Il profitto fa deragliare i treni

Diritti del lavoro, sicurezza di viaggiatori e dipendenti, servizio pubblico da garantire e questione ecologica: tutto quello che c’è in ballo nelle lotte dei ferrovieri

Il settore delle ferrovie nel contesto italiano viene spesso indicato come l’esempio principe del successo delle politiche di liberalizzazione del mercato. Negli anni Novanta avviene lo scorporo funzionale tra il gestore della rete (Rfi) e il gestore dei trasporti (Trenitalia), il tutto con un duplice obiettivo: da un lato l’aderenza alle politiche comunitarie europee orientate verso l’espansione della concorrenzialità e dall’altro l’obiettivo di apportare una trasformazione in senso aziendalistico della gestione delle ferrovie, al fine di renderle profittevoli. Una prospettiva che marca chiaramente una differenza sostanziale con qualsiasi visione che veda la mobilità come un servizio pubblico da garantire, anche in assenza – secondo le logiche di mercato – di profitto.

In coerenza con questo approccio anche le condizioni di lavoro del personale ferroviario e la parte normativa del relativo contratto collettivo nazionale sono rimaste a uno stadio di arretratezza eccezionale (tenendo conto anche delle dimensioni di Fs) rispetto ad altri settori dei servizi pubblici. Si è infatti imposta una costante ricerca di riduzione dei costi, ai danni dei lavoratori sia di Trenitalia che di Rfi. 

Soprattutto Rfi operando nelle infrastrutture ha progressivamente ridotto i numeri del suo personale, passando da 38.501 unità nel 2001 a 29.073 nel 2022. Una diminuzione pari a circa un quarto in poco meno di vent’anni, determinata in larga parte non da una mancata necessità di manodopera, ma dall’esternalizzazione del lavoro di costruzione e manutenzione, affidato sempre più ad altre aziende attraverso il sistema degli appalti e subappalti.  A oggi – secondo le stime dei sindacati – a lavorare sui nostri binari ferroviari ci sono circa 10.000 lavoratori esternalizzati. Così è evidente come l’attuale gestione della manutenzione ferroviaria renda la sicurezza un accessorio e gli incidenti non un tragico e saltuario evento, ma una triste e amara certezza. La ricetta di Rfi basata su costi al ribasso ed esecuzione veloce dei lavori fa dunque affidamento su uno strutturale peggioramento delle condizioni di lavoro che si riflette poi sulla sicurezza di tutti i lavoratori FS, sulla loro salute e sulla sicurezza del servizio. Con effetti che troppo spesso diventano drammatica cronaca, come nel caso di Brandizzo. 

In una fase come questa di rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) – scaduto il 31 dicembre scorso – si è proposta con inedito protagonismo un’assemblea autorganizzata di macchinisti e capitreno che ha avanzato, attraverso due scioperi, di cui l’ultimo di 24 ore il 23 e 24 marzo scorsi con adesione sopra il 65 per cento a livello nazionale (e punte del 90 per cento in alcune regioni), una piattaforma di rinnovo contrattuale alternativa a quella proposta dai sindacati firmatari. Una prospettiva che apre spiragli di riflessione anche sulla centralità del trasporto pubblico ferroviario in un mondo più sostenibile e qualitativamente migliore. Una prospettiva che rende anche possibile una convergenza con le rivendicazioni dei movimenti ecologisti, che sarebbe in grado, e non sarebbe la prima volta, anche di restituire forza, attraverso la contaminazione con i movimenti sociali,  a una contrattazione collettiva indebolita. 

Ne abbiamo parlato con Lorenzo Mobilio, Rsu di Napoli-Campi Flegrei e membro del coordinamento nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb) che partecipa al suddetto percorso assembleare.

Lo sciopero delle ferrovie di 24 ore del 23 e 24 marzo non è il primo del settore. Nel novembre del 2023 aveva fatto scalpore la precettazione dello sciopero del comparto ferroviario da parte del ministro Matteo Salvini, poi ripetuta a dicembre con un’ordinanza, annullata peraltro negli scorsi giorni dal Tar Lazio per eccesso di potere. Questa vertenza parte quindi almeno dal 2023. Potresti chiarire meglio i processi che hanno portato a quest’azione di sciopero e i suoi risvolti, in termini di adesioni?  

