Il Rojava si prepara a un imminente attacco di Erdoğan
Erdoğan ha annunciato già a fine maggio la sua intenzione di riprendere l’invasione interrotta nel 2019. Il progetto militare ha lo scopo di occupare una fascia profonda 30 km lungo tutto il confine turco-siriano, per instaurare una cosiddetta “zona di sicurezza”. L’intenzione è quella di continuare l’implementazione del progetto di ingegneria demografica chiamato “cintura araba”, volto a creare una zona cuscinetto tra curdi in Siria e curdi in Turchia. L’idea aveva preso forma per la prima volta nel 1963, per via dell’agente del regime Ba’ath siriano Muhammad Talib Hilal, che ordinò l’evacuazione delle popolazioni curde da circa 332 villaggi nei pressi del confine turco e la loro sostituzione con famiglie arabe provenienti da Raqqa. L’iniziativa venne poi sospesa sotto Hafez al-Assad, nel 1976, per paura che il regime non fosse in grado di gestire un’eventuale rivolta curda.
Nel corso dei giorni è poi diventato chiaro che le aree interessate dalla nuova operazione saranno le zone a ovest dell’Eufrate. Al centro dello schema bellico ci sono le città di Minbij e Tell Rifaat, già obiettivo dell’operazione che avrebbe dovuto svolgersi lo scorso autunno, poi interrotta a causa dell’impossibilità per Erdoğan, all’epoca, di ottenere il via libera da USA e Russia per iniziare l’invasione.
La città di Tell Rifaat si trova a nord di Aleppo, fa parte dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (AANES) ed è abitata principalmente da rifugiati interni di Afrin. La zona è circondata, a nord dalle forze turche e dalle bande jihadiste a loro affiliate, che occupano Afrin, e a sud dalle forze fedeli al regime di Assad. Tra questi ultimi, si registra una forte presenza di forze armate iraniane nelle aree sciite della campagna di Aleppo. In questo scenario, i militari russi sono di stanza a Tell Rifaat: una presenza che ha lo scopo di interporsi tra le forze iraniane supportate da Hezbollah e le forze armate turche, evitando la creazione di un fronte aperto.
Per Minbij la situazione è diversa, la città a maggioranza araba è quotidianamente attaccata sul fronte ovest da esercito turco e Hay’at Tahrir al-Sham, propaggine siriana di Al Qaeda. La città è stata teatro nel 2016 di una delle più violente battaglie della guerra contro l’Isis fino alla liberazione da parte delle appena fondate Forze di Difesa Siriane (SDF), costata un prezzo altissimo in termini di caduti. Da allora è amministrata da un consiglio locale e difesa da un consiglio militare inquadrato nelle SDF.
La liberazione di Minbij fu fondamentale in quanto la città era l’approdo in Siria di larga parte dei jihadisti stranieri e locali che vi si recavano partendo da Gaziantep, in Turchia, utilizzando quella che all’epoca era conosciuta come “Autostrada della Jihad”. La sua liberazione ha portato al taglio della linea di rifornimento dell’ISIS tra Turchia e Raqqa e ha reso possibile, un anno dopo, la liberazione della capitale del cosiddetto Stato Islamico in Siria.
Appare chiaro che l’obiettivo della nuova invasione turca sia occupare l’intera area a ovest dell’Eufrate, per eliminare la resistenza delle SDF. Inoltre, l’iniziativa militare mira a estendere le aree in cui l’esercito turco può muoversi liberamente per fornire supporto militare e logistico alle bande jihadiste nella zona, guadagnando una posizione di forza contro il regime di Damasco nella prospettiva, a lungo termine, di un’annessione ufficiale allo Stato turco delle aree occupate.
La Turchia è arrivata in Siria per restare, lo stesso Erdoğan ha più volte apertamente dichiarato che l’obiettivo a lungo termine è la riconquista entro il 2023, anno in cui cade il centenario del trattato di Losanna, delle aree facenti parte del cosiddetto patto nazionale (Misak-ı Millî) e che si estendono da Aleppo a Mosul.
