Il Santo Spirito del Decoro
Il primo incontro con la politica studentesca l’ho avuto a quindici anni sul sagrato di una chiesa. Ero venuta a sapere di quell’incontro grazie a un volantino ricevuto davanti al portone della scuola. Un foglietto in bianco e nero illeggibile, fallimentare su ogni piano comunicativo, che raccontava un mondo di studenti senza soldi costretti a comprimere in un A5 tutta la veemenza che avevano in corpo. Il risultato era un testo fittissimo in carattere a corpo 7, un compromesso un po’ al limite per coniugare tutto lo schifo che provavano con la possibilità di non causare miopie precoci. In fondo recitava: GIOVEDI’ H.15.00 IN SANTO!! Così dopo la scuola ci ritrovavamo seduti in cerchio per recuperare almeno fisicamente un’idea di democrazia spaziale con sullo stomaco una pizza condivisa, rigorosamente murata a secco, che si serviva del fumo di tabacco per essere digerita. Poi ognuno diceva qualcosa prendendo il megafono e ascoltavamo quelli più grandi: capivamo come mai le parole su quel volantino erano così fitte, capivamo quante cose c’erano da raccontare sulla condizione studentesca.
Per quanto fosse bizzarro, ci ha accolto per anni solo il sagrato progettato dal Brunelleschi della chiesa di Santo Spirito, nel quartiere di San Frediano a Firenze. Non la scuola che accettava i suoi studenti come un albergo ad ore, «non abbiamo i soldi per pagare i custodi anche per il pomeriggio» ci diceva la preside, «per quanto sarebbe bello non è proprio possibile». Non il comune che aveva aperto solo una biblioteca in centro a Firenze con pochi posti e nessuno spazio di socialità, non un circolo perché di quelli non se ne vedono più da tempo. Era rimasta la chiesa su cui passavamo i pomeriggi e si prestava con i suoi gradini a rispondere alle nostre esigenze extrascolastiche: prendere una birra con gli amici, ripetere assieme per il compito del giorno dopo, discutere al termine di una manifestazione tutti insieme.
La scorsa settimana sono stati allestiti dei piloni in cemento lungo il sagrato della chiesa di Santo Spirito uniti da una corda da cui pende un cartello che avverte i lettori del divieto di sostare sulle scalinate, bivaccare, bere e mangiare. Il sindaco Nardella ha dichiarato che «se siamo arrivati a questo punto, è perché non c’è stata alternativa», che la scelta è dettata da esigenze di decoro e sicurezza e che l’amministrazione prevede un confronto con gli storici dell’arte per insegnare ai ragazzi il Bello. A seguito di questa decisione venerdì scorso centinaia di ragazzi si sono radunati in piazza, hanno tirato giù i piloni e usato la fune divisoria per saltare la corda. Oltre all’energia di resistenza che in quelle ore Santo Spirito e i suoi abitanti hanno dimostrato, ho letto il rovesciamento dei piloni come l’atto più simbolico di rifiuto di Firenze-città-vetrina.
A ben vedere il nuovo perimetro disegnato dall’amministrazione ricorda la limitazione presente nei musei davanti alle teche, impone una distanza estetica, un rapporto con l’oggetto di ammirazione e di contemplazione. La disciplina dell’estetica insegna che per poter apprezzare un’opera bisogna allontanarsi abbastanza perché il sentimento non comprometta la lucidità della valutazione. Eppure il sentimento che lega gli abitanti con la città risiede proprio nella possibilità di vivere fisicamente la vicinanza con i suoi palazzi, di viverli in un coinvolgimento collettivo ed emotivo. Per questo è inaccettabile vedere le corde lungo l’architettura della città e togliere il significato, il ruolo e la funzione sociale che certi palazzi e spazi hanno: la piazza nasce con lo scopo preciso di far radunare le persone e di creare collettività, per questo le uniche funi accettate sono quelle usate per saltare la corda. La politica amministrativa fiorentina invece negli ultimi vent’anni è involuta su sé stessa e ha esteso le protezioni per i quadri anche fuori dall’uscio del museo rendendo possibile una fruibilità unicamente estetica dei suoi spazi.
