per vincolare il conflitto
Rifondare la dinamica tra impresa e lavoro, superando una volta per tutte quella tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere. Ricostruire la dinamica tra imprese e lavoro significa gettare le fondamenta di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori.
Queste frasi, pronunciate da Giorgia Meloni all’Assemblea nazionale della Cisl dell’11 febbraio, racchiudono l’essenza dell’idea di lavoro della destra italiana e di quella parte del mondo cattolico – non necessariamente maggioritaria – che ha ormai imboccato la strada della costruzione di un nuovo asse con i «nipoti del Duce». Una convergenza che non è il frutto di un flirt momentaneo ma che al contrario riporta alla luce una liaison di lungo periodo, con radici lontane e che pone oggi le basi per una sua rivisitazione secondo la moda del XXI secolo, dove il liberismo incontra ancora idee di stampo corporativista, già centrali e nondimeno velleitarie nell’esperimento del regime fascista.
Per comprendere meglio le affermazioni della Meloni – che non sono semplice retorica – non si può non partire dal contesto. La Cisl, sindacato confederale che dichiara più di quattro milioni di iscritti, riunisce a Roma i propri quadri per sancire il passaggio alla segreteria nazionale da Luigi Sbarra a Daniela Fumarola. Lo fa nel nome della «partecipazione dei lavoratori» presentando una proposta di legge di iniziativa popolare che incassa l’entusiasta sostegno della premier – che si impegna, sostanzialmente, a farla approvare in Parlamento dalla sua maggioranza. La segreteria di Sbarra si chiude così con l’apoteosi di una linea politico-sindacale che, negli ultimi mesi, si è contraddistinta per il sostegno all’austerità della legge di Bilancio 2025, per la firma di Contratti collettivi nazionali con l’esclusione di Cgil-Uil e per la mancata partecipazione allo sciopero generale del 29 novembre – una linea di collateralismo con la destra politica che ha iniziato a creare non pochi malumori fra iscritti e quadri cislini.
Una Cisl sempre più schiacciata sul sostegno al governo, quindi, che passerebbe ora all’incasso con una proposta di legge – approvata in prima lettura alla Camera il 26 febbraio 2025 – formalmente mirata a dare applicazione all’articolo 46 della Costituzione che prevede il diritto dei lavoratori «a collaborare alla gestione delle aziende» e che lo stesso Pd giudica del tutto inadeguata proprio perché svuotata dalla destra. Sbarra, nel suo ultimo discorso da segretario, ha presentato questa proposta come un’alternativa a un sindacalismo ancorato al Novecento, un’alternativa «senza steccati ideologici, senza divisioni pregiudiziali, senza antagonismi e massimalismi». L’obiettivo polemico è evidentemente la Cgil capitanata da Maurizio Landini, oggetto degli attacchi di una destra sempre più nervosa davanti a ogni segno di opposizione sociale. Un antagonismo, questo della Cisl, che impedisce sistematicamente l’unità sindacale proprio nel pieno di una crisi economica e sociale di grande portata.
All’Assemblea nazionale della Cisl si è così celebrato il matrimonio fra «il sindacato della responsabilità» (definizione di Sbarra) e la destra italiana nel nome della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale e di una visione delle relazioni industriali improntata alla pace sociale. Un matrimonio che non è solo di convenienza, ma ha precise radici storiche, politiche e ideologiche.
La montagna che partorì il topolino
Vale quindi la pena di leggere questa proposta di legge. Il testo è introdotto da un preambolo che mette subito in chiaro – seppur fra fumose considerazioni di diritto costituzionale – le ragioni politiche dell’iniziativa legislativa cislina. L’incipit è fulminante, rivendicando la (presunta) scelta costituzionale «di affidare lo sviluppo economico prevalentemente all’azione delle libere imprese private». A questa «scelta» liberista corrisponde la necessità di vincolare il capitale privato a una non meglio definita «responsabilità sociale».