L’attuale percorso di sciopero del comparto ferroviario nasce dalla creazione a settembre del 2023 dell’assemblea nazionale PdM (personale di macchina) e PdB (personale di bordo). L’assemblea è nata in maniera spontanea da attivisti iscritti ai sindacati confederali e da lavoratori non iscritti, tutti comunque in dissenso con le politiche dei sindacati firmatari dei contratti delle ferrovie. A settembre abbiamo dato vita a quest’assemblea e successivamente abbiamo elaborato dei passaggi intermedi, come un questionario che ha ricevuto più di 3.000 risposte. Da questo questionario è poi nata una piattaforma rivendicativa che è stata inviata a tutti i sindacati firmatari e non. All’appello hanno risposto solo Cub, Usb e Sgb, che hanno poi creato nei rispettivi percorsi organizzativi delle proprie piattaforme, con assemblee autonome in cui si è cercato di mediare e far emergere una piattaforma univoca che potesse mettere insieme tutte le sensibilità presenti. 

L’assemblea PdM e PdB, dopo questi passaggi, ha poi deciso di dare vita alla prima azione di sciopero del 2024, incentrata sul rinnovo del Ccnl delle attività ferroviarie. Così il primo sciopero si è svolto il 12 febbraio ed è durato solo 8 ore perché nelle ferrovie la prima azione di sciopero deve essere di 8 ore. Le successive invece – per le stesse motivazioni – possono essere di 24. La prima giornata di sciopero è stata partecipata, con un 50/55 per cento di adesione in tutta Italia. Un dato significativo considerando che lo sciopero era stato lanciato da un soggetto nuovo (l’assemblea PdM e PdB), dichiarato da 3 sindacati di base e che comunque molti colleghi a causa della legge 146/1990 considerano lo sciopero uno strumento poco adeguato.

Dopo il 12 febbraio la valutazione fatta in seno all’assemblea è stata di individuare una successiva data per uno sciopero di 24 ore. Abbiamo quindi individuato come data un giorno festivo perché per i regionali e i treni merci nei festivi non ci sono i servizi minimi da garantire. Per l’alta velocità e gli intercity sì, ma comunque molto meno rispetto ai giorni feriali. Una scelta che pensavamo avrebbe garantito una maggiore adesione e infatti i numeri rispetto al 12 febbraio sono stati più alti. Il tasso di adesione è stato del 65/70 per cento su tutto il territorio nazionale, con punte del 90 per cento in alcune regioni come la Campania. 

Gli scioperi di questi mesi hanno già prodotto dei risultati. Va ricordato che le trattative di rinnovo del Ccnl vanno avanti da 8 mesi e abbiamo visto che i sindacati firmatari hanno iniziato a rivedere alcune delle loro richieste, adeguandole – seppur ancora in minima parte – a quanto emerso dall’assemblea PdM e PdB. 

Nella vostra piattaforma rivendicativa c’è un riferimento ai turni ormai insostenibili che macchinisti e capitreno sono costretti ad avere. È chiaro che turni stancanti, anzi massacranti rappresentino un problema di sicurezza non solo per i lavoratori, ma anche per i viaggiatori. Di che turni parliamo? 

Anzitutto è utile ricordare che i macchinisti e i capitreno sono proprio addetti alla sicurezza della circolazione ferroviaria, responsabili della sicurezza del convoglio. Però, in questi anni l’azienda ci ha considerati solo come lavoratori da sfruttare fino al limite dell’orario di lavoro imposto dalla legge europea. La legge sull’orario di lavoro e le direttive europee dicono infatti che un orario di lavoro deve essere massimo di 13 ore di lavoro, con 11 di riposo. A oggi la normativa dell’orario lavorativo prevede un orario massimo giornaliero di 10 ore e per i treni merci anche di 11. L’azienda in questi anni ha dunque cercato di portarci al limite, dimenticandosi che essendo degli addetti alla sicurezza per far sì che un treno circoli in tutta sicurezza al di là della manutenzione serve un certo riposo psicofisico da garantire al personale. Non tengono nemmeno in considerazione che quando si va a dormire fuori sede il riposo effettivo è di gran lunga inferiore alle 8 ore, con magari 5 ore di sonno effettive. Così quei macchinisti e quel capotreno non avranno bevuto e non saranno drogati – profilo sotto cui fanno invece ripetuti controlli anche a campione – ma di sicuro non sono nemmeno riposati.

I nostri turni sono avvicendati sulle 24 ore, c’è una media di 38 ore settimanale. Questo significa che ci possono essere settimane in cui lavoriamo 44 ore, altre in cui lavoriamo 30 ore, non possiamo scendere sotto le 30 ore.  E al di là di quello che dice qualche ministro, non abbiamo il riposo il weekend. Il riposo nel weekend lo abbiamo in realtà solo una volta al mese perché il nostro riposo in linea di massima va a scalare ogni 6 giorni e a volte non abbiamo nemmeno 2 giorni solari di riposo da quando finisce il turno. 