Essendo questa una questione che riguarda il futuro della Siria nel suo insieme, e non solo dell’AANES, sono iniziati una serie di colloqui tra alti comandi di SDF e dell’Esercito Arabo Siriano (SAA), ovvero le forze che obbediscono a Bashar Al Assad, allo scopo di trovare un accordo per l’organizzazione di un meccanismo congiunto di difesa in caso di invasione. Un patto militare in linea con la posizione dell’AANES secondo cui la soluzione alla guerra civile siriana va trovata tramite il dialogo tra tutte le forze locali interessate ma con il presupposto della liberazione di tutte le aree occupate.
Diverse dichiarazioni da parte di comandanti dei consigli militari locali inquadrati nelle SDF, incluso il portavoce della “Brigata dei rivoluzionari di Idlib”, uno dei molti gruppi ribelli siriani della prima ora che si è unito alla rivoluzione della Siria del nord-est, suggeriscono che sia stato raggiunto un accordo che prevede la difesa congiunta delle aree minacciate. L’esercito di Damasco sta effettivamente spostando nelle ultime ore truppe ed equipaggiamento sulla linea del fronte. Tuttavia ancora non si hanno informazioni sullo schieramento dell’unica arma che renderebbe efficace questo accordo: i sistemi di difesa antiaerei di cui le SDF non dispongono.
Allo stato attuale quanto questo accordo possa effettivamente cambiare le sorti del conflitto non è chiaro. Già prima delle battaglie di Afrin e Serekaniye erano stati raggiunti accordi simili ma dopo tanti proclami l’esercito siriano è arrivato al fronte in pompa magna con più bandiere che soldati ed in evidente scarsità di equipaggiamento e armamenti. Lo scontro tra SAA ed esercito turco è stato però evitato, con una graduale ritirata di fronte all’avanzata dei militari di Erdoğan.
I preparativi sono iniziati da tempo
Sono ben visibili, i preparativi, osservando gli avvenimenti nelle aree già sotto occupazione. Nelle ultime settimane si sono verificati violenti scontri ad Afrin e Al-Bab. La tensione è scoppiata quando in previsione dell’imminente attacco, la Turchia ha ordinato la fusione dei gruppi jihadisti Aḥrār al-Shām e Jabhat al-Shamiyah. Seppure ufficialmente alleate dal 2019 sotto l’ombrello dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), le due organizzazioni fanno riferimento a catene di comando separate, occupano e controllano territori diversi e sono in conflitto per l’egemonia nel nord-ovest della Siria. Mentre Jabhat al-Shamiyah è un’alleanza di diverse brigate che conta circa 3.000 combattenti facenti riferimento a una sola catena di comando, Aḥrār al-Shām è un’organizzazione di appena 500 effettivi, che pur non facendo parte del network di Al Qaeda fa affidamento per la propria sopravvivenza politica e militare sull’appoggio di Hayat Tahrir al-Sham, ramo siriano dell’organizzazione terroristica internazionale di cui era a capo Osama Bin Laden.
L’accorpamento si è rivelato complicato per una serie di fattori, tra cui il fatto che le bande in questione sono sotto controllo turco ma rispondono fondamentalmente solo alle proprie logiche di potere. La fusione avrebbe significato per Aḥrār al-Shām perdere il controllo sul territorio e quindi sulla principale fonte di introito: l’estorsione. Inoltre, le aree occupate da settimane sono al centro di violentissime proteste. I dimostranti chiedono il ritiro delle bande che da anni terrorizzano i civili e la fine della colonizzazione portata avanti dallo Stato turco, responsabile della degradazione della qualità della vita. Le manifestazioni infatti sono state innescate dall’innalzamento progressivo del costo dell’elettricità che è gestita da una compagnia privata turca legata all’AKP, il partito di Erdoğan.
Invece, nel caso specifico di Al-Bab gli scontri tra popolazione e bande sono diventati molto più violenti. I tumulti sono scaturiti a seguito di un episodio di violenza sessuale di gruppo ai danni di un bambino di 5 anni, agita da miliziani del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA), l’organizzazione ombrello sotto cui la Turchia ha accorpato le bande jihadiste prima dell’invasione del 2019.