Lo strumento per arrivare a questo obiettivo sarebbe quindi la formalizzazione e il rafforzamento della partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale. Uno strumento che viene posto all’interno di una visione sindacale che sembra voler aggiornare a destra la tradizione corporativista, negando implicitamente l’esistenza di uno squilibrio di potere fra lavoratori e padroni. «Tutti coloro che concorrono alla produzione, ai servizi […] devono godere di diritti e devono osservare doveri affinché lo sviluppo economico e quello sociale crescano di pari passo»: siamo nella società dei produttori, in cui lavoratori e padroni non sono visti come portatori di interessi differenti e potenzialmente conflittuali, ma vengono invece parificati come parti di un unico processo produttivo.
Secondo la Cisl, la partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale farebbe avanzare la «democrazia economica», inserendo questa proposta non solo nel solco della Costituzione, ma anche sulla scia del concetto di «cittadinanza attiva». La premessa dell’iniziativa legislativa sembra quindi tratteggiare un’ipotesi che vede nella compartecipazione uno strumento necessario a creare una società armoniosa e senza conflitti, in cui sostanzialmente il ruolo politico del sindacato confederale si esaurirebbe nel farsi parte dell’impresa privata per mitigare gli effetti del capitalismo.
Un progetto politico ambizioso, la cui fattibilità andrebbe tarata sulla realtà di un capitalismo che tutto sembra tranne che essere disposto a limitare o contrattare il proprio potere. Se non ci è dato sapere cosa pensi la Cisl a riguardo (tranne una generica condanna alla «fascinazione neoliberista e mercatista degli anni passati»), sappiamo invece cosa propone per concretizzare la sua idea di compartecipazione dei lavoratori nel sistema economico italiano.
Ed è qui che si ha la straniante sensazione, dopo le solenni enunciazioni del preambolo, di assistere al proverbiale parto del topolino. La proposta di legge prevede infatti la creazione di modalità di partecipazione del tutto opzionali (l’espressione «possono prevedere» ricorre più volte), delegando alla contrattazione collettiva nazionale la loro eventualità. Nell’unico caso in cui viene quantificata una quota minima alla presenza dei lavoratori negli organismi aziendali (per i consigli di sorveglianza delle società per azioni), la Cisl si accontenta di un misero quinto dei componenti. Se nell’effettiva partecipazione alla gestione aziendale la proposta si accontenta di poco o nulla, non diversamente fa per il ben più modesto «diritto di essere informati in merito alle scelte aziendali», per cui immagina delle modalità puramente consultive a cadenza annuale. A queste misure del tutto opzionali si accompagnerebbe la creazione di un nuovo organo interno al Cnel per risolvere eventuali controversie e di un garante di nomina governativa incaricato di valutare «la sostenibilità sociale» delle imprese – ma solo di quelle che ne richiederebbero volontariamente la certificazione, ça va sans dire.
Insomma, come contropartita al suo collateralismo il sindacato bianco presenta un progetto di legge dalle ricadute poco più che simboliche, che non riguarda le partecipate statali (come le Poste), con strumenti in alcuni casi più arretrati rispetto a quanto già previsto in alcuni Contratti collettivi nazionali di lavoro e già menomato in Parlamento dalla destra (che l’ha depotenziato e ridotto da 22 a 15 articoli). Nel farlo, però, tradisce una conclamata sintonia con la sensibilità sindacale della destra italiana che ha radici antiche.
La riemersione di un’idea
Nel 1891, con l’enciclica Rerum novarum, Leone XIII gettava le fondamenta della «dottrina sociale» della Chiesa cattolica, in risposta alle sfide poste dal mondo moderno. Dopo aver naturalizzato, e quindi legittimato, le diseguaglianze sociali come dato «di natura» necessario e ineliminabile, l’allora papa argomentava a favore della necessità della concordia affinché tutti cooperassero al bene comune sotto l’egida dello Stato, si scagliava contro il conflitto tra le classi, demonizzava lo sciopero, definito «disordine grave», e indicava nelle corporazioni di arti e mestieri medievali, da rimodellare in funzione dei tempi, lo strumento principale attraverso cui rimuovere il conflitto e realizzare al loro interno la cooperazione e la concordia tra le classi. Ma già negli anni successivi queste idee, rivolte al futuro guardando al passato, mostrarono la corda, con un attivismo delle leghe bianche che, pur perorando l’armonia tra le classi, praticavano nei fatti il conflitto.
Con l’ingresso nel Novecento un altro attore, laico e moderno, iniziò a suonare lo spartito della concordia sociale. Il nazionalismo italiano era portatore di un’idea convergente, dove il conflitto era un male da combattere per affermare la pacifica convivenza tra le classi per il bene della nazione incarnata nello Stato. Il fascismo fece proprie queste idee. Il giornale di Mussolini, il Popolo d’Italia, si definì come un quotidiano dei «produttori», racchiudendo in questa definizione tanto il mondo del lavoro che i proprietari e gli imprenditori. Mentre la furia dello squadrismo distruggeva le organizzazioni partitiche e sindacali di classe delle sinistre – senza risparmiare le leghe bianche dei cattolici – un fiorire di sindacati «apolitici» e «nazionali» (che con linguaggio odierno chiameremmo «pirata») scardinò la pratica sindacale con accordi di comodo con le organizzazioni padronali. Fu questa la premessa per la costruzione del monopolio sindacale fascista, sancito con il Patto di palazzo Chigi del 1923 e quello di palazzo Vidoni nel 1925. La legge 563 del 1926 trasformò i sindacati in enti pubblici e fece della contrattazione collettiva uno strumento calato dall’alto per disciplinare la forza lavoro. La successiva Carta del lavoro del 1927 fu improntata a una concezione organicistica della nazione in cui tutti gli organi collaboravano al bene comune supremo della nazione.
Nel 1928, con la Carta della mezzadria, il fascismo mostrò la sua concezione di «partecipazione»: un patto societario di natura ineguale tra lavoratori più che subordinati ai proprietari unici detentori del potere di direzione. Nel 1931 con l’enciclica Quadragesimo anno, in occasione dei 40 anni della Rerum novarum, Pio XI tornò ad affermare la validità del corporativismo. Il culmine di queste concezioni fu la legge istitutiva del sistema corporativo del 1934, che lasciò di fatto tutto il potere di direzione nelle mani degli imprenditori. Infine, nel crepuscolo della Repubblica Sociale Italiana arrivò il tentativo, più propagandistico che concreto, della «socializzazione delle imprese», che tuttavia continuò a lasciare il potere reale nelle mani degli imprenditori.
La fine del fascismo non significò la fine completa di queste concezioni. In sede Costituente i cattolici tentarono di mantenere la disciplina dei sindacati come enti pubblici, non riuscendovi. L’articolo 39 della Costituzione, frutto del compromesso con i comunisti, indicava una strada per il riconoscimento giuridico dei sindacati e per la validità erga omnes dei Contratti collettivi nazionali, un’indicazione rimasta lettera morta per la mancanza a tutt’oggi della legge attuativa sulla rappresentanza sindacale. I sindacalisti cattolici continuarono a esprimere un’idea ostile allo sciopero, specie se politico (una distinzione che difficilmente sta in piedi, pretendendo di rendere apolitici i temi economici). Ancora negli anni Cinquanta si susseguirono tentativi legislativi di limitazione del conflitto e del diritto di sciopero, nel quadro della costruzione di uno Stato forte da parte dei governi De Gasperi. Per la Dc la democrazia era un ordine che doveva organizzare le naturali differenze delle gerarchie sociali, da armonizzare al fine del bene comune in un progetto neo-corporativo. In questa concezione pesava tutta l’eredità del fascismo, tant’è che tra i protagonisti di questa fase vi fu Amintore Fanfani, già sostenitore del corporativismo durante il Regime. Nel suo Sindacato e istituzioni nel dopoguerra lo storico Piero Craveri ha parlato del tentativo democristiano, rimasto storicamente senza esito, di porre degli stretti vincoli istituzionali alla conflittualità sociale anche attraverso la Costituzione repubblicana, vincoli «il cui carattere autoritativo poteva essere graduato in una gamma di ipotesi diverse, a seconda delle circostanze storiche e politiche».
I decenni successivi videro comunque un’inversione di tendenza. Il mondo cattolico mise radicalmente in discussione certi assunti e fu attraversato da profondi movimenti di rinnovamento. Dalle istanze dei «preti operai» a quelle di Don Milani allo spirito del Concilio Vaticano II. Nel 1969 i sindacalisti cattolici della Fim furono tra i protagonisti dei conflitti dell’Autunno caldo, la Cisl si ritrovò a praticare con forza il terreno del conflitto insieme alla Cgil e si giunse anche a prospettare e praticare forme di riunificazione. Una stagione tramontata già alla fine degli anni Settanta ma che nondimeno ha lasciato sul terreno il dato storico di un pluralismo di opzioni sindacali nel cattolicesimo, non tutte necessariamente finalizzate a una concezione «armonica» e pacificatrice del conflitto, che oggi la Cisl tenta di cancellare.
L’altra partecipazione dei lavoratori
Oggi tornano d’attualità, quindi, idee di pacificazione sociale in nome di interessi proclamati superiori, contro pretesi interessi particolari. Una concezione di società che trova la Cisl e la destra politica sostanzialmente concordi. Non sorprende perciò il riecheggiare della concezione organicistica della nazione che fu del fascismo nell’applaudito discorso della premier Meloni all’assemblea della Cisl: «Lo dobbiamo all’Italia, ai nostri lavoratori, alle nostre imprese, che sono testa, cuore e braccia di una Nazione straordinaria».
Al tempo stesso l’attacco verso l’idea di conflitto prolunga ed esplicita ulteriormente la strategia della destra di governo, che ricorda la prassi dello scelbismo negli anni Cinquanta, che criminalizzava le forme di conflitto sociale tendendo a delegittimare e limitare il diritto di sciopero (prassi ben visibile negli interventi anti-sciopero del ministro Salvini). Un progetto di pacificazione sociale forzata, con una torsione autoritaria della legalità che finisce nel generare due negazioni strettamente correlate: quella del conflitto, non eliminato ma delegittimato e nascosto alla vista, relegato nel campo dell’invisibilità e delle forme di resistenza di base; e quella dell’essenza stessa della democrazia, che viene privata del suo elemento caratterizzante. Come ha scritto lo storico Luca Baldissara in Democrazia e conflitto: «Una democrazia senza conflitto cela la sostanza di una democrazia senza democratici».
La proposta di legge cislina rispecchia quindi una convergenza che ha radici storiche ben precise e trova nella congiuntura politica un terreno di coltura favorevole. Una proposta che, sul piano della «partecipazione» dei lavoratori, è tutt’altro che ambiziosa. Se ripercorriamo la storia italiana troviamo esperienze e progetti di «controllo operaio» e di partecipazione dei lavoratori alla direzione delle imprese molto più avanzati, a partire da quel Biennio rosso (1919-20) non a caso ferocemente represso dallo squadrismo fascista. Lo stesso articolo 46 della Costituzione, che viene sbandierato come il riferimento a cui la legge darebbe finalmente attuazione, fu il frutto di un compromesso al ribasso in sede di Assemblea costituente, che contrappose ai Consigli di gestione delle imprese sorti nelle fabbriche dell’Italia settentrionale sull’onda della Resistenza e della Liberazione una formulazione di diritto costituzionale che dalla «direzione» riportava l’accento sulla ben più limitata«collaborazione», ancora una volta senza prefigurare dunque uno spostamento di potere nella «direzione». Gli stessi dibattiti, italiani e internazionali, degli anni Settanta sulla «democrazia industriale», con le loro idee sull’autogestione, avevano raggiunto punte molto più avanzate. E se guardiamo al nostro presente, lo stesso movimento cooperativo, seppur tra mille contraddizioni e problemi, continua ancor oggi a rappresentare un modello potenzialmente alternativo ai rapporti di produzione tipici del capitalismo, e continua a venir praticato dal basso in molte esperienze di workers buyout. Precedenti storici ed esempi del presente, contributi concreti e teorici, che brillano per la loro assenza nell’asse Cisl-Governo che valorizza invece antiche concezioni corporativiste.
L’idea che i lavoratori possano gestire i mezzi di produzione non è quindi nuova e la sinistra politica e sindacale dovrebbe tornare a discuterne seriamente, contrapponendo proposte forti alla nuova-vecchia alleanza fra Cisl e destra politica in nome di una società pacificata.
Stefano Bartolini è direttore della Fondazione Valore Lavoro.
Stefano Poggi è ricercatore all’Accademia Austriaca delle Scienze di Vienna.
4/3/2025 https://jacobinitalia.it
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