Il punto su…il Jobs Act e l’occupazione
Le partite aperte e l’autunno che verrà
La pausa estiva lascia molte partite aperte il cui esito è rimandato a quello che accadrà in autunno e con la legge di stabilità per il 2017: dagli 8 milioni di lavoratrici e lavoratori senza contratto alle pensioni, dalle politiche per il lavoro al contrasto alla povertà.
Il governo Renzi negli ultimi mesi ha messo in campo una nuova strategia comunicativa: non più lo scontro frontale con i soggetti sociali a partire dai sindacati, ma un’esibita apertura di confronto con il ripristino delle relazioni. La data non ancora definita per lo svolgimento del referendum sulla controriforma costituzionale, è del resto evidentemente legata al tentativo di recuperare consensi, dopo la sconfitta pesantissima delle amministrative, attraverso qualche provvedimento sul terreno delle maggiori emergenze. Nel frattempo va avanti la propaganda, non solo sulla controriforma Costituzionale, ma sulle magnifiche sorti e progressive delle politiche del governo: dal Jobs Act all’ approvazione della legge delega sulla povertà.
Quelle che seguono sono poche note per fare il punto sullo stato delle cose, fuori dalla propaganda del governo e con la volontà, per quanto sta in noi, di un autunno capace di rilanciare e ricomporre le mobilitazioni, senza accettare scambi iniqui tra limitatissime misure risarcitorie e la sostanziale implementazione delle politiche neoliberiste. Partiamo dal Jobs Act.
Il Jobs Act, l’occupazione, i referendum.
Come è noto il governo ha venduto gli ultimi dati sull’occupazione come la dimostrazione della riuscita delle proprie politiche del lavoro ed in particolare del Jobs Act.
Eppure i dati Istat e Inps raccontano un’altra storia.
Partiamo da quelli che sembrerebbero dare maggiormente ragione alle affermazioni del governo, e cioè l’ultimo bollettino dell’Istat sull’occupazione uscito il 29 luglio e relativo al mese di giugnoi.
Secondo l’Istat la variazione tendenziale, cioè l’occupazione a giugno 2016 rispetto a giugno 2015, registra un aumento di 329.000 occupati, passando da 22.452.000 occupati a 22.781.000.
Di questi 329mila, i lavoratori dipendenti sono 246mila mentre 83mila sono i lavoratori autonomi. Dei 246mila lavoratori dipendenti in più, quelli “permanenti” sono 207mila.
Dunque posto che l’obiettivo (propagandato) del Jobs Act era in particolare la creazione di occupazione dipendente a tempo indeterminato, l’aumento registrato è pari a poco più di 200mila persone. Ovviamente quando parliamo di occupazione permanente, sappiamo che si tratta di una falsità: essendo l’obiettivo del Jobs Act la piena libertà di licenziamento, nessun contratto “a tutele crescenti” è a tempo indeterminato!
Si dirà tuttavia che 200mila posti di lavoro in più non sono poco cosa. Invece lo sono, se raffrontati con la quantità ingentissima di risorse che sono andate alle imprese per la decontribuzione legata ai nuovi contratti. Risorse stanziate dalla Legge di Stabilità 2015 – non dal Jobs Act – per creare la “bolla occupazionale” e poter così dimostrare la bontà delle politiche del governo.
Come si ricorderà infatti la legge di stabilità 2015 ha messo a disposizione, per i nuovi contratti stipulati entro quell’anno e per le conversioni di contratti precari nel “contratto a tutele crescenti”, 8060 euro di riduzione annua dei contributi per un periodo massimo di 3 anni, decontribuzione poi ridotta dalla successiva legge di stabilità 2016, a 3250 euro annui per due anni.
Nanni Alleva ha denunciato anche recentemente la grande truffa che questi contributi hanno rappresentato in particolare per tutte le trasformazioni in contratti a tutele crescenti di quei contratti (a termine, di apprendistato o cocopro) che 9 volte su 10 avrebbero dovuto essere perseguiti in quanto irregolariii.
Ma anche a voler prescindere da questo dato rilevantissimo (dagli 8 ai 10 miliardi regalati agli evasori e truffati all’Inps), quanto è costata l’occupazione aggiuntiva “creata” dal Jobs Act? Una simulazione estremamente puntuale dei costi della decontribuzione (formulata nelle ipotesi di diversa durata delle assunzioni), ha fissato un costo variabile tra i 14,6 e i 22,6 miliardi nel triennioiii. Prendendo l’ipotesi intermedia siamo a 18,5 miliardi di costo nel triennio, oltre 6 miliardi su base annua. (stima peraltro confermata dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità 2016iv).
Dunque ogni posto di lavoro “creato” con il Jobs Act – in realtà con la decontribuzione – è costato circa 30.000 euro. Un piano di assunzioni dirette da parte dello stato avrebbe creato un numero maggiore di posti di lavoro, senza regalare 8 o 10 miliardi agli evasori. Inconfutabile.
Ma la politica di contributi alle imprese del governo non si è limitata a questo. Alle risorse specificamente dedicate alla decontribuzione del “contratto a tutele crescenti” vanno infatti aggiunti i 4,3 miliardi annui di taglio dell’Irap, altri 4 miliardi nel triennio 2015-2017 per una serie di provvedimenti vari, il super-ammortamento per gli investimenti (580 milioni per il 2016, 1 miliardi negli anni dal 2017 al 2021), la riduzione dell’Imu sugli imbullonati (che da sola vale quasi il doppio delle risorse stanziate per il rinnovo del contratto di 3 milioni di lavoratori pubblici), per un totale di 12-13 miliardi di risorse aggiuntive distribuite a pioggia alle imprese nel 2016 e che ad oggi hanno complessivamente prodotto un aumento di poco più di 300mila occupati.