Aḥrār al-Shām e Jabhat al-Shamiyah hanno iniziato a scontrarsi nei centri urbani per contendersi il territorio seminando morti e feriti tra la popolazione civile. Ma la situazione si è aggravata pesantemente quando Hayat Tahrir al-Sham, che controlla l’intera regione di Idlib, è arrivata in forze a supporto di Aḥrār al-Shām e ha occupato sistematicamente le aree precedentemente in mano ai gruppi rivali, prima ad Al Bab e poi nella regione intorno ad Afrin, fino a entrare nella stessa città di Afrin.
Secondo fonti di intelligence delle SDF questi avvenimenti non sarebbero solo un altro capitolo delle perenni lotte intestine tra gruppi jihadisti ma un piano ben strutturato del MIT, il servizio segreto turco, al fine di risolvere il problema delle lotte interne tra i gruppi che dovrebbero portare avanti la nuova invasione. A supporto di queste informazioni c’è un incontro avvenuto il 2 giugno a Idlib proprio tra i vertici del MIT e quelli di Hayat Tahrir al-Sham.
Il cosiddetto SNA è ormai una struttura morente, senza alcuna capacità militare e continuamente in conflitto interno per via della mancanza di una leadership, dipendente per la sua sopravvivenza dalla protezione militare dell’esercito turco. Al contrario Hayat Tarhir al-Sham essendo parte del network di Al Qaeda è una formazione che nonostante nelle aree che occupa utilizzi gli stessi identici metodi di occupazione basati sull’estorsione e il terrorismo nei confronti della popolazione, vanta efficienza militare e una chiara catena di comando.
La Turchia mira a indebolire gli altri gruppi per rafforzare l’egemonia di Hayat Tahrir al-Sham sulle aree occupate, garantendosi così una forza militare efficiente da sfruttare nelle operazioni future. Bisogna inoltre considerare il supporto indiretto su cui una futura invasione può contare da parte delle cellule di ISIS, sparse in tutta la Siria del nord-est.
Nel corso dell’invasione del 2019 e durante la fallita evasione di pochi mesi fa dal carcere di Sina’a, le forze del califfato hanno dimostrato di avere capacità operativa sufficiente per impegnare diverse divisioni delle SDF a centinaia di kilometri dalla linea del fronte.
Perché solo pochi mesi fa l’operazione non fu possibile mentre ora sembra quasi inevitabile?
Perché negli ultimi mesi, con l’aggravarsi della crisi ucraina e l’inizio dell’offensiva russa, la Turchia è riuscita a ritagliarsi un ruolo di primo piano nella NATO. Lo ha fatto imponendosi come mediatore di pace tra l’occidente e la Russia in virtù dei suoi buoni rapporti con entrambi i blocchi. Una posizione che, se non avesse conseguenze tragiche, sarebbe comica dal momento che lo Stato turco nel frattempo sta muovendo guerra a tutti i suoi vicini, arrivando al punto di minacciare anche la Grecia. Con il prolungarsi della crisi si è presentata di fronte al regime di Erdoğan un’irripetibile occasione: sfruttare il diritto di veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza per ottenere concessioni.
Partendo dal presupposto che per quanto i rapporti possano diventare tesi tra NATO e Turchia, non esiste uno scenario possibile in cui la Turchia venga espulsa dall’alleanza. Questa eventualità significherebbe perdere la testa di ponte occidentale in medio oriente. È deprimente osservare la rapidità con cui le richieste di Erdoğan siano state immediatamente esaudite dimenticando in un batter d’occhio tutte le critiche mosse allo Stato turco rispetto a negazione dei diritti umani fondamentali, prigionieri politici, mire espansionistiche e crimini di guerra.
La prima mossa è stata la cessazione del blocco da parte della Svezia sulla vendita di armi imposto dopo l’invasione del Rojava del 2019. Alcune delle richieste turche hanno toccato vette di surrealismo che non ne permettevano l’attuazione. Un esempio tra tutte è stata la richiesta di estradizione di Amineh Kakabaveh, deputata svedese di origine curda in nessun modo legata alla Turchia essendo originaria del Rojelhat, il Kurdistan occupato dallo Stato iraniano.
