Il progetto sionista
Nata ad Alessandria d’Egitto, da una famiglia d’origine cultuale ebraica arrivata lì, a ovest del delta del Nilo, nell’Ottocento, Vera Pegna aveva 14 anni quando, nel 1948, David Ben Gurion proclamò ufficialmente la nascita dello Stato di Israele. In questo prezioso articolo affronta le ragioni storiche che sono alla base del cosiddetto “conflitto” mediorientale e delle tragedie che lo hanno segnato fino ad oggi. Quelle ragioni, che vengono solitamente fatte risalire alla Nakba, affondano in realtà le proprie radici molto tempo prima, all’inizio del Novecento, quando comincia a prendere forma il sionismo politico. I dirigenti sionisti di allora, tutti europei e ashkenaziti, memori dei secoli di antisemitismo, dei ghetti e dei pogrom sofferti in Europa, erano convinti che gli ebrei fossero destinati a essere perseguitati sempre e dovunque sì che l’unica salvezza consisteva nell’avere un loro Stato; inoltre, poiché vivevano in piena epoca coloniale e vedevano le potenze europee spartirsi il Medio Oriente a tavolino, probabilmente pensavano che ritagliarsene un pezzo fosse più che plausibile. A un secolo di distanza, quel progetto, presentato dai dirigenti sionisti ai governi occidentali come “baluardo di civiltà contro la barbarie”, viene celato nelle analisi di quasi tutti i media israeliani e occidentali. Eppure, come ricorda Vera Pegna, è stato portato avanti metodicamente, tappa dopo tappa, occupazione dopo occupazione, colonie d’insediamento dopo colonie d’insediamento, espulsione dopo espulsione dei palestinesi, annessione dopo annessione, fino a raggiungere la situazione attuale. L’ultima tappa prevede l’annessione del residuale 17% della Palestina storica, l’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi e il proseguimento dell’apartheid per quelli rimasti. Non a caso la vuota retorica della proposta di “due popoli due Stati”, oggi ancora agitata per pura demagogia dalle diplomazie occidentali, resta la più funzionale all’avanzata del progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina con meno palestinesi possibile. Una proposta che parte, non dall’intento di trovare una soluzione duratura di convivenza pacifica fra i due popoli, bensì da una visione verticistica ed eurocentrica della difesa degli equilibri geopolitici della regione
Avevo 14 anni nel 1948, quando fu proclamato lo Stato d’Israele e vivevo con la mia famiglia, di origine cultuale ebraica, ad Alessandria d’Egitto. Mio padre e mio nonno dissero che quell’impresa avrebbe avuto “conseguenze funeste” e che lo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” era una “doppia turlupinatura” poiché mio nonno in Palestina ci andava regolarmente per affari e poiché gli ebrei erano sparsi in tutto il mondo e avevano lingue, storie e nazionalità diverse. Da allora ho seguito con impegno lo svolgersi degli eventi in Palestina.
In questa sede non vorrei discutere di Hamas e del suo attacco del 7 ottobre, posto che le terribili efferatezze descritte dai media corrispondano a verità (non mancano smentite dei fact-checking, come è noto agli osservatori più informati), ma delle cause di questa situazione drammatica e angosciante per gli abitanti di Gaza, privati di acqua, cibo e carburante e massacrati dai continui bombardamenti israeliani.
Tranne agli accordi di Oslo rivelatisi una vera trappola per i palestinesi, fino ad oggi il popolo palestinese è stato escluso da ogni negoziato che riguardasse il suo futuro, a cominciare dalla spartizione della Palestina decisa dall’ONU nel novembre1947 e a terminare con il recente negoziato fra USA e Arabia Saudita nel quadro dei cosiddetti Accordi di Abramo. Le ricostruzioni storiche di questi ultimi giorni per la maggior parte iniziano dal 1948, cioè dalla proclamazione dello Stato d’Israele, come se prima di quella data la Palestina – e a maggior ragione il popolo palestinese – non fossero esistiti. Ecco però che su Repubblica del 14 ottobre, nella cronologia delle tappe principali precedenti la tragedia odierna, la prima data indicata è il 1896, cioè la nascita del sionismo politico che avanzò l’idea di uno Stato ebraico in Palestina. I dirigenti sionisti di allora, tutti europei e ashkenaziti, memori dei secoli di antisemitismo, dei ghetti e dei pogrom sofferti in Europa (l’Affare Dreyfus è del 1894), erano convinti che gli ebrei fossero destinati a essere perseguitati sempre e dovunque sì che l’unica salvezza consisteva nell’avere un loro Stato; inoltre, poiché vivevano in piena epoca coloniale e vedevano le potenze europee spartirsi il Medio Oriente a tavolino, probabilmente pensavano che ritagliarsene un pezzo fosse più che plausibile.
Il Progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina, presentato dai dirigenti sionisti ai governi occidentali come “baluardo di civiltà contro la barbarie” corrispondeva perfettamente alle mire imperialistiche della Gran Bretagna e delle potenze di allora, tanto che sposarono subito l’idea di avere un cuneo europeo nel Medio Oriente a difesa dei loro interessi; e chissà mai che, emigrandovi i loro ebrei, non si sarebbe messo fine una buona volta alla sempiterna questione ebraica!