Tutto questo, ci dicono gli amministratori, è fatto in nome del decoro, una parola che sembra una nuova forma di disciplina cittadina, una declinazione contemporanea dell’educazione civica. Merita un’attenzione precisa questa parola che designa «Dignità che nell’aspetto, nei modi, nell’agire, è conveniente alla condizione sociale di una persona o di una categoria […] Il sentimento della propria dignità, la coscienza di ciò che si addice e che è dovuto al proprio grado, alla propria funzione o condizione». Qual è allora la funzione di quella piazza e quale la condizione (sociale, aggiungerei) a cui si fa riferimento come parametro per calibrare i comportamenti considerati adeguati a quel luogo?
È evidente che il decoro nasconde un’ideologia precisa di città e della sua gestione: con toni gentili questa parola ripropone il galateo delle buone maniere che, come sappiamo, è fatto a uso e costume della borghesia. La lettura della parola decoro avviene quindi forzatamente in termini classisti: basta infatti dare le spalle alla chiesa per vedere la piazza piena di tavolini dei ristoranti in cui è possibile stazionare se si ha le condizioni economiche per poterlo fare. È decoroso avere trenta euro per mangiare due affettati su un tagliere in truciolare accompagnato da un vino della casa, non è decoroso non averli e stazionare con la tua compagna di corso sul sagrato con una birretta da 66cl portata da casa.
Altre poi sono le motivazioni che il vocìo del comitato dei Residenti di Santo Spirito adduce quando utilizza la parola decoro: contrasto alla movida, al degrado, al baccano, preservare il bello, evitare la puzza di piscio ovunque, i barboni e gli ubriachi.
Vorrei allora provare a riflettere sulle parole che vengono spesso utilizzate come una manifestazione di buon senso, parole neutre e giuste per natura su cui non è possibile essere in disaccordo. La lotta dell’amministrazione alla movida studentesca è iniziata già prima che il Covid accendesse quella goffa ricerca di capri espiatori che i giornali hanno dimostrato verso i giovani che senza remore si accalcano. I ragazzi hanno sofferto la mancanza di una giustificazione giuridica che gli permettesse una basilare mobilità fisica nei mesi pandemici, spesso infatti i ragazzi dai 16 ai 30 con le scuole e le biblioteche chiuse e senza un lavoro non avevano un motivo valido per varcare lo zerbino di casa, in quanto niente al di fuori dello statuto di lavoratore è stato contemplato dai Dpcm. Dopo mesi di clausura il governo concede loro di bersi uno spritz con gli amici: non si capisce come mai siano considerati politicamente più responsabili di tutto il comitato tecnico scientifico europeo o di chi non ha liberalizzato i brevetti dei vaccini.
Il degrado e il baccano che questi residenti adducono ai giovani non è che la risposta miope di chi guarda il dito anziché la luna. Beninteso che il diritto al riposo è sacrosanto e che se vi sono dei comportamenti impropri e irrispettosi devono essere sanzionati, dove sarebbe il degrado di vedere i fiorentini stare nelle loro piazze? L’articolo 9 della Costituzione, come ci ricorda spesso Tomaso Montanari che proprio sulla politica urbana di Firenze spende sempre parole di peso, nasce per dire questo: i palazzi e le piazze italiane sono nate per essere di tutti e tutte, la loro funzione è quella di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. Le numerose strutture architettoniche fiorentine ispezionate dai cameramen d’oltreoceano e raccontate dalle guide turistiche che alle sette e mezza del mattino già facevano aleggiare i loro ombrellini e fiocchettini per non perdere il gregge, hanno una funzione civica. La loro bellezza risiede proprio nel fatto che hanno una funzione sociale e appartengono a tutti e tutte.