A ufficializzare la resa dei governi dei due Paesi scandinavi alla Turchia è stato il memorandum tripartito firmato appena prima dell’inizio del summit NATO di Madrid, con la mediazione del segretario generale dell’alleanza atlantica Jens Stoltenberg. Le tre pagine sventolate come una vittoria dal Ministro per gli Affari esteri svedese Anne Linde, che appena l’anno scorso dichiarava di essere “La montagna del popolo curdo” (rifacendosi al famoso motto secondo cui i curdi non hanno alcun amico tranne le montagne), mettono nero su bianco l’impegno a non sostenere le YPG e a continuare a considerare il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) un’organizzazione terroristica, proprio nel momento in cui è in corso una campagna internazionale per il delisting del partito dei lavoratori del Kurdistan.
Nel documento viene inoltre ribadita l’apertura dei due paesi ad accogliere le richieste di estradizione presentate da Ankara. Nella lista trapelata qualche giorno dopo figura ogni genere di oppositore politico al regime di Erdoğan: curdi, turchi, giornalisti e intellettuali di sinistra, islamisti, un candidato al Nobel per la pace e addirittura il poeta curdo Mehmed Sirac Bilgin, nonostante sia morto nel 2015 a 71 anni. Tutti sono etichettati come appartenenti a PKK o alla Fetullahist Terrorist Organization (FETO), una presunta organizzazione politica criminale riconosciuta solo dalla Turchia a cui fa capo l’Imam Fethullah Gulen, un tempo alleato dell’AKP e accusato di aver orchestrato il fallito golpe del 2016.
Davanti a questo scenario appare facile capire che il gioco della Turchia è quello di sedere a tutti i tavoli possibili sfruttando la guerra in Ucraina per ottenere concessioni da Russia e USA, cioè le uniche forze a cui deve rendere conto di ogni movimento che fa in Siria.
Le dichiarazioni del governo turco e i vasti movimenti di truppe e armi pesanti lasciano intendere che l’invasione sia ormai questione di tempo. Una delegazione statunitense, a cui ha partecipato il senatore Lindsey Graham, si è recata proprio a Minbij per incontrare i consigli militari e civili della città. Al termine della visita Graham ha blandamente dichiarato la volontà dell’amministrazione USA di continuare a supportare le SDF nella lotta al terrorismo. Fonti non ufficiali interne alle SDF affermano che gli USA avrebbero proposto alle forze di autodifesa di ritirarsi e consegnare Minbij alla Turchia in cambio di rassicurazioni sul proseguimento del supporto statunitense a est dell’Eufrate. Una proposta che avrebbe provocato un secco rifiuto.
Non è difficile credere, nonostante il cambio di amministrazione, che una proposta del genere possa essere stata formulata dagli stessi Stati Uniti che nel 2019 proposero alle SDF di rimuovere le proprie fortificazioni sul confine turco in cambio di un patto di non aggressione di cui si fecero garanti. La promessa non venne mantenuta: gli statunitensi hanno poi ritirato il contingente della coalizione sul confine, lasciando così le SDF senza supporto e senza postazioni difensive al momento dell’invasione. Per questo motivo non è difficile comprendere perché le SDF non abbiano neanche preso in considerazione una proposta simile.
Del resto lo stesso Myles Caggins III, ex-portavoce della coalizione internazionale contro l’ISIS, ha commentato su twitter la notizia dell’incontro affermando indirettamente che la Russia è l’unica forza che potrebbe opporsi all’invasione e che “la coalizione a guida USA non impedirebbe mai fisicamente un’invasione turca”. Un’affermazione che arriva mentre circola voce che un caccia turco abbia sconfinato nello spazio aereo siriano proprio su Tell Rifaat. Il mezzo sarebbe poi stato costretto al rientro da due aerei da combattimento russi. L’informazione, tuttavia, è impossibile verificare con certezza e, forse, è solo una di quelle voci che circolano per mantenere un barlume di speranza. Per non pensare che si è stati abbandonati del tutto.
15/7/2022 https://www.dinamopress.it
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