Concepito come una road map, il Progetto sionista è stato portato avanti metodicamente, tappa dopo tappa, occupazione dopo occupazione, colonie d’insediamento dopo colonie d’insediamento, espulsione dopo espulsione dei palestinesi, annessione dopo annessione, fino a raggiungere la situazione attuale.
L’ultima tappa prevede l’annessione del residuale 17% della Palestina storica, l’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi e il proseguimento dell’apartheid per quelli rimasti. Nulla viene risparmiato per rendere la loro vita impossibile: brutali raid notturni dell’esercito con arresti e uccisioni (320 palestinesi morti dall’inizio del 2023) , distruzione sistematica delle case mentre i coloni, con l’appoggio degli alleati più fanatici e razzisti del governo Netanyahu, rivendicano il diritto di appropriarsi della Terra “promessa loro da Dio” e, spalleggiati dall’esercito, tagliano gli ulivi, versano cemento nei pozzi di acqua potabile, sparano sui cittadini inermi, seminano il terrore.
In Israele nessuna personalità o formazione politica si è mai dissociata dal Progetto sionista tranne il piccolo partito Matzpen che, negli anni ’60, adottò lo slogan “Zionism or Peace, it’s your choice”. Non solo: sull’esistenza stessa del Progetto e sul suo avanzamento, bocche cucite; parlarne avrebbe significato –- e tutt’oggi significherebbe –- svelare l’intenzionalità alla base delle angherie e delle aggressioni quotidiane praticate dai governi israeliani a danno del popolo palestinese.
Naturalmente, per i media israeliani – la cui libertà è valutata al 97° posto dal World Press Freedom Index 2023 – il Progetto sionista non esiste; e, va constatato con amarezza, esiste ancor meno nei media dei paesi occidentali dove l’apparato di propaganda israeliano – con alcune comunità ebraiche europee che agiscono come sua longa manus – vigila sull’immagine dello Stato ebraico, sempre democratico e sempre vittima.
Scriveva Alfredo Tradardi:”La Palestina è avvolta, dilaniata, sconvolta dalle nebbie oscure delle strategie della menzogna della politica contemporanea, sempre più raffinate e scientifiche“. (“Gaza e l’industria israeliana della violenza”, 2015)
Fra le strategie della menzogna ci sono le menzogne per omissione; e, per lo Stato d’Israele e i suoi alleati, occultare nella misura del possibile, la persecuzione (un crimine contro l’umanità secondo l’ONU) del popolo palestinese è indispensabile per raggiungere l’obiettivo finale del Progetto sionista: uno Stato ebraico deprivato dai suoi abitanti nativi e da ogni loro traccia, culturale, religiosa, storica e geografica. Un progetto criminogeno e genocidario in partenza .
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Ho ritenuto necessaria questa lunga premessa per due ragioni: ricordare la cieca complicità dei Paesi europei e degli USA nell’intera impresa sionista e motivare l’inanità della proposta “due popoli due Stati”, sostenuta dalla diplomazia internazionale come unica soluzione possibile per un futuro di pace; unica soluzione possibile significa che ogni altra proposta viene d’emblée respinta.
Stando così le cose, è doveroso capire cosa effettivamente s’intenda per stato palestinese, quali sarebbero i suoi confini e, soprattutto, come se ne configurerebbe la sovranità. Ebbene, poiché è escluso che lo Stato d’Israele rinunci sia alle colonie in Cisgiordania sia alle annessioni di gran parte di quel territorio, ai palestinesi rimarrebbe circa il 17% della Palestina storica; Gaza sarebbe collegata al resto dello stato palestinese da un tunnel di proprietà israeliana e sarebbero presenti 700.000 coloni in insediamenti intercomunicanti, con strade a loro riservate e cavalcavia sempre di proprietà israeliana; quindi a tutti gli effetti lo Stato palestinese non sarebbe uno Stato sovrano bensì un non-Stato, per giunta totalmente dipendente dallo Stato d’Israele per la fornitura di energia elettrica, telefonia mobile, aeroporto e altri servizi essenziali; la capitale non sarebbe Gerusalemme est, bensì un sobborgo di questa chiamato Abu Dis.
Tuttavia una seconda proposta esiste: costituire un unico Stato per i due popoli, quello palestinese e quello israeliano. Anche qui bocche cucite da parte della diplomazia internazionale che la ignora, e dai media ufficiali che non ne parlano. Si distingue radicalmente dalla soluzione “due popoli due Stati” in quanto parte dalla constatazione della realtà di fatto, ovvero che oggi l’intero territorio della Palestina storica è governato da un’unica autorità, il governo israeliano. Con la Legge fondamentale del 2018, lo Stato d’Israele riconosce e impone alle popolazioni ivi residenti regimi politici diversi: pieni diritti di cittadinanza agli ebrei, financo ai coloni insediati nei territori occupati, ma diritti di gran lunga minori ai palestinesi d’Israele (chiamati arabi d’Israele, cristiani, drusi, beduini, circassi, sì da confondere la loro comune identità nazionale), apartheid per i palestinesi della Cisgiordania, ghettizzazione di Gaza, limbo infinito per i profughi il cui diritto al ritorno sulla loro terra è da sempre negato. Tale proposta dovrebbe essere accompagnata da una road map che abroghi le 60 leggi israeliane discriminatorie secondo il comitato dell’Onu, e che, secondo i giuristi e Amnesty, costituiscono un sistema di apartheid.
La differenza fra le due proposte salta agli occhi: quella dei “due popoli due stati “garantisce a Israele, in cambio della sua funzione di difesa degli interessi occidentali nel Medio Oriente, la possibilità – già citata – di portare a compimento il Progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina con meno palestinesi possibile; con ogni evidenza è una proposta che parte, non dall’intento di trovare una soluzione duratura di convivenza pacifica fra i due popoli, bensì da una visione verticistica ed eurocentrica della difesa degli equilibri geopolitici della regione. La seconda proposta, quella di “uno Stato due popoli”, è tabù in quanto volta unicamente a una prospettiva pacificatrice; ma anche perché in controtendenza rispetto alla visione geostrategica delle grandi potenze e dei loro alleati: quella di un Israele Stato ebraico forte ed egemone in un Medio oriente di ex stati sovrani, anomici e in disgregazione (Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Libia).
Nel 1939, quando la Palestina era sotto mandato britannico e l’immigrazione dei coloni europei accelerava, il governo di Londra pubblicò un Libro Bianco nel quale raccomandava la costituzione di uno Stato unico a maggioranza araba. Trent’anni dopo, nel 1972, durante un incontro fra Lelio Basso e Yasser Arafat cui ebbi il privilegio di partecipare, Arafat spiegò che, secondo il programma dell’OLP, l’unica via d’uscita era la costituzione di uno Stato unico, laico e democratico, per palestinesi e israeliani; e precisò: non, per ebrei e arabi dove la parola ebrei serve ad inglobare tutti gli ebrei del mondo e la parola arabi serve a negare l’esistenza della nazione palestinese, bensì di un unico Stato per il popolo israeliano e quello palestinese, con la garanzia del diritto al ritorno dei profughi; è ciò che altresì raccomanda la relazione sullo Stato d’ Israele del marzo 2017 della United Nations Economic and Social Commission for Western Asia.
Non sopravvaluto il crescente, seppur ancora limitato, gradimento che tale proposta suscita nei popoli interessati. Tuttavia, ai palestinesi è sempre più chiaro che è preferibile battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato invece che accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione “due popoli due Stati”. Fra gli israeliani la situazione è più complessa. Oltre il venti percento della popolazione è composta da palestinesi, oltre il cinquanta percento è di provenienza araba e sefardita (fra cui i miei avi) e solo il venti percento e poco più è di origine europea e americana; però quest’ultimo gruppo costituisce l’establishment, sostiene l’equazione fra palestinesi e terroristi, da sempre disprezza tutto ciò che è arabo e il suo vero incubo è la “levantinizzazione” di Euro-Israele data la crescita demografica palestinese, assai superiore a quella israeliana.
Non sottovaluto le obiezioni, gli ostacoli, i ricatti e magari anche il peggio di cui sono capaci i potenti e gli israeliani (lo vediamo oggi con l’assedio di Gaza) alla sola idea di perdere le loro posizioni di forza, ma ciò non ci deve impedire di affermare che l’unica soluzione equa e di respiro è quella di uno Stato comune a entrambi i popoli; non da attuare domani, s’intende, ma in prospettiva, perché appunto di prospettiva si tratta, cioè di un processo politico lento, volto a svelenire il clima di odio diffuso e porre le basi di una convivenza pacifica. Non un sogno ma “l’utopia che serve a camminare”(Eduardo Galeano) come insegna la storia del Levante che, seppur in filigrana, esiste e parla di accoglienza e di convivenza pacifica fra religioni e popoli: a patto che la si voglia.
Vera Pegna
*Vera Pegna nasce ad Alessandria d’Egitto da un’antica famiglia ebraica stabilitasi in Egitto nell’Ottocento. Studia in Europa e giovanissima si trasferisce in Sicilia dove lavora con il PCI scontrandosi con la realtà della mafia e dove entra in contatto con Danilo Dolci col quale condividerà gli ideali pacifisti. Critica da sempre nei confronti del sionismo e della natura dello Stato di Israele, è tuttora impegnata nella difesa dei diritti del popolo palestinese.
30/10/2023 https://comune-info.net
Immagine: 20 ottobre 2023. Quel che resta del quartiere Al Zahra, a nord of Gaza city. Ph. Mohammed Zaanoun for Activestills, la cui pubblicazione su Comune-info è autorizzata dal collettivo dell’agenzia, grazie a Pasquale Liguori
Questo articolo che ci ha inviato Patrizia Cecconi, in accordo con Vera Pegna, è uscito anche su L’AntiDiplomatico
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