Il secchio vuoto di COP27

In occasione della COP (Conference of the Parties) 27, tenuto a Sharm El Sheikh, JAMA (Journal of the American Medical Association) e le riviste della rete JAMA, insieme ad altre 250 riviste internazionali, hanno pubblicato un editoriale che chiede un’azione urgente per affrontare la crisi climatica, per l’Africa e per il mondo intero.

L’imperativo morale di trovare una soluzione era ancora più cogente per il fatto che il summit si teneva in una capitale africana: la siccità nell’Africa sub-sahariana è triplicata dal decennio 1970-1979 al decennio 2010-2019; nel 2018, cicloni devastanti hanno colpito 2,2 milioni di persone in Malawi, Mozambico e Zimbabwe. Ma non è solo per ragioni morali che tutte le nazioni dovrebbero preoccuparsi dell’Africa: gli impatti acuti e cronici della crisi climatica aumentano povertà, malattie infettive, migrazioni forzate e conflitti i cui effetti si diffondono attraverso i sistemi globalizzati.

Il vertice di Sharm El Sheikh, che doveva concludersi venerdì 18 novembre, si è protratto fino alla mattina di domenica, sia per la caotica organizzazione egiziana della conferenza, deprecata dai partecipanti, sia per le molte questioni spinose su cui i negoziatori di quasi 200 nazioni si scontravano. Le discussioni vertevano soprattutto sull’obiettivo di impedire che le temperature globali aumentino entro fine secolo oltre 1,5 gradi Celsius, rispetto ai livelli preindustriali. Secondo alcuni esperti, tale obiettivo richiederebbe un’azione così drastica da essere irrealistico; in questo momento, poi, esso è comunque già minato dall’aumento del ricorso al carbone di alcuni paesi, in alternativa al gas russo.

Cosa comporti l’apparentemente minima differenza tra 1,5 gradi e 2 gradi di aumento della temperatura del pianeta è stato ampiamente ipotizzato da un rapporto del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici e Barth Eide, ministro norvegese dell’ambiente lo ha chiarito all’assemblea di Sharm: «Nel secondo caso, intere nazioni che ora sono qui rappresentate semplicemente sparirebbero della faccia della terra e molte delle città in cui viviamo e che amiamo,  non ci sarebbero più».

Nel frattempo, il pianeta si è già riscaldato in media di 1,1 gradi e da trent’anni le nazioni in via di sviluppo sollecitano i paesi ricchi e industrializzati a un risarcimento per i costi delle catastrofi che ciò ha comportato.

Chi deve pagare per i danni alle popolazioni dei paesi più fragili e meno industrializzati, quindi più incolpevoli del disastro ambientale?

Nell’ambito del Global Carbon Project sono state quantificate le responsabilità nell’aumento di gas serra delle nazioni più ricche: 23 paesi sviluppati (che assommano il 12% della popolazione mondiale) sono responsabili della metà di tutte le emissioni di CO2 e 150 paesi in via di sviluppo sono responsabili dell’altra metà.

Per scendere nel dettaglio, la distribuzione della “colpa” è così raffigurata:

Un altro metro per misurare responsabilità ed equità distribuisce le emissioni pro capite. Per esempio, nel 2020, l’India nel suo insieme ha prodotto circa il 7% delle emissioni mondiali di anidride carbonica (circa come l’Unione Europea e la metà degli Stati Uniti); ma l’India ha una popolazione più numerosa di quelle di USA e UE insieme e molto più povera, con centinaia di milioni di persone prive di un accesso affidabile all’elettricità. Di conseguenza, le emissioni per persona dell’India sono molto più basse che nelle altre due regioni; il ragionamento inverso spiega i valori dell’Australia. 

Nonostante l’incontrovertibilità di questi dati, fino alle ultime battute della conferenza di Sharm i due principali blocchi occidentali, USA e UE, hanno frenato sull’idea di costituire un fondo di aiuto per le nazioni fragili. Persino la sua definizione è stata oggetto di controversia: quello che per i paesi in via di sviluppo (e per gli attivisti climatici) è un “risarcimento”, viene chiamato “risorse per perdite e danni” (facility for loss and damage) dai diplomatici occidentali, specialmente americani. Preme a questi ultimi, soprattutto, di non essere ritenuti legalmente responsabili delle emissioni di gas serra e, quindi, legalmente tenuti ai pagamenti che, perciò, possono essere erogati su mera base volontaristica.