Se al loggiato degli Uffizi viene tolta questa funzione trasformando i suonatori di Jazz in militari coi kalashnikov in nome della «sicurezza» (qualcuno mi deve sinceramente spiegare come faccio a sentirmi sicura in una città militarizzata) allora diventa un bene di lusso o una Disneyland del Medioevo, un parco archeologico buono per fare un tuffo nel passato e raccontare come i fiorentini una volta usavano le bocchette del vino: una città senza civiltà. Il tema della sicurezza o della «presunta» sicurezza, come è possibile leggere nelle delibere del comune, ha toccato poi l’apice quando il primo cittadino ha pubblicato un post su Facebook per celebrare l’installazione della telecamera n. 1.000 nella città grazie al «modello Tel Aviv». È qui allora che mi sembra crollare l’appello all’insegnamento del Bello che il sindaco Nardella ha proposto per motivare la scelta di perimetrare Santo Spirito: il bello non è una disciplina, non deve passare solo sulla sensibilità di riconoscerne il valore artistico ma deve attraversare prima di tutto quella carica pulsionale, quasi risorgimentale aggiungerei, che anima il significato di sapersi collettività, cittadini che appoggiano le loro natiche sulle pietre della città perché sanno che il loro culo seduto lì ha un valore politico.
In fondo poi mi chiedo perché tutto questo sgomento davanti all’odore di piscio che aleggia per le strade del centro se i cittadini temporanei (così vengono chiamati i turisti) non vengono qui proprio to taste the Renaissance, epoca in cui gli escrementi venivano lanciati dalla finestra senza l’accortezza di mirare verso l’Arno. È proprio questo il punto: così come allora non esistono più bagni pubblici nel centro di Firenze. Infine i giovani, ci dicono, sui quei gradini spacciano. Quindi mi sembra ovvio chiudere i gradini e non togliere la gestione della droga alla criminalità, con il risultato che al gioco delle sedie quando scatta la rincorsa per prendersi un posto si siederanno solo chi ha 7 euro per comprarsi un bicchiere con un po’ di ghiaccio colorato e noi rimarremo senza sedie, senza bagni, senza gradini.
Santo Spirito è un caso emblematico che parla del fallimento della politica. Questa scelta, se girata è come un arazzo di cui si possono vedere i filamenti intrecciati: a comporre l’immagine decorosa così come si è tentato di raccontarla è una politica priva di un’idea di futuro per la sua città che non sia valorizzare potenzialmente all’infinito una fase storica in cui è stata la massima esponente di una corrente artistica in tutto il mondo. Questo destino sembra quello di molte città d’arte meravigliose come Venezia o la piccola San Gimignano le quali si prestano a essere un’esperienza per turisti di tuffo nel passato: eccellenti espressioni artistiche di alcuni movimenti, godono di una coerenza visiva senza ingerenza di altri stili che le rendono più verosimili di una set per Cinecittà. Ma come ogni parco gioco ha una sirena di chiusura che invita i visitatori ad uscire e come mi ha confidato un mio collega sangimignanese i ragazzi la sera si ritrovano nelle lavanderie automatiche, gli unici locali aperti dopo che anche l’ultimo pullman ha caricato turisti e prosciutto di cinta senese. Santo Spirito racconta però una storia diversa fatta di politica e passione, ed è decisa a non lasciare indietro nessuno: è l’unica piazza del centro storico che a poche centinaia di metri ha un albergo popolare che ospita immigrati e barboni. Raccontare la sua resistenza che reclama il bisogno di politica è un punto da cui ripartire per attuare una città per tutti. Come si usa cantare proprio in quella piazza in cui termina ogni anno il corteo del 25 Aprile «vieni giù, vieni giù, manifesta pure tu, se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città» con la convinzione che i suoi cittadini sentiranno quel canto entrare dalle loro finestre, come hanno dimostrato in questi giorni gli studenti con molte iniziative.
Anita Fallani laureata in Lettere Moderne, si sta specializzando in Letterature Comparate e post-coloniali. Attivista, è vicina a questioni sociali come la lotta alla gentrificazione e il femminismo intersezionale. Si occupa di giornalismo culturale e ha collaborato con diverse testate nazionali tra cui Il Corriere della Sera.
25/5/2021 https://jacobinitalia.it
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