Negli anni c’è stato quindi un peggioramento delle nostre condizioni di lavoro e i risultati si vedono: sono aumentati i salti fermata, superamento dei segnali rossi e altri sintomi di distrazione. Tutto questo succede quando di giorno c’è un solo macchinista, mentre di notte per fortuna è ancora previsto il doppio macchinista. Per notte si intende da mezzanotte alle 5. Se un treno parte dalle 5 in poi c’è però un solo macchinista e quel macchinista per essere alle 5 sul turno di lavoro si sarà sicuramente svegliato almeno per le 3:30 e quel turno – essendo diurno – può durare anche 10 ore e quindi ci si sveglia alle 3:30 lavorando magari fino alle 14:00 o 14:30. Inoltre l’azienda invece di assumere preferisce far lavorare con straordinari. 

A livello di orari noi abbiamo chiesto 36 ore settimanali invece delle attuali 38. Abbiamo inoltre chiesto l’abolizione delle 10 ore massime giornaliere, chiedendo un massimo di 8 ore per i turni diurni. In aggiunta, abbiamo chiesto un massimo 6 ore di notte, dove la notte vada intesa da mezzanotte fino alle 6 e non fino alle 5, un numero di 4 notti massime al mese, con riposi settimanali di 58 ore, 2 giorni solari di riposo e  un riposo giornaliero da un servizio all’altro da portare da 14 a 16 ore. 

Altro problema da non sottovalutare: gli attuali orari di refezione prevedono solo 30 minuti per mangiare, compreso il tempo di recarsi al ristorante. Di conseguenza molti colleghi si portano il pasto da casa e non mangiano in stazione. Nelle rivendicazioni è stato chiesto un aumento del tempo per la refezione, in fasce orarie in cui siano almeno aperti i ristoranti. 

In riferimento sempre al tema della sicurezza: come dicevi i treni diurni attualmente circolano con un solo macchinista, circostanza che negli ultimi anni ha portato a una serie di incidenti dovuti a malori improvvisi dei conducenti. Cosa proponete? 

Per il doppio macchinista c’è stata una forte discussione sul cosa inserire all’interno della piattaforma, perché c’è chi proponeva un ritorno al doppio macchinista e chi invece una figura intermedia tra macchinista e capotreno, abilitandola alla guida. 

Proprio in questi giorni torna centrale il tema della sicurezza perché c’è un macchinista che ha perso la vita mentre era alla conduzione del treno. 

Credo sia importante dire che le tempistiche che l’azienda calcola per il soccorso al personale di macchina e di bordo in caso di malore sono quelle generali, che prevedono in città e nei centri urbani l’arrivo dell’ambulanza in 8 minuti e nelle aree extra-urbane in 20 minuti. Queste sono tempistiche elaborate in casi completamenti diversi. In 20 minuti, tempo necessario affinché si possa salvare un essere umano da un infarto, è improbabile che un’ambulanza riesca a recuperare il personale in un contesto ferroviario fuori da un centro cittadino. Per questo la presenza di un doppio macchinista o lavoratore abilitato alla conduzione del treno è cruciale, in quanto in presenza di un malore permetterebbe al treno di essere condotto in sicurezza in stazione, senza alcuna interruzione improvvisa e riducendo anche i tempi di intervento dei sanitari. Parliamo di un tema fondamentale per la sicurezza non solo del lavoratore, ma anche per i viaggiatori che sono sul treno. A oggi nei casi di malore durante la guida del treno non ci sono tante contromisure ed è così in quasi tutta Europa, visto che la maggior parte delle aziende ferroviarie operano con un solo macchinista. 

Sempre sull’aspetto sicurezza e lavoro, crediamo sia importante sottolineare come l’aspettativa di vita dei macchinisti sia a oggi, secondo diverse ricerche – di cui una condotta dall’Università Sapienza di Roma – pari a 64 anni, inferiore dunque all’età pensionabile di 67 anni. Sugli aspetti previdenziali che ragionamenti avete fatto?

Il dato di 64 anni deriva da uno studio realizzato dalla rivista dei macchinisti In Marcia, dall’università Sapienza di Roma, dalla Regione Toscana e dall’Asl Toscana. Dalla ricerca indipendente, pubblicata nel 2010, emerse come l’aspettativa di vita dei macchinisti fosse appunto pari a 64 anni. Noi come categoria andavamo in pensione a 58 anni ed è nel 2012, con la legge Fornero che siamo stati accorpati a tutte le categorie, non riconoscendoci nemmeno come lavoro usurante, cosa che ci avrebbe garantito una riduzione di 3 anni dell’età pensionabile. 