Per vincere questa battaglia, in una Conferenza annuale delle parti intrisa di legalese, in cui i diplomatici discutono per ore sull’uso di “sollecitazione” in contrapposizione a “richiesta” e dove una virgola errata una volta blocca i negoziati (l’accordo di Parigi del 2015 era quasi imploso per una disputa sull’uso di “deve” contro “dovrebbe”) gli Stati Uniti hanno messo in campo l’avvocato Sue Biniaz, figlia di una donna sopravvissuta perché nella lista di Oskar Schindler.

Biniaz, una veterana del dipartimento di stato USA, è da tutti riconosciuta un asso nel trovare la parola o la frase elusiva che può mettere d’accordo leader ai ferri corti; lei sa dove sono sepolti i punti e virgola in tutti gli importanti accordi delle Nazioni Unite, perché ha contribuito a metterceli, scrivendo addirittura un articolo accademico su come viene utilizzata la punteggiatura nei trattati sul clima.

Tuttavia, le 134 nazioni in via di sviluppo di Asia, Africa, America Latina, Caraibi e Pacifico meridionale, la cui esistenza è minacciata da una crisi che non hanno determinato, sono state implacabili nella loro richiesta di giustizia. Il gruppo era guidato dal Pakistan, che rappresenta il promemoria dei danni subiti per il cambiamento climatico (le inondazioni dell’estate hanno sommerso un terzo del paese e provocato oltre 1.500 morti e danni per 30 miliardi di dollari), a fronte delle scarse emissioni (meno dell’1% di quelle globali).

L’accordo sulla costituzione del fondo è stato raggiunto nella prima mattina di domenica.

Molti dettagli non sono ancora definiti e un comitato di rappresentanti di 24 paesi lavorerà nel corso del prossimo anno per stabilire la forma che deve assumere il fondo, quali paesi dovrebbero contribuire e a quali dovrebbero andare i soldi, come coinvolgere le Banche di Sviluppo Multilaterali (MDBs), Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale o banche regionali come Asian Development Bank e African Development Bank, che ancora oggi non rilasciano crediti agevolati per progetti legati ai cambiamenti climatici.

Tra i più grossi ostacoli vi è la pretesa di Stati Uniti e Unione Europea che la Cina non sia tra i paesi che ricevono, ma tra quelli che erogano denaro (in quanto grande emettitore mondiale di gas serra e seconda economia mondiale), anche se le Nazioni Unite attualmente classificano la Cina come un paese in via di sviluppo, il che la renderebbe ammissibile alla compensazione climatica.

Va detto, inoltre, che non vi è alcuna garanzia che i paesi ricchi depositino davvero denaro nel fondo, visti il mancato mantenimento dei precedenti impegni.

L’Unione Europea ha ceduto (praticamente ai tempi supplementari) insistendo, però, sulla possibilità che l’aiuto includesse, oltre che pagamenti diretti, opzioni diverse: alcune nazioni europee, per esempio, hanno promesso volontariamente più di 300 milioni di dollari sotto forma di un programma assicurativo.

Gli Stati Uniti, che hanno immesso nell’atmosfera più gas serra di qualsiasi altra nazione nella storia, hanno ceduto per ultimi, ma, anche se i diplomatici americani hanno acconsentito a costituire il fondo, è chiaro che il denaro dovrà essere stanziato dal Congresso; se l’amministrazione Biden, che chiedeva 2,5 miliardi di dollari per il clima ne ha ottenuto solo uno quando i democratici controllavano entrambe le camere, non sembra immaginabile che venga approvato un esborso per i danni climatici con i repubblicani che da gennaio controlleranno la camera.

Ciò spiega perché Mohamed Adow, direttore esecutivo del gruppo Power Shift Africa, che cerca di mobilitare per il clima tutto il continente, abbia definito l’accordo raggiunto “un secchio vuoto”: speriamo possa essere smentito.

Simonetta Pagliani

21/11/2022 https://www.scienzainrete.it

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