Il prezzo delle scorie radioattive
Se è vero che c’è gente che pagherebbe per vendersi, come professava Victor Hugo, la vicenda del deposito nazionale delle scorie nucleari ha messo in luce in pochi giorni che l’ipotetica lista dello scrittore francese andrebbe continuamente aggiornata. Da quando, nella notte tra il 4 e il 5 gennaio, è stata resa nota la Carta nazionale delle 67 aree potenzialmente idonee (Cnapi) a ospitare i rifiuti radioattivi italiani – circa 78mila metri cubi suddivisi in alta, media e bassa intensità – si susseguono le reazioni dai territori individuati.
Tutti contrari, o quasi. D’altra parte la Cnapi, consultabile sul sito depositonazionale.it insieme ai criteri stabiliti per la scelta dei posti, era pronta dal 2015 ma fino a questo momento era stata coperta dal segreto di Stato. Questo perché tra tutte le fonti di energia quella nucleare è certamente la più divisiva, almeno in Italia. In questo senso vale la pena ricordare il referendum del 1987, che all’indomani del disastro di Chernobyl ebbe un esito scontato, e il referendum del 2011, con il quale più di 25 milioni di italiani ribadirono la propria contrarietà all’energia nucleare. In una partita che, come raccontato da Bruno Arpaia nel libro Il fantasma dei fatti, sin dal Dopoguerra ha visto mostruosi interessi in gioco e che ora è giunta a tempi supplementari che si trascinano da decenni e che si preannunciano ulteriormente ostici.
A seguire l’intero iter, dalla localizzazione del deposito e dell’annesso parco alla costruzione e alla messa in esercizio, sarà Sogin, la società pubblica responsabile delllo smantellamento degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi. I piani previsti dal governo indicano che passeranno almeno quattro anni per costruire le due strutture, che occuperanno rispettivamente una superficie di 110 e 40 ettari – e giornali come il Corriere della sera proprio non sanno rinunciare al trito paragone con i campi di calcio. Intanto sono tante le voci, anche all’interno della stessa maggioranza, che auspicano almeno un allungamento dei tempi della consultazione, al momento prevista in due mesi.
Eppure la levata di scudi da parte dei territori è stata immediata. Tanto da costringere il ministro dell’Ambiente Sergio Costa a un lungo post chiarificatore.
Dire no però ha un prezzo. Per i Comuni che hanno manifestato la propria contrarietà a ospitare il deposito nazionale e il parco, quel no equivale a rinunciare a una somma che va dai 15 ai 30 milioni di euro all’anno. I conti li fa Il Post, sommando i «fondi compensativi per la settantina di Comuni dove attualmente si trovano i depositi provvisori. I fondi sono ripartiti dal Cipess, il Comitato interministeriale di programmazione economica e sviluppo sostenibile, e dipendono dalla quantità di rifiuti stoccata». Se consideriamo che i rifiuti radioattivi a bassa e media intensità ci mettono 300 anni per non generare danni alla salute e all’ambiente, è facile immaginare che almeno questa parte di stanziamenti sarà a vita. Pochi giorni prima della pubblicazione della Cnapi, Il Sole 24 ore aveva spiegato che «ci sono Comuni che gioiscono per il fatto di avere in casa le scorie delle vecchie centrali nucleari spente, dei reattori dismessi, delle installazioni piene di materiali radioattivi. In tutto sono in arrivo quasi 30 milioni con cui una settantina di Comuni pagano gli stipendi agli impiegati comunali, finanziano rassegne artistiche, aiutano le famiglie povere, asfaltano le strade, piantano le petunie nelle aiuole in piazza e così via». Un fenomeno molto simile a quello che avviene con le società fossili, con le compensazioni che costituiscono veri e propri toccasana per le casse comunali altrimenti, è proprio il caso di dirlo, alla canna del gas.