Nessun sindacato nel 2012 fece alcuno sciopero. E così dal 2012 siamo rimasti così, non rientrando né nella categoria del lavoro usurante né vedendo ristabilita la legge che ci garantiva di andare in pensione a 58 anni. Nessun governo ha mai preso in carico la cosa. La nostra rivendicazione – che ci teniamo a specificare essere minima – è quella di rientrare almeno nella categoria di lavoro usurante. 

Per quanto riguarda invece la parte economica del contratto? 

Anche sulla parte retributiva non abbiamo voluto fare rivendicazioni esagerate, anche perchè abbiamo vissuto rinnovi contrattuali, con sindacati che prima dell’aumento dell’inflazione si sono mantenuti su aumenti tabellari del salario minimo dell’ordine di 30 euro al mese lordi. Però lo stipendio di macchinisti e capitreno è composto anche da tante voci extra, le cosiddette competenze accessorie, che sommate creano una differenza anche di 500 euro al mese. Queste competenze in realtà sono ferme da quasi vent’anni: sono vent’anni che non vengono né aumentate né rivalutate in base all’inflazione. Mentre altre aziende anche parastatali hanno avuto anche aumenti e adeguamenti all’inflazione senza passare per un rinnovo contrattuale, noi non abbiamo avuto niente di tutto questo e nonostante ci sia un rinnovo contrattuale in atto, che va avanti da 8 mesi, da agosto 2023, ancora non hanno parlato di retribuzione nè i sindacati firmatari nè l’azienda. Noi abbiamo chiesto invece di recuperare la parte economica persa in questi vent’anni sulle competenze accessorie più di adeguare il salario tabellare all’inflazione, quindi abbiamo chiesto un aumento di 500 euro netti, e siamo quindi sull’ordine degli 800 euro lordi, che sembrerebbe una cifra grossa ma se si analizza che non vengono adeguate da vent’anni le competenze accessorie che fanno parte del nostro stipendio è il minimo che è giusto pretendere.

Il trasporto pubblico è anche al centro delle rivendicazioni dei movimenti ecologisti, che chiedono di investirvi molte più risorse, anche considerando gli effetti positivi in termini di nuovi green jobs, in Italia per il settore, compresa la filiera industriale, stimati da uno studio di Cassa Depositi e Prestiti intorno ai 110 mila posti di lavoro all’anno. Queste mobilitazioni in paesi come la Germania li hanno portati anche a mobilitarsi insieme ai sindacati – nello specifico con Ver.di, il primo sindacato nel settore dei servizi – per i rinnovi contrattuali. Condividete lo stretto nesso della mobilità pubblica con la transizione ecologica e ritenete che una convergenza di due lotte solo apparentemente diverse potrebbe giovare a entrambi?

 
Riteniamo che il trasporto ferroviario potrebbe avere un impatto molto positivo sull’ambiente. Anzitutto il trasporto merci, potendosi incentivare il trasporto merci su rotaia riducendo quello su gomma. Questo non sta avvenendo. Le imprese di trasporto merci sono ancora troppo poche e comunque entrano nel mercato sempre con la stessa logica di profitto sulla testa dei lavoratori, con una normativa peggiore della nostra. Anche per il trasporto passeggeri è importante investire per togliere tante auto dalle strade, ma in regioni come Campania, Sicilia, Sardegna ecc. sappiamo quali sono le condizioni della rete ferroviaria – e poi si pensa in modo del tutto irrazionale a costruire infrastrutture anche ambientalmente dannose, oltre che inutili allo stato attuale delle ferrovie siciliane, come il Ponte sullo stretto. Come Usb abbiamo una piattaforma più ampia di quella dell’assemblea. Tra le rivendicazioni c’è proprio la tutela della funzione del servizio ferroviario come servizio pubblico. Renderlo pubblico significa investire risorse in zone in cui non c’è rientro economico ma se la tua priorità è fare servizio pubblico quei soldi li spendi comunque.

Nel momento in cui la ferrovia va verso la privatizzazione la gestione privata diventa incompatibile con una  logica di servizio pubblico e anche ambientalista ed ecologista. Il privato cerca infatti di risparmiare dove può, orario di lavoro, sicurezza, e a monte esprime una preferenza per il trasporto su gomma perché costa meno. Per l’Usb potrebbe quindi esserci tranquillamente questa convergenza, nelle nostre rivendicazioni implicitamente c’è già. Non mancheranno le occasioni future per poterla eventualmente esplicitare e realizzare.

Giorgio De Girolamo studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa e ha scritto di lavoro, ecologia e diritto su varie testate nazionali.

Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa di lavoro, ecologia e del loro rapporto conflittuale con il sistema capitalistico. 

6/4/2024 https://jacobinitalia.it/

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