C’è un altro dato che merita di essere citato nel rapporto Istat, ed è la distribuzione dell’occupazione per fasce di età. Dei 329mila occupati in più infatti ben 264mila sono ultracinquantenni (per quel che riguarda le altre fasce di età, l’occupazione aumenta da 25 a 34 anni e diminuisce da 35 a 49 anni). C’è qualcosa di più di un sospetto dunque che l’occupazione aggiuntiva dipenda significativamente dagli effetti che si dispiegano nel tempo della controriforma Fornero delle pensioni, più che dalle politiche del lavoro.
Infine la disoccupazione aumenta rispetto al mese precedente di 27mila unità, per quanto in calo su base annua. Il governo in questo caso festeggia il fatto che cali il numero di inattivi e che dunque l’aumento della disoccupazione vada considerato come un aumento della quota delle persone che si sono messe a cercare un lavoro uscendo dalla condizione di inattività.
Come si ricorderà infatti è censita come disoccupata ogni persona tra i 15 e i 74 anni che abbia effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sia disponibile a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive.
I disoccupati continuano ad essere a giugno 2016 poco meno di 3 milioni di persone (2milioni e 983mila), il doppio del periodo pre-crisi. Questo è tuttavia notoriamente un dato dimezzato rispetto alla disoccupazione effettiva. Almeno la stessa attenzione che viene dedicata al rapporto tra disoccupati ed inattivi andrebbe infatti riservata alle cosiddette forze potenziali di lavoro. Vengono infatti censite in questo modo le persone che anche se non hanno effettuato un’azione attiva di ricerca di lavoro, sarebbero disponibili a lavorare immediatamente (persone che evidentemente non cercano perché non sperano di trovarlo un lavoro) e coloro i quali invece hanno effettuato una ricerca attiva ma non sono disponibili a lavorare immediatamente. Le forze potenziali di lavoro sono un numero altissimo nel nostro paese, sono costituite quasi tutte dalla prima categoria (non cercano ma immediatamente disponibili) e nel primo trimestre del 2016 hanno raggiunto il numero di 3 milioni e 441mila personev, con un aumento di oltre 50mila unità rispetto all’ultimo semestre 2015.
In sostanza i disoccupati effettivi sono quasi 6 milioni e mezzo.
La demistificazione della propaganda del governo è ancora più pesante se si guarda all’ultimo rapporto Inpsvi. In questo caso vengono forniti i dati relativi al rapporto tra assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro e altre informazioni a partire da quelle relative alla diffusione dei voucher.
Nei primi 5 mesi del 2016, da gennaio a maggio le stipule di contratti “a tempo indeterminato” (le virgolette sono d’obbligo data la liberalizzazione dei licenziamenti) sommate alle trasformazioni di contratti preesistenti sono state 712mila a fronte di 630mila cessazioni con un saldo di 82mila. Il saldo nello stesso periodo del 2015 era stato di + 379mila. Il dato del 2016 registra dunque un crollo del 78%. Non solo, il saldo risulta peggiore anche rispetto all’analogo periodo (gennaio- maggio) del 2014 (+ 122mila).
In buona sostanza non solo una volta diminuiti gli incentivi, crollano le assunzioni “a tempo indeterminato”, ma queste sono inferiori al periodo precedente al Jobs Act e agli incentivi, cioè al 2014.
Parallelamente continua l’esplosione dei voucher, che raggiungono nei primi 5 mesi del 2016 un incremento del 43% sullo stesso periodo del 2015, periodo in cui si era registrato rispetto all’anno precedente un incremento del 75,2%. Sono 56,7 milioni i voucher venduti da gennaio a maggio, con un’esplosione del lavoro “usa e getta” sempre più sostitutiva dei rapporti di lavoro.
Cancellazione dell’articolo 18, massima precarizzazione del lavoro in ingresso tra eliminazione delle causali nei contratti a termine e esplosione dei vouchers, demansionamento e videosorveglianza, ed un’ enorme quantità di risorse regalate alle imprese (comprese quelle che avrebbero dovuto essere perseguite per l’irregolarità dei contratti stipulati) hanno prodotto questo quadro.
Le politiche neoliberiste fatte di cancellazione dei diritti del lavoro e risorse regalate alle imprese, portano ad una regressione sociale senza precedenti e continuano ad essere totalmente fallimentari: il Jobs Act non serve con tutta evidenza a creare occupazione. Serve a rendere più ricattabile il lavoro, ad indebolirlo e frammentarlo ulteriormente, a partire proprio dalla partita dei rinnovi dei contratti nazionali.
Sono di grandissima importanza dunque i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, per ripristinare l’articolo 18 ed estenderlo alle aziende a partire da 5 dipendenti (dai 15 fissati originariamente dallo Statuto dei Diritti dei Lavoratori), eliminare i voucher, affermare la responsabilità solidale nelle catene degli appalti.
Ed è di grandissima importanza che la demistificazione della propaganda del governo si rafforzi, intrecciata alla rivendicazione di una politica economica e del lavoro radicalmente alternativa a quella del governo: un piano per il lavoro – anche rilanciando la nostra proposta – con al centro il ruolo dei soggetti pubblici nella creazione diretta di occupazione e nelle politiche di investimento.
Roberta Fantozzi
segreteria nazionale Rifondazione Comunista
9/8/2016 www.rifondazione.it
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