Non ci sono però, al momento, cifre certe sul deposito nazionale per le scorie radioattive. Le compensazioni andranno infatti contrattate attraverso la stipula di una specifica convenzione con la Sogin. La società di Stato parla di «benefici diretti e indiretti per le comunità che ospitano questi impianti», accennando agli indennizzi diretti e delineando «una forma di valore aggiunta alle comunità che accettano di partecipare alla realizzazione di un servizio essenziale per lo sviluppo del Paese». Come a dire: chi si sacrifica verrà ampiamente ricompensato. Ecco perché la sensazione è che la contrarietà degli amministratori locali sia strumentale, buona solo ad alzare un prezzo tutto da definire.
C’è poi un altro aspetto che viene fuori da queste rimostranze. Tutte le voci contrarie sottolineano che la scelta tecnica di Sogin non tiene conto delle specificità territoriali. Le quali però sono tutte accomunate dal profitto. L’opposizione degli amministratori locali è tutta qui, in una manciata di frasi fatte. C’è chi si è concentrato su un presunto «incalcolabile danno d’immagine», chi ha pensato in primis ai turisti e ai residenti ha dato spazio solo se hanno attività economiche che potrebbero essere danneggiate, chi ha addirittura tirato fuori «il tributo di sangue pagato in misura enorme, sproporzionata rispetto al resto d’Italia, da intere generazioni di giovani sardi andati a morire sui fronti del Carso, del Monte Zebio o della Bainsizza nella Grande guerra un secolo fa». Il nostro territorio è a vocazione agricola, dicono da Butera (ma anche da quasi tutte le zone individuate), come se i tecnici del ministero dovessero tener conto delle disposizioni d’animo di chi governa. In Sicilia sindaci ed esponenti locali di Forza Italia hanno immediatamente organizzato uno scarno sit-in, ripetendo in successione gli stessi concetti: le eccellenze, i turisti, le vocazioni. E dimenticando che Butera, insieme a Gela e Niscemi, sorge all’interno dell’area di risanamento ambientale, indicata nel 1995 e il cui successivo piano è rimasto lettera morta. Oppure dimenticando che nel 2003 fu proprio Forza Italia, allora al governo nazionale, a convertire il pet-coke (il più noto e forse il più nocivo scarto di lavorazione del petrolio) da rifiuto a combustibile: un regalo alla raffineria di Eni per consentirle di continuare a operare. Stesse parole a Monferrato, dove i sindaci della zona hanno diffuso un comunicato congiunto per ribadire che il territorio è anche qui «patrimonio Unesco, area a forte vocazione turistica e produttiva, sia industriale che agricola». Da Nord a Sud il messaggio è sempre uguale. Anzi, ancor più esplicito in questo senso è Manolo Garosi, sindaco di Pienza, neanche 3mila abitanti alle porte di Siena. Va da sé che pure questa parte della val D’Orcia è patrimonio mondiale dell’Unesco e terra di eccellenze, figurarsi, siamo o non siamo il Paese più bello del mondo dove potremmo vivere solo di turismo?
«Ci sono anche aree povere che hanno necessità di uno sviluppo economico, aride o, comunque, non a vocazione agricola, con una zona industriale lontana dai centri abitati – dice Garosi a Il Fatto Quotidiano – Si può aprire una trattativa, ad esempio, con quei Comuni dove occorre dismettere o bonificare un sito, riqualificando l’area». Sei povero o subisci già una nocività? E allora beccati pure il deposito.
Ecco allora che dire No non equivale a stare dalla stessa parte. Alla strumentale e logora accusa di sindrome Nimby, tirata fuori da chi ogni volta propugna impianti e grandi opere all’insegna del diktat «ce lo impone l’Europa», non si può continuare a rispondere con un’idea misera del territorio. Chi ha una concezione esclusivamente economica e utilitaristica delle comunità verrà più ingolosita dalle compensazioni, come insegnano le storie sempre uguali delle grandi opere.
Quel che è certo, in ogni caso, è l’ulteriore regalia che viene messa sul tavolo. Per Sogin «l’idea di affiancare al Deposito Nazionale un Parco Tecnologico risponde all’esigenza di consentirne una maggiore integrazione con il territorio che lo ospiterà, attraverso la presenza di attività che potranno essere concordate con le comunità locali. Queste attività saranno in grado di rafforzare il valore aggiunto per il territorio, con il coinvolgimento di istituzioni, università, associazioni e imprese locali». Nulla di inedito anche in questo caso. La proposta di donare ai territori un polo attrattivo che funga da richiamo per le cosiddette eccellenze, i mitici laureati e l’ancor più retorica fuga dei cervelli, è un film visto mille volte. In Basilicata, ad esempio, Eni punta molto su Energy Valley, il programma che «include progetti industriali a forte valenza di sostenibilità, progetti di innovazione, iniziative di collaborazione con gli stakeholder locali, progetti di riqualificazione agricola e funzionale delle aree adiacenti al Centro Olio Val d’Agri». Parole fossili che sono sovrapponibili a quelle nucleari. È solo un esempio tra tanti, eppure dà la misura di come il modello energetico sia sempre uguale: si individua un territorio da sfruttare, si propone una concertazione soltanto a decisione già presa (a volte neanche quella), si decantano le meravigliose sorti e progressive, si offre una cifra per l’arrecato disturbo.
Quel che più conta, almeno in questo momento, è che non c’è nulla di definito. Da una parte Sogin ribadisce che «l’ordine di idoneità formulato per le aree potenzialmente idonee della Cnapi costituisce una proposta che viene sottoposta a consultazione pubblica e che potrà essere utilmente discussa ed eventualmente modificata in sede di seminario nazionale». E dall’altra, soprattutto, che il «presente ordine di idoneità verrà utilizzato soltanto nel caso in cui dovessero essere avanzate più candidature alla localizzazione del deposito nazionale da parte di enti locali il cui territorio è interessato dalle aree Cnapi». In pratica una versione edulcorata dell’espressione «conoscere i propri polli».
E infatti già all’indomani della pubblicazione della mappa arriva la prima candidatura. È quella di Daniele Pane, sindaco leghista di Trino Vercellese, avallata anche da Matteo Salvini. Vale certamente la considerazione che il Comune piemontese da più di trent’anni ospita già un deposito provvisorio di rifiuti radioattivi, un’ex centrale nucleare che nella proposta di Pane potrebbe più facilmente riconvertirsi, ma anche in questo caso è utile seguire l’antico adagio del follow the money. «La realizzazione del deposito – afferma Pane al programma tv Quarta Repubblica – comporta la sicurezza in primis, la salute degli abitanti ma anche delle ricadute occupazionali e la possibilità di fare ricerca e sviluppo». Ma quanti sono esattamente questi favoleggianti posti di lavoro? Per Sogin «si stima che la costruzione del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico genererà oltre 4.000 posti di lavoro l’anno per 4 anni di cantiere, diretti (2.000 fra interni ed esterni), indiretti (1.200) e indotti (1.000). Durante la fase di esercizio, invece, l’occupazione diretta è stimata mediamente in circa 700 addetti, fra interni ed esterni, con un indotto che può incrementare l’occupazione fino a circa 1.000 unità». Se su altri aspetti la società pubblica è piuttosto precisa nelle descrizioni, su questo capitolo invece si limita letteralmente a dare i numeri, senza allegare schemi di previsione o modalità descrittive. Mentre viene già delineato «il coinvolgimento dei residenti nelle attività lavorative collegate alla costruzione e all’esercizio dell’infrastruttura».
Il No di questi giorni sarà dunque un No a tutti i costi? La risposta potrà essere verificata soltanto nei prossimi mesi e nei prossimi anni. La storia italiana degli impianti industriali e delle grandi opere comincia spesso con l’opposizione degli enti locali. Fino a quando poi si passa alla cassa. È qui, e sin da ora, che vanno esercitate pressioni e controlli popolari. È arrivato il momento di smentire Victor Hugo.
Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali.
19/1/2021 https://jacobinitalia.it
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