Il nuovo securitarismo come cartina di tornasole dell’intersezionalità
Non si dice nulla di nuovo quando si afferma che le politiche “securitarie” hanno caratterizzato da sempre la governance degli Stati nazionali. Va però registrato che i mutamenti sociali determinatisi nell’ultimo mezzo secolo hanno costretto, lentamente ma inesorabilmente, a raffinare tali torsioni del diritto per consentire di chiudere sottochiave ogni forma, anche minimamente accennata o prevedibile di conflittualità sociale.
Nel post Dopoguerra, nei primi anni della Repubblica, la polizia di Scelba non si creava problemi a reprimere ogni forma di richiesta di rivendicazione di diritti o di miglioramento delle condizioni sociali, bastonando e sparando su manifestanti, lavoratrici e lavoratori, giovani e “sovversiv*”.
Come se il compito sociale del governo non avesse subito alcuna mutazione nella transazione post fascista – del resto i Prefetti erano ancora quelli del regime – negli anni successivi: della ricostruzione, del boom e poi delle grandi contestazioni, quest’ordine, anche per ragioni anagrafiche, cominciò ad incrinarsi.
Ovvio che law and order continua ad essere il principio sovradeterminante ma tante sono le ragioni per cui si sono modificati nel tempo anche i rapporti di forza.
E anche in questo caso con generalizzazioni forzate, rischiando di restare superficiali, hanno pesato le mutazioni: i movimenti femministi, le migrazioni interne, un aumento veloce della scolarizzazione di massa. Si sono create quelle aspettative che hanno permesso di provare a dare un “assalto al cielo” che nei fatti se non hanno modificato radicalmente i rapporti sociali hanno costruito cultura, riappropriazione, rimessa in discussione delle relazioni, hanno prodotto leggi che a loro volta hanno permesso di rivedere l’intero assetto culturale di un Paese fino a pochi decenni prima prevalentemente contadino come l’Italia.
Tutto questo – ce ne siamo accorti con colpevole ritardo – non è stato sufficiente. Sono bastati pochi anni di ubriacatura negli anni Ottanta a farci precipitare, altrettanto inesorabilmente indietro, coprendo con una modernità di facciata, fondata sui consumi, un oscurantismo primitivo da cui ancora oggi non ci si è risollevati.
La lunga premessa mirava a giungere a quello che andrebbe considerato, ad avviso di chi scrive, il nocciolo del problema.
IL NUOVO SECURITARISMO, INAUGURATO IN ITALIA NEGLI ANNI NOVANTA E CHE VIA VIA SI VA SOLIDIFICANDO SENZA APPARENTEMENTE INCONTRARE OSTACOLI, È LA CARTINA DI TORNASOLE DEL CONCETTO STESSO DI INTERSEZIONALITÀ.
Le forme di repressione e di induzione alla paura si esercitano infatti su genere, classe e “razza” (per dirla con Angela Davis), su cui affermare una condizione di subalternità micidiale e inossidabile. Si è cominciato in anticipo, criminalizzando tanto il conflitto di classe quanto i movimenti femministi da ricondurre in alvei più rassicuranti, poi – con il fatto sociale totale costituito dai processi migratori – si è introdotta una logica di legislazione speciale, con forti caratteristiche segregazioniste o quantomeno discriminatorie, sperimentate con successo sulle e sui migranti e poi replicate a vasto raggio verso forma di aggregazione non compatibile con i principi dominanti.
Provando a partire dai “titoli di coda” (per ora), riavvolgiamo il nastro. Si sono approvate da poco modifiche, certamente migliorative, ma insufficienti a quelli che ormai sono noti come “decreti Salvini”.
Potrebbero cambiare in meglio alcune procedure relative all’immigrazione: ricostruzione di un sistema di accoglienza e di accesso alla protezione umanitaria, maggiori possibilità di regolarizzare la propria presenza sul territorio anche tramite la conversione in “permessi per motivi di lavoro” di quelli temporaneamente ottenuti per evitare i rimpatri, ritorno alla “normalità” rispetto ai tempi per chiedere la cittadinanza, modifiche per garantire la possibilità di ingresso a cittadine e cittadini non UE, ovviamente in funzione del bene supremo che è quello del sistema produttivo, il diritto a poter avere l’iscrizione anagrafica, quindi la residenza, anche quando si è in attesa di risposta per la domanda di asilo e protezione, tracce insufficienti di maggior rispetto. Un passo avanti ma poi?
L’impianto dei “decreti Salvini” (che ancora sono leggi dello Stato), non intacca una legislazione – e con essa la cultura che ha creato attorno a se – di criminalizzazione delle/i migranti, di paura funzionale al mantenimento in condizioni di subalternità, di oggettivazione dell’altro, attraverso elementi connessi in cui: sfruttamento, delimitazione dello spazio sociale, rifiuto dell’esistenza di contesti culturali diversi, rendono omogeneo il sistema di esclusione.
Quello stesso impianto però è altrettanto carico di securitarismo verso ogni forma di opposizione sociale, di dissenso, di critica reale del potere.
L’elenco dei “reati sociali” per cui sono state aumentate le pene, per cui sono anche state investite risorse in campo investigativo (ad esempio le intercettazioni per chi organizza occupazioni di immobili), le minacce di repressione pesante per chi attua blocchi stradali, interrompe il “pubblico servizio”, per l’utilizzo di fumogeni durante una manifestazione, l’espansione a vasto raggio di strumenti pensati 30 anni fa unicamente per non creare turbamenti durante eventi sportivi ( i Daspo) e che invece diventano vere e proprie armi in mano alle prefetture, servono a realizzare città ancora più improntate sulla paura.
Il Daspo contro i “poveri”, “questuanti”, nei centri storici che devono restare lindi e immacolati, sono ad oggi in Italia il punto più avanzato di una guerra contro chi vive in povertà, non è utile al sistema produttivo, non consuma e non è esteticamente adeguato alla “normalità”.
Ma le parti securitarie anche verso gli autoctoni dei decreti Salvini sono unicamente il passo avanti, quello forse più volgare e privo di ritegno, rispetto ad un cammino iniziato tanto tempo fa in cui si è riusciti a convincere una parte consistente del Paese che, nonostante i reati predatori in calo, nonostante l’Italia sia, dal punto di vista della microcriminalità – che è quella più percepita – uno dei Paesi più sicuri del pianeta, si debba e si possa recriminare ad ogni stormir di foglia contro chi “turba la quiete”, chi dorme ad una stazione, chi elemosina una moneta, chi arriva – per forza di cose irregolarmente – nel Paese, per cercarsi un futuro migliore in Europa.
E, sempre nella logica della caccia ad un nemico che è sotto e non sopra di noi, di volta in volta si identificano soggettività o categorie su cui scaricare odio, aggressività e frustrazione. Basta avere il colore della pelle diverso, avere i segni addosso della miseria, vivere con un contratto precario, abitare in un quartiere considerato malfamato, vivere un orientamento sessuale non considerato “nella norma”, essere donna e pretendere di essere libera, non accettare la logica di un pensiero conformante.
Basta questo per divenire un “pericolo”, basta questo per plaudire a leggi forcaiole che di fatto colpiscono e colpiranno strati sempre più ampi della popolazione. Si tratta di un processo che agisce certamente su scala europea se non mondiale che ha come obiettivo dichiarato l’eliminazione di qualsiasi elemento di conflittualità sociale che metta a rischio il sistema produttivo.
Le leggi che si sta tentando di varare in una Francia che dagli attentati del novembre 2015 si considera in emergenza e che pochi giorni fa ha portato persino a predisporre norme che vietano di documentare le azioni degli agenti di polizia durante le manifestazioni.
L’aumento delle risorse destinate alla “sicurezza” su cui investe l’Europa, tanto nei regimi autoritari dell’Est quanto nelle cosiddette “democrazie solide”, l’aumento esponenziale del numero di persone tratte in arresto in assenza anche di reato e spesso di giusto processo in Egitto, Turchia, paesi dell’Africa Sub Sahariana come nella parte dell’America Latina che ancora vive una svolta conservatrice, gli stessi esempi Usa, dove un movimento si va sempre più radicando ne sono esempi significativi.
Ma volendo restare in Italia, come non notare quanto, accanto ad una omologazione globale del “securitarismo”, si debba ragionare su una sua lenta e continua capacità di penetrazione del pensiero comune operata nel tempo. Le leggi Salvini – solo la loro rimozione totale potrebbe segnare una reale inversione di tendenza – vanno lette in tal senso come l’ultimo strato di un complesso roccioso che ha radici profonde.
Scavando e avendo come utensili gli strumenti di conoscenza storica, sociale e culturale della vita di questo Paese, si possono individuare, con fatica, i diversi substrati, gli elementi di contaminazione negativa che li legano e le cui radici sono antiche. Una loro rappresentazione plastica la si può trovare recandosi in visita al Viminale, la sede del Ministero dell’Interno. Appare per intero la lista di coloro che si sono succedut* al dicastero.
Nessuna assenza per dare il segno di una continuità, garantita dai tanti dirigenti che hanno provveduto a mantenere legge e ordine nello Stato di diritto spesso in maniera più che zelante. Una curiosità. La carica di ministro dell’Interno è di solito estremamente “volatile.
Non sono molti coloro ad averla ricoperta, anche ai tempi del Regno D’Italia, per una intera legislatura. Colui che è rimasto per tanti anni, dal 6 novembre del 1926 al 25 luglio del 1943, si chiamava Benito Mussolini.
Anche il suo nome appare in bella vista nel lungo elenco di coloro che hanno contribuito a rendere più “sicura” la vita, la prosperità e la ricchezza di poche famiglie privilegiate, a danno di chi osava immaginare un’altra idea di sicurezza molto più fondata sul bene comune.
Nessuna intenzione di confondere la storia e la biografia di personalità spesso diverse fra loro in periodi storici che vanno anche contestualizzati. Solo l’urgenza di sentirsi perennemente in guardia. L’idea di una vita fondata sulla paura in cui l’ordine costituito dichiara di difendere tutte e tutti da pericoli spesso prefabbricati, ma che in realtà opprime molte e molti imponendo il proprio tallone di ferro, non è nata con Salvini né con Salvini finisce.
Ha radici più profonde di cui sembra diventare sempre più complesso liberarsi. Viene da dire, forse sfidando il rischio della retorica, che liberarsi dalle norme patriarcali, dalla Bossi Fini, dalla riduzione sistematica dei diritti di chi lavora, sono parti non separabili di una nuova volontà di dare l’assalto a quel cielo che ci è stato, da sempre – e anche per i nostri limiti – impedita.
Stefano Galieni
23/12/2020 https://www.intersezionale